LUV
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LUV - Andrea Carlo Cappi & Ermione
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I
Nessun regalo arriva veramente gratis.
C’è sempre un prezzo da pagare.
Anche se stai attenta. Anche se pensi di avere giocato bene le tue carte. Anche se sei diventata un’altra. Perché ciò che ti rende più forte nello stesso tempo ti rende più debole, vulnerabile, dipendente. Non puoi più farne a meno.
Vale per l’amore, il denaro, il potere. Ti servi di qualcosa, ma intanto quel qualcosa si serve di te. Specie se dietro ci sono altri. Perché niente è mai a buon mercato. Soldi, sesso o sangue... un prezzo c’è sempre.
Ho avuto molto e perso molto, da meno di un anno a questa parte. Ho già pagato a sufficienza. Oggi deve toccare a qualcun altro. Lo sto aspettando, so che è in arrivo. Sono pronta ad accoglierlo. Ho un’arma e ho imparato a usarla. Vedremo come andrà a finire.
Tutto gira intorno a una cosa sola.
Si chiama LUV.
E all’inizio pensavo che fosse solo un mucchio di pelo sporco e maleodorante.
Splendida metafora, per una scrittrice.
1
«Guarda, Lorien.» Mi portai la mano agli occhiali da sole, su cui brillava il celebre logo di una casa di moda francese. Stavo cercando di spiegare alla mia amica cosa volesse dire fare la scrittrice. Eravamo sedute a un tavolino qualunque del solito bar nella piazzetta sotto casa, davanti ai resti del terzo caffè, che mi auguravo mi venisse offerto.
Le regole erano chiare: chiunque intendesse parlarmi avrebbe dovuto raggiungere i pressi della mia abitazione, presentarsi verso metà mattina e attendere per un tempo indefinito e indefinibile che decidessi di mettere piede giù dal letto. Le colazioni con le amiche erano un buon escamotage, seppure non infallibile, per indurmi a puntare la sveglia e trovare poi la forza di volontà di alzarmi senza girarmi dall’altro lato e continuare a dormire. A volte preferivo restare sospesa negli ultimi frammenti di un sogno, per non essere obbligata a tornare nel grigiore della realtà.
Avrei dovuto farmi scrivere pigra alla voce professione sulla carta d’identità. Invece ci avevo messo, con sommo orgoglio, scrittrice. Avevo segnato su ogni calendario il giorno della scadenza del documento, avevo fatto il conto alla rovescia e addirittura un brindisi quando l’impiegato del comune mi aveva sostituito il titolo di studentessa con quello di scrittrice. Fino a poco tempo prima nemmeno sapevo che si potesse mettere scrittrice anziché disoccupata. O parassita della società, come mi definiva ogni tanto mia madre.
Mi sistemai sul naso i grossi occhiali dietro cui ero solita nascondermi. Li portavo anche quando non c’era il sole, il che accadeva spesso. Ma quel giorno il lucore che filtrava attraverso il cielo grigio sembrava particolarmente aggressivo. «Guarda dietro le lenti. Riesci a vedere?»
«Ti riferisci al trucco sfatto?» sogghignò Lorien, con la presunzione di chi è cosciente di essere bella e la sfacciataggine di chi sa di apparire sempre al meglio.
Io non potevo certo contare su una bellezza mozzafiato, tutt'altro. Ero brutta. Brutta senza neppure il rifugio di ognuna è bella a modo suo. Mi perdevo in descrizioni di culi alti e gambe lunghe, che avrei voluto avere io ma mi accontentavo di dare in dotazione alle donne dei miei scritti. Brutta e grossa, in bilico tra la donna in carne e la botte di lardo, un fragile equilibrio che si sarebbe spezzato se solo avessi guadagnato uno o due chili in più.
«Allora, le vedi o no?» incalzai, ignorando lo spiacevole appunto di Lorien. Non c’era bisogno di ricordarmi che il make-up mi incrostava le palpebre da non meno di quarantott’ore. Ero troppo pigra per struccarmi e rifarlo.
«Cosa dovrei vedere?»
«Le storie! Dietro le lenti scure, oltre le mie ciglia... Guardale. Sono tutte lì.»
Lorien mi osservava pensosa. Sulle prime sembrò pensare che mi stessi prendendo gioco di lei. Poi lasciò che la curiosità le si manifestasse sul viso. «Vuoi dirmi che le storie sono già preconfezionate dietro al tuo sguardo?»
«Non proprio, ma non ci sei lontana. Guardati intorno, con calma, senza fretta.»
Lei scavallò le gambe e si passò una mano tra le lunghe e lucide extension nero corvino che esaltavano il suo pallore. Nonostante fossero di ottima fattura, non mi era sfuggito che fossero posticce e di sicuro molto costose. Simulando disinvoltura, Lorien prese a guardare coloro che sedevano nei tavolini vicini.
«Vedi qualcuno di interessante?» le chiesi. «Ognuno ha una storia. Ognuno è una storia.» Approfittai di quel momento per osservarla. Lorien sembrava molto diversa da quando indossava il grembiulino rosa. Doveva essere diventata una di quelle donne-gatto alle quali bastava procurare agiatezza e lusso perché facessero le fusa.
Posò lo sguardo su una ragazzina strizzata dentro un paio di hot-pants di jeans, firmati, che lasciavano nudi molti più centimetri quadrati di pelle di quanti ne riuscissero a coprire.
«Ferma, Lei no! La bellezza annoia», l’ammonii. «Non devi aver paura di sporcarti. Guarda oltre. Guarda meglio.»
«Lei?» tentò di nuovo Lorien accennando con il mento a una vecchia signora dall’aria piuttosto estrosa.
«Sì, ci siamo. Ora guardiamola insieme.»
La donna anziana, nonostante la temperatura fosse nettamente più alta rispetto ai giorni solitamente freddissimi di quel mese di aprile, si stringeva in una pelliccetta sintetica di un folgorante blu elettrico.
«Lo vedi tutto quel blu. Lorien? È già dietro le mie ciglia, oltre il trucco sbavato. Quel blu e quella pelliccia sono la mia storia.» Mentre parlavo, sforzandomi di far brillare la sua aura da scrittrice, la mia attenzione aveva già abbandonato il colore elettrico della vegliarda. Una storia più interessante si delineava all’orizzonte. Prendeva forma tra le efelidi di un’altra ragazza: lentiggini sparse a piene mani a costellarle il volto, le spalle e le braccia lasciate scoperte dal top bianco, grazioso ma usurato. Lentiggini anche sulle gambe che spuntavano da un paio di pantaloncini anch’essi bianchi e sdruciti. E lunghi capelli di un colore indeciso tra il biondo e il rosso, lisci, serici.
Poteva avere vent’anni. Forse meno, in realtà: a farla sembrare più grande erano gli occhiali da sole ad alta protezione, più pratici che eleganti e, intuii, necessari per proteggere occhi chiarissimi. Non era di una bellezza sfolgorante come la ragazzina dagli hot-pants firmati, ma proprio per questo molto meno banale. Per un attimo mi immaginai a passarle la lingua sulla pelle per sentire il sapore di quelle lentiggini, che supponevo coprire anche zone nascoste dai vestiti.
La sola idea mi accelerò il respiro.
«Adele, stai pensando al blu?» domandò Lorien, accorgendosi della mia distrazione improvvisa.
«Esatto», mentii. «Continua a guardare la storia attraverso le mie lenti, guarda come prende forma...» Ma intanto divoravo quel corpicino scavato e biancovestito.
Quella sì che era una storia.
Un capitolo per ogni lentiggine
Cosa ci faceva un tipino così in quel bar pieno di sfarzo e ostentazione? Cosa avrebbe potuto permettersi di bere, oltre alla bottiglietta d’acqua gassata che già da sola aveva un costo considerevole? Anche l’acqua minerale era aumentata in modo irragionevole. Di norma non ci facevo molto caso, cercavo sempre di far pagare qualcun altro al posto mio. E non credo che per Lorien fosse un fatto degno di nota.
La ragazza magra, quasi ossuta, sembrava scossa da una profonda inquietudine; non riusciva a tenere ferme le mani né a trattenere le gambe, che dondolavano a ritmo ipnotico.
Lorien era ormai uscita dal mio campo visivo. Non appena l’esile creatura diede segno di allontanarsi, lasciai sul tavolo tutti i pochi soldi che avevo. Per me equivaleva a un investimento economico: mia madre mi garantiva vitto e alloggio, ma quanto ad argent de poche lasciava parecchio a desiderare. A rischio di costringermi a figure imbarazzanti.
«Tieni il resto, immagino ci sia. E mi raccomando: continua a cercare storie.» Mi alzai senza dare spiegazione alcuna, attesi che la ragazza delle mie fantasie uscisse dalla cerchia dei tavolini all’aperto e mi misi a seguirla, standole dietro di qualche passo.
Dovevo fermarmi spesso, perché lei continuava a ricevere telefonate... o a farne. Impossibile dirlo con esattezza. Ma ogni sosta era un’occasione per guardarla meglio. L’incavo di quelle ginocchia magre era una delizia agli occhi di una come me, che avrebbe dato tutto il denaro di famiglia per essere snella senza rinunciare al cibo. Le vertebre della schiena che si intravedevano da sotto il top, poi... un’autentica prelibatezza. Difficile però capire cosa dicesse al telefono: riuscivo a captare solo qualche parola occasionale, che allontanava la mia prima ipotesi, cioè che fosse straniera.
Nella mia vita non mi era mai capitato di giocare all’investigatrice. Ero troppo pigra per farlo. Per quanto mi piacesse studiare le persone, persino spiarle, mi sarei stancata troppo presto di pedinarle. Camminare per le strade mi risultava fastidioso. In certi giorni il riverbero della polvere nell’aria moltiplicava l’effetto della luce in mille riflessi abbaglianti, come dopo una tempesta di sabbia nel deserto. In altri la coltre grigia che oscurava il cielo trasformava qualsiasi giornata dell’anno in un crepuscolo invernale. Non sapevo mai come vestirmi e di volta in volta rischiavo tanto di congelare quanto di sciogliermi in sudore. Ma la mia nuova storia, no, non me la volevo perdere, avessi dovuto seguirla in capo al mondo.
Mi fu sufficiente pedinarla fino ai margini del quartiere, in un condominio che doveva avere solo un paio di decenni ma sembrava già molto più vecchio. Anni prima il sovraffollamento della capitale aveva indotto molti a trasferirsi verso la costa, dando vita a un’edilizia selvaggia e sbrigativa che aveva urbanizzato buona parte della provincia. Le città e cittadine di fondazione nate con la bonifica di un secolo prima erano diventate quartieri di una nuova metropoli senza nome che occupava quasi tutta la pianura.
Un tempo l’edificio in cui era entrata la lentigginosa doveva essere quasi bello, verniciato di bianco. Ora la facciata e i balconi erano striati dall’acqua nerastra delle precipitazioni e intessuti di grossi cavi elettrici che avevano tutta l’aria di procurare corrente abusiva ai vari appartamenti, senza che nessuno si preoccupasse nemmeno di nasconderli.
Non feci in tempo a raggiungere il portone prima che si richiudesse. Non potevo seguire la ragazza all’interno. Provai a guardare il citofono, nella speranza di ricavarne qualche ulteriore indizio. La mascherina metallica era ormai priva di nomi, mancava la maggior parte dei pulsanti e i fili scoperti lasciavano intuire che avesse smesso di funzionare da quando c’erano ancora le stagioni.
Tornai sui miei passi e alzai lo sguardo. D’un tratto scorsi la lentigginosa a una porta-finestra del primo piano, un attimo prima che sparisse dopo avere tirato le tende. Continuai a fissare il balcone dalla strada, sperando che per qualche miracolo la ragazza si facesse rivedere. In un angolo notai lo scheletro di una grossa pianta rinsecchita. Lei non riapparve. Del resto, perché avrebbe dovuto?
Fu mentre stavo per allontanarmi che ebbi la sensazione di scorgere un lampo di luce azzurrognola balenare nella fessura tra le