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Il colore della nebbia
Il colore della nebbia
Il colore della nebbia
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Il colore della nebbia

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About this ebook

Sono almeno venti le voci narranti che si susseguono e si intrecciano a raccontare la storia di questo romanzo, più le “voci off” dei titoli dei giornali, dei sottopancia nei programmi di cronaca e quelle di anonimi commentatori. Le voci della “gente comune” che accompagnano lo scorrere quieto del malessere di una comunità, spezzato all’improvviso dall’omicidio di una bambina di otto anni. La caccia al colpevole sarà scandita dal consueto, necrofilo, scompiglio mediatico. Ogni essere di questa piccola, provinciale ne verrà travolto, e tutti i personaggi, nessuno escluso, si troveranno a fare i conti con quella nebbia che credono di conoscere, ma che ha ormai assorbito tutti i miasmi del male.
LanguageItaliano
PublisherDamster
Release dateMar 2, 2018
ISBN9788868103323
Il colore della nebbia

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    Il colore della nebbia - Eliselle

    Eliselle

    IL COLORE DELLA NEBBIA

    Prima Edizione Ebook 2018 © Damster Edizioni, Modena

    ISBN: 9788868103323

    Copertina

    Progetto grafico

    Massimo Casarini e Fabio Mundadori

    Damster Edizioni è un marchio editoriale

    Edizioni del Loggione S.r.l.

    Via Paolo Ferrari 51/c - 41121 Modena

    http://www.damster.it  e-mail: damster@damster.it

    Eliselle

    IL COLORE DELLA NEBBIA

    Romanzo

    INDICE

    Settembre

    Ottobre

    Novembre

    Dicembre

    Gennaio

    Febbraio

    Marzo

    L’autore

    Alla me stessa di ieri.

    A colei che non è più.

    Grazie per esserci stata.

    "Non so cos’è successo

    Un momento di follia

    Inizia un nuovo show

    Inizia l’autopsia

    Il sangue scorre a litri come piace alla tv

    Se in mezzo c’è anche un bimbo ci piace anche di più

    […]

    I cieli sul delitto

    Che alzano lo share

    Da guardare il pomeriggio con i biscotti e il tè

    La morte in diretta ci piace lo sai tu

    Gli omicidi in famiglia ci piacciono di più"

    (Killer Star, Immanuel Casto)

    "Ogni volta che due persone si incontrano

    e stabiliscono una relazione

    si tratta di vedere chi domina l’altro.

    La gente non ha imparato ad amare.

    Il prerequisito per potere amare senza dominare l’altro

     è che il tuo corpo impari,

    dal momento in cui abbandona il ventre della madre,

    che può morire."

    (Le lacrime amare di Petra Von Kant, Rainer Werner Fassbinder)

    "L’odio è un liquore prezioso,

    un veleno più caro di quello dei Borgia;

    perché è fatto con il nostro sangue, la nostra salute,

    il nostro sonno e due terzi del nostro amore.

    Bisogna esserne avari."

    (Charles Baudelaire)

    "Molto più importante di quello che sappiamo o non sappiamo

    è quello che non vogliamo sapere."

    (Eric Hoffer)

    Se non posso averti, amore mio, ti distruggerò.

    (La Strega, Dark Shadows)

    Settembre

    Accadimenti

    La strada intagliata nei campi.

    Il fossato che la accompagna.

    La pista ciclabile srotolata lì accanto.

    Gli alberi alti e imponenti la dividono dalle rare abitazioni.

    Nell’aria la fragranza delle foglie, l’umido della terra, l’insistenza dell’acqua.

    Nel vento passi nervosi, pugni stretti, qualche calcio tirato a un nemico invisibile.

    Il vuoto di un pomeriggio uguale a qualunque altro pomeriggio di inizio autunno.

    È difficile tornare a casa quando hai paura delle botte.

    Non vuoi tornarci perché sai che tuo padre sarà arrabbiato, che tua madre sarà stata avvisata dell’assenza. Ti immagini già che tua madre gliel’ha detto e lui ti aspetta per dartele. Sai che te le aveva promesse, se avessi disubbidito, e che manterrà la parola data.

    La cartella è pesante, i libri sono troppi. C’è anche un vocabolario. Ti serviva per il tema.

    Il tema non l’hai fatto. Hai preferito non andare a scuola. Hai bighellonato tutta mattina in lungo e in largo per la campagna, hai incrociato qualche animale selvatico, sei arrivata fin quasi al castelletto, hai raccolto un pezzo di ramo caduto da un albero di quercia e l’hai pulito bene, al ritorno ti sei fermata a guardare le anatre e i cigni nel laghetto in cui da piccola ti portava il papà, quando ancora non era così nervoso e riuscivate a passare delle belle domeniche assieme. In quell’attimo, ti sei sentita serena.

    C’è stato un momento in cui hai avuto paura.

    Hai trovato una bambola rovinata, impiccata al filare di una vigna.

    Sembrava abbandonata lì da tanto tempo.

    La cuffietta sbiadita e l’abito strappato.

    Un occhio chiuso e l’altro aperto.

    L’espressione fissa e attonita.

    Senza un braccio, un ginocchio rotto.

    Senza una scarpina.

    Ti sei avvicinata e ti sei chiesta chi avrebbe mai potuto lasciare una bambola appesa lì, e perché. Forse una bambina se l’era dimenticata nel corso di qualche gioco. Forse qualcuno aveva voluto farle uno scherzo o un dispetto, e così le aveva messo un cappio al collo e l’aveva issata sin lassù. Tra i grappoli ormai maturi.

    Hai visto un chicco succoso, ti sei allungata e l’hai staccato dagli altri, l’hai pulito e te lo sei messo in bocca. Quando la buccia è tutta colorata, la polpa è così dolce e l’acino è ben sodo, l’uva è matura e significa che va vendemmiata.

    Sai che tua madre ci andrà anche quest’anno.

    Ogni anno per arrotondare si mette un cesto sulla schiena e va a raccogliere l’uva.

    L’avevi sentita raccontare in casa che ci sarà anche lei, e che è già stata avvisata. Inizierà tra qualche giorno, col sole, insieme a tante altre persone e al contadino che l’ha chiamata, che possiede quelle terre e quei vigneti.

    Mentre gustavi il chicco d’uva con la voglia di prenderne già un altro, avevi sentito un rumore alle tue spalle e ti eri voltata d’istinto, appena in tempo per vedere un’ombra sparire nel filare. Lo stomaco aveva fatto una capriola e il respiro si era spezzato, le gambe avevano fatto tutto da sole e si erano messe subito in moto, sembravano telecomandate, come se agissero di volontà propria, e di corsa ti eri diretta verso la pista ciclabile, il fossato e la strada principale, tagliando a perdifiato i campi e lasciandoti alle spalle la vigna, l’uva matura e la bambola impiccata.

    Non ti eri fermata mai. Non prima di aver saltato il fosso. Non prima di arrivare alla strada.

    Una volta raggiunto l’asfalto, solo in quel momento hai ripreso a respirare.

    Ti sei guardata attorno, non c’era nessuno.

    Hai pensato che andava tutto bene, che era normale.

    C’era stato un momento di paura. Ma ormai è passato.

    Ora devi solamente trovare il coraggio di tornare a casa.

    Giulia

    Il gas.

    Non ho chiuso il gas.

    Appoggio la borsa sul ripiano dell’entrata e torno indietro per chiudere la manopola. Controllo che sia ben salda nella posizione di sicurezza. Quando sono sicura che tutto stia come deve stare, mi dirigo fuori afferrando la borsa e chiudendomi la porta alle spalle. Respiro. A lungo.

    Gli schemi ripetitivi, sono quelli che mi fottono.

    Gli schemi ripetitivi mi rovineranno la vita.

    Io lo so.

    Cerco le chiavi del motorino, mi metto a frugare come al solito senza raccapezzarmi nel mio casino. Eppure ho una borsa piccola. In confronto a quelle che usava mia madre, minuscola. Nonostante questo, riesco a smarrirci lo stesso le cose dentro. Le infilo nelle tasche di lato ma poi ho paura di perderle così le lascio galleggiare, mischiate l’una all’altra, senza preoccuparmi di quando andrò a cercarle e di quanto tempo ci metterò a trovarle.

    Sono gli schemi ripetitivi, la mia finta sicurezza.

    Gli schemi ripetitivi mi fottono sempre.

    – Buongiorno Giulia, tutto a posto?

    Alzo la testa e vedo l’arpia alla finestra che mi saluta con la mano.

    Quattrocento pidocchiosi euro al mese per un buco di stanza di merda.

    E ha pure il coraggio di chiedere se tutto è a posto.

    Stronza.

    – Sì, grazie, e lei?

    – Non ci lamentiamo, da vecchi...

    Plurale maiestatis.

    Non ci lamentiamo, noi.

    Mica ci lamentiamo, noi vecchi.

    A differenza di voi. Voi giovani.

    Che siete sempre lì a lamentarvi e a incasinarvi la vita.

    Per un pugno di soldi in più. Per una scopata in più. Per le sciocchezze che voi potete permettervi di fare grazie a noi. Che ci siamo fatti il culo per anni, che abbiamo sputato il sangue e lavorato sodo per darvi tutto questo.

    Mi guardo istintivamente attorno.

    Quello che vedo non mi piace per niente e mi viene un rigurgito di odio.

    Sto per vomitare, ma ricaccio tutto indietro e non dico nulla. Mi limito a sorridere.

    Sorrido perché è quello che l’arpia vuole, quello che in generale la gente si aspetta da me.

    Dopotutto sono una brava ragazza. Faccio un lavoro socialmente utile.

    Agli occhi degli altri devo essere quella sempre sorridente, quella sempre disponibile.

    Quella che non si lamenta mai.

    Sorrido e ricambio il saluto con la mano, che ora stringe le chiavi del motorino.

    – Bene, allora. Buona giornata!

    L’arpia non risponde.

    Si rintana di nuovo in casa sua e chiude la finestra.

    Sola come un cane, in quell’appartamento troppo grande per lei.

    Ha quasi il triplo dei miei anni e ancora non si è decisa a fare il passo definitivo.

    Ha un’ottima fibra. Di sicuro migliore di quella delle nuove generazioni.

    Così fragili e autodistruttive. Così deboli e paranoiche.

    Così disperate e anaffettive. Così solitarie e impaurite.

    Eppure, gli schemi ripetitivi non mi aiutano. Neppure io sono meglio di così.

    Anche io sono una di loro. Anche io faccio parte di una generazione senza scopo né posto.

    Anche se cerco di nasconderlo, soprattutto a me stessa.

    Vale

    La fila di crocette più lunga è quella accanto al nome Dimitrya.

    Così secondo loro è lei la più carina della classe.

    I maschi non capiscono proprio un cazzo. Bisogna spiegarglielo con le cattive. Mia madre lo ripete sempre che i ragazzi sono più immaturi, e si vede. Si vede da questo sondaggio di merda, dove Dimitrya mi ha battuto per ben cinque punti.

    Eppure lo sanno, no?

    Lo sanno che in questa scuola sbavano tutti per me. Ma forse per loro non è abbastanza.

    Appallottolo il foglietto con rabbia, lo getto nel lavandino, liberandomene in fretta, come se mi bruciasse la pelle.

    Prendo l’accendino e gli do fuoco, osservando le fiamme che se lo mangiano, lo inghiottono e lo fanno sparire senza pietà, prima di soffocare a loro volta a contatto con la ceramica bianca e umida. Lasciano una macchia scura, come un marchio. Apro il rubinetto al massimo e faccio scorrere l’acqua qualche minuto per cancellarla definitivamente.

    Mi guardo le mani e le dita, controllo che lo smalto sia ancora perfetto.

    Mi guardo il viso allo specchio, tolgo con cura una riga nera di troppo dalle palpebre.

    Sono di nuovo a posto.

    Contegno divino, espressione distante. Sono di nuovo come devo essere.

    La rabbia celata dietro il sorriso, il rancore sepolto sotto il mascara.

    Vorrei proprio sapere chi sono i cinque deficienti. I cinque menomati mentali che hanno messo il loro voto accanto al nome di quella zoccola.

    Dimitrya.

    Lo dice anche il nome. Dimitroia, la chiamiamo.

    Lo sanno anche loro, no? Lo sanno, che è una troia. Che la chiamiamo così per questo. Forse è proprio il motivo per cui ha vinto il sondaggio di più carina della classe, perché gliel’ha promessa. La darà a ognuno di loro durante l’intervallo, nei cessi della scuola, o nel pomeriggio in quelli della biblioteca. Loro si metteranno in fila, lei a gambe aperte, e se la scoperanno a turno come animali. Oppure se li porterà direttamente a casa, tanto è capace di farlo di mestiere, come la madre. Me lo dice sempre anche mio padre: stanne lontana, mezza romena e mezza bulgara, non se ne ricava nulla di buono, quelle hanno il sangue sporco, sono diverse da noi, non hanno princìpi né integrità, vengono qua a fare le puttane e a farsi sposare dai vecchi per farsi intestare case, proprietà, patrimonio, sono tutte uguali.

    È vero. Ora ho le prove. Mio padre ha ragione.

    Questa stronza di una zingara viene qui e pensa di fare quel cazzo che le pare. Si fa eleggere la più bella della classe pensando di passarla liscia, come se nulla fosse. Ma non funziona così. Se viene qui, deve fare quel cazzo che le dico io. Lei pensa che un paio di buoni voti la possano salvare dalla sua misera vita, che la sua bocca da succhiacazzi le possa assicurare il successo e il riscatto sociale. Be’, pensa male.

    Lei che scalza me dal trono. Inaccettabile.

    Afferro il cellulare e scrivo un messaggio sul gruppo di Whatsapp. Il mio gruppo. Dove io sono la regina e le altre solo ancelle. Barbara, Michela e Sabrina: a rapporto.

    Barbara, la smorfiosa, ci sa fare con le parole. È brava a lavorare dietro le quinte, a seminare zizzania, a raccogliere voci, confidenze e pettegolezzi; è stata lei a inventare il soprannome che abbiamo affibbiato a Dimitrya. Certo, non serve un genio, avrebbe potuto arrivarci chiunque, ma il punto è: lei ci è arrivata prima. È il mio orecchio, quando non sono presente.

    Michela, la piccola nerd, sa usare il computer come nessuno. Entra nel portatile della preside attraverso la rete, la tiene d’occhio, previene le sue mosse, la controlla. È la mia sentinella, quando devo agire.

    Sabrina, il flagello di Dio, sa menare le mani anche meglio dei maschi. Nessuno lo sa ma si porta sempre dietro un arsenale, nello zaino: uno spray al peperoncino, un coltellino, un cacciavite, dice che possono sempre tornare utili. È il mio braccio, è carne da macello, perfetta quando bisogna fare il lavoro sporco.

    Mi adorano perché io sono tutto quello che vorrebbero essere. Sono le mie schiave, perché vorrebbero stare al mio posto, ma in un angolo della loro mente sanno, in fondo, che questo non accadrà mai.

    La loro ammirazione è la mia forza.

    La loro invidia è la mia affermazione.

    La loro paura, mi dà potere.

    Lorena

    – Me lo diresti?

    Lui alza lo sguardo, la fissa.

    – Che intendi?

    – Ti chiedo solo se me lo diresti.

    – Ma cosa?

    – Se ti stessi stancando di me.

    Lei lo sa che gli uomini perdono interesse. In fretta, anche.

    Subito sono attenti, premurosi. Sono presenti, si fanno sentire, scrivono messaggi su messaggi. Ci sono.

    Scrivono cose bellissime, tipo sei la mia luce, o ti adoro.

    Poi la novità passa, l’attenzione diminuisce, le telefonate e i messaggi scemano. Si fanno sempre più rari, fino a quando non scompaiono del tutto. Fine della relazione. Punto e a capo.

    La certezza di cacciare dà forza ai maschi. Per loro, è solo questione di opportunità.

    Una volta che hanno conquistato, si defilano.

    Una volta che hanno in pugno la nuova conquista, la abbandonano.

    Semplicemente, se ne trovano un’altra.

    Per questo motivo Lorena non vuole dargli l’impressione di essersi innamorata. Sa che lasciarlo intendere è un rischio, palesarlo una condanna. Ufficializzarlo? Mai.

    – Se capiscono che ti sei innamorata, se glielo confessi, si volatilizzano –, pensa. – Perché la caccia grossa è finita. Perché possono dedicarsi a una nuova preda.

    D’altra parte anche loro sono bravi a fingere di non capire. In fondo è comodo razionalizzare le proprie colpe, illudersi che sia un gioco innocente, che non lascia morti né feriti. Un gioco che con un semplice colpo di spugna pulisce tutto, senza alcun effetto collaterale indesiderato. Senza strascichi. Solo strette di mano e amici come prima.

    Per gli uomini funziona così: vince il menefreghismo, vince l’opportunismo.

    Chi ci rimette è sempre il più debole.

    – Allora? Avresti le palle per dirmelo?

    Sdraiato sul letto accanto a lei, nella penombra della stanza, le sorride.

    – Non capisco perché me lo chiedi.

    – Sono curiosa, tutto qui.

    – Curiosa?

    – Sì.

    Il sorriso di lui lascia il posto a un ghigno beffardo.

    – Non chiedi mai niente, e tutt’a un tratto ti metti a fare domande?

    Lorena stringe gli occhi, lo fissa.

    – E che domande, poi!

    Si mette a ridere.

    Lei non ride.

    – Non hai ancora risposto.

    – Non c’è bisogno di rispondere, lo sai.

    Evasivo come al solito.

    Per tutto il resto si lascia andare, le racconta tutto di sé, della sua vita. Si svuota. Ma quando arrivano a parlare di loro, ecco che cambia discorso. È il noi che lo terrorizza. Dice solo "eehh?" sorridendo e distoglie lo sguardo. Fa battute. Nicchia. Sposta l’attenzione su qualcos’altro. Non si sbilancia mai. Non cade mai in tentazione. Dopo quasi due anni è ancora a questo punto. Un equilibrista nato.

    Lei lo invidia, per come riesce a farlo.

    La sua bravura la fa incazzare, ma la affascina.

    – Non rispondi perché sai che la risposta non mi piacerebbe –, provoca.

    Lui le afferra il polso e la attrae a sé.

    Inizia a baciarla, a leccarle il collo, i capezzoli, l’ombelico.

    – Non rispondo perché, se permetti, qua c’è di meglio da fare.

    Nick

    Il suo culo perfetto.

    La sua schiena inarcata.

    Lei che muove i fianchi con le sue dita dentro.

    È tutto.

    Tutto quello che gli viene in mente in questo momento sono il suo culo, i suoi fianchi, la sua fica succosa e le sue dita dentro di lei.

    Lui, che si gode il panorama e lo fissa nella sua mente come una fotografia.

    Lui, che si rovina l’immagine aprendo gli occhi e trovando la moglie in piedi, davanti alla sua faccia, con il bambino in braccio, gli occhi preoccupati, lo sguardo ansioso.

    Quel pigiama e quei cinque strati di stoffa che la ricoprono, pura antitesi del sesso.

    Si mette seduto e si toglie le cuffie dalle orecchie.

    – Che succede?

    – Il bambino sta male.

    – Cos’ha?

    – Non lo so, ha la fronte che scotta, bisogna portarlo al pronto soccorso.

    – Gli hai già provato la febbre?

    – No ma ha la fronte caldissima, bisogna andare al pronto soccorso.

    – Cazzo Angela, calma, prima proviamo la febbre. Dov’è il termometro?

    Nicola si alza e molla l’iPod sulla scrivania tra giornali, laptop, carte e documenti sparsi. Va nello studio, apre l’armadio dei medicinali, cerca il termometro digitale e lo trova dopo aver incasinato e messo sottosopra tutto lo scaffale. Torna in camera. Angela si è seduta sul letto, tiene il bambino in braccio. Lo guarda, lo culla, le gote accese, gli occhi mobili.

    – Fai vedere un po’ qua... – e si avvicina al piccolo che se ne sta abbracciato alla madre senza muovere un muscolo, con gli occhi chiusi, succhiandosi il pollice. Toglie il tappo al termometro, lo accende, lo infila delicatamente nel condotto uditivo e attende il suono.

    – Allora?! – chiede Angela, ansiosa.

    – Un secondo!

    Puntuale, arriva il suono.

    Nicola controlla il minuscolo schermo LCD.

    – Che dice?

    Trentasei e nove.

    – Dice che sei paranoica. Manco ai trentasette, arriva. Chiama il pediatra domattina e senti che gli possiamo dare se si sveglia con la febbre.

    Lei lo guarda come se l’avesse schiaffeggiata. Lo guarda con disprezzo, come se gli volesse sputare addosso. La sferzata arriva, puntuale, come ogni volta.

    – Bene. Allora stanotte dormo col bambino.

    Prende, si alza e se ne va portando via Federico e lasciando in camera da letto suo marito, da solo.

    Non ha ancora capito come stanno le cose. Che la sua punizione, in realtà, per lui non conta un cazzo.

    Non ha capito che invece di indispettirlo, gli sta facendo un favore, che per lui è una liberazione non averla attorno. Non ha capito che preferisce un milione di volte dormire da solo, svegliarsi da solo, senza lei accanto. Ha un sacco di cose da fare, Nicola. Ha un sacco di cose da non fare.

    La sua connaturata apatia non lo aiuta, ma troverà il modo di far passare le ore che lo dividono dal giorno successivo, si rilasserà un po’ in attesa della giusta ispirazione.

    Accenderà la televisione. Si guarderà qualche porno. Si masturberà davanti a un trio lesbo.

    E penserà di nuovo a lei. Al suo culo. Ai suoi fianchi. Alla sua fica umida.

    Alla sua dolcezza. Alla sua innata capacità di dargli quiete.

    Da solo. Senza moglie tra i coglioni.

    In santa pace.

    Giulia

    La superficialità.

    La superficialità con cui si vivono i rapporti.

    È un percorso verso il nulla. Una corsa verso l’autodistruzione. Un inciampo e sei fuori.

    Me ne accorgo tutti i giorni.

    Non ho idea di che cosa fare per non pensarci, ma sento un vuoto incolmabile dentro che niente e nessuno può riempire. Mi sto ancora leccando le ferite e si suppone che io debba andare avanti, nonostante tutto. Non fanno altro che ripetere le stesse cose, ogni volta che si entra in argomento.

    Le mie colleghe sposate dicono: – Non sai quanto sei fortunata, goditela tu che puoi!

    Non capisco cosa ci sia di così godibile nell’assenza. Nelle sue conseguenze.

    Frustrate, disilluse, abbandonate dai mariti che non pensano che a loro stessi e non le calcolano nemmeno di striscio, ricordandosi a malapena di salutarle quando vanno al lavoro.

    Serena, una delle poche ancora libere, dice: – Ne troverai un altro, questo non era quello giusto. Vedrai se non è così.

    Ma non ci credo. Non ci credo più.

    Anni di tentativi. Non esiste quello giusto.

    E non è una questione d’amore. Tutti si impastano la bocca con questa parola per le ragioni più disparate. Ma non è l’amore, il problema.

    Il problema è la coppia. La coppia è il vero male.

    La coppia è il mostro. Capace solo di sporcare, avvelenare i sentimenti, approfittarsene, succhiarli fino all’osso, darli per scontati e non pensarci più. Segregandoli in uno spazio stretto, mettendoli sotto chiave, soffocandoli col cuscino dell’aridità, dell’opportunismo e delle aspettative.

    – Tu credi nell’amore?

    La domanda mi sorprende mentre sto mescolando lo zucchero nel caffè.

    Guardo Serena negli occhi. Mi chiedo se non abbia intuito cosa sto pensando.

    – Perché me lo chiedi?

    – Così – e scrolla le spalle.

    – Non salta fuori dal nulla una domanda del genere. Che è successo?

    Serena è titubante, ci pensa un po’ sopra, poi prende un lungo respiro e sputa il rospo.

    – No, niente. È che c’è un tizio. Un matrimonio fallito alle spalle.

    Divorziato.

    Strano.

    – E ti piace?

    – Molto.

    – Allora stanne lontana.

    Getto la barretta di plastica dura nel cestino e bevo un sorso, piano. Il caffè è bollente.

    – Perché dici così? Nemmeno lo conosci.

    – È divorziato. Non è abbastanza per girare alla larga?

    – Be’ ma che c’entra? Tutti possono sbagliare una volta nella vita, no?

    – No.

    Serena mi fissa incredula. L’ho spiazzata, non sa cosa rispondere. Io affondo.

    – Se ne valeva davvero la pena, la moglie se lo sarebbe tenuto stretto. E se lui fosse una persona che merita, non avrebbe un matrimonio fallito alle spalle. Per far fallire un matrimonio bisogna essere in due, e se ci rifletti bene, lui non può essere tanto meglio di lei. Gira alla larga.

    Un altro sorso, sento il liquido caldo scendere nell’esofago e arrivare allo stomaco, inghiottito dai succhi acidi del mio stomaco. Devo bere meno caffeina. Mi fa male.

    – Non so, Giulia. Parli così perché devi ancora superare il lutto. Ma cambierai idea.

    La guardo negli occhi, sorrido.

    – Cambiare idea, io?

    – Sì – fa lei, annuendo comprensiva. E aggiunge: – Accadrà quando incontrerai quello giusto.

    Ci avrei scommesso. Ancora con questa storia. Serena, come le altre, è una causa persa.

    Nick

    Le corre incontro, lo zaino ballonzolante che le rimbalza sulla schiena.

    – Ciao papà!

    – Tesoro mio.

    Matilde gli abbraccia la vita, Nicola le accarezza la testa e la prende per mano. Si dirigono verso l’auto e non appena lei la nota, ha un improvviso moto di delusione che non riesce a nascondere.

    – Dov’è?

    – L’ha presa Sandro.

    – Ma io pensavo di farci un giro.

    Ci mancava solo questa, pensa il padre.

    – Maty, abbi pazienza. La prenderò domani.

    – Ma l’avevi detto anche ieri e oggi non ce l’hai.

    – Oggi è andata così, ma ti prometto che domani la prendo. Sali che andiamo, alla mamma serve l’auto, deve portare tuo fratello dal pediatra.

    Il cellulare di Nicola gli vibra nella tasca. Lui apre la portiera e fa salire la piccola sui sedili posteriori, e mentre lo fa estrae il cellulare e trova il messaggio. Lo apre, lo legge.

    "Ancora indolenzita, nelle viscere il ricordo di te. Mi sono toccata, appena sveglia. Ho ripercorso ogni attimo. Ogni respiro. Ci sei stasera, per me?"

    È un attimo.

    Le immagini di lei, nuda, eccitata, invadono la sua mente come colla.

    Lei sopra di lui. Lei sotto di lui. Lei davanti a lui. Lei che gli lecca le palle.

    Lei, lei, lei. Sempre lei. La sua isola segreta. La sua luce. La sua quiete.

    Nicola scuote appena la testa. Si stropiccia gli occhi con le dita della mano libera per riprendersi. Non può fare a meno di ripetere nella testa parole come un mantra: Devo ritornare in me. Devo mantenere le distanze. Devo tenere conto dei miei doveri. Devo ricordare le mie responsabilità.

    Scrive quattro parole.

    "Alle nove da te."

    Le invia.

    La risposta non tarda ad arrivare.

    "Ti sento. Ti bacio."

    Sorride. Cancella tutto e rimette il cellulare nella tasca, controlla che Matilde si sia tolta lo zaino dalle spalle e abbia indossato la cintura, prende le chiavi dell’auto. Un lampo di consapevolezza gli attraversa il cervello: ogni volta che torna alla realtà, fa sempre male.

    – Dobbiamo accompagnare a casa anche Lara?

    – No, è andata via un’ora prima.

    – Ah, come mai?

    – Stava male. Sua mamma è venuta a prenderla, ha anche firmato un permesso.

    Matilde glielo dice con aria solenne e una punta d’invidia: la sua amichetta che si defila dalla classe e si fa portare via un’ora prima è quasi un evento, per lei.

    Alle volte anche Nicola vorrebbe avere qualcuno che lo porta via da quella vita, poi pensa a Federico e a Matilde e capisce che non può. A nessuno verrebbe mai in mente di firmargli un permesso, né una giustificazione motivata da chissà quali spiegazioni: la voce moglie rompicoglioni non è contemplata nelle possibilità, così come tutte le altre voci a essa correlate. Per lui non è più tempo per queste cose, ormai.

    – Bene, allora possiamo andare.

    Chiude la portiera e guarda l’orologio.

    È già in ritardo. È tutta una corsa.

    – Cos’avete fatto stamattina? – chiede alla figlia mentre mette in moto.

    – Abbiamo fatto un tema. La maestra ci ha chiesto di raccontare un nostro sogno e io ho scritto che volavo. Volavo in alto come gli uccelli e guardavo giù e vedevo tutta la città. Poi ci ha dato i compiti. Poi basta.

    Anche Nicola sogna, i suoi sono incubi. Sogna spesso di qualcuno che gli mette un laccio attorno al collo. Certe volte è un cappio. Ma ogni volta stringe di più.

    Ogni volta fa sempre più male.

    Angela

    – Che compiti hai per domani, Maty?

    Angela controlla che la temperatura sia giusta e infila le patate nel forno, chiude di fretta lo sportello che rimbalza senza agganciarsi e tornando indietro quasi le colpisce la mano.

    – Anche questo è da cambiare, ormai! Sta tirando gli ultimi, come la lavatrice in solaio!

    Come la mia pazienza, pensa.

    Matilde arriva in cucina trascinando lo zaino e sbuffando come se le fosse successo chissà ché.

    – Cos’hai da lamentarti?

    Appoggia la cartella accanto alla sedia e si mette seduta, inizia a tirare fuori libri, astuccio e diario. Svogliata e assente. Tutta suo padre, ripete Angela a se stessa.

    – Allora? Rispondi o no?

    – Oggi papà è passato a prendermi con la macchina sbagliata.

    – È già tanto che sia passato a prenderti. Allora, che compiti hai?

    – Niente. Devo colorare.

    Una scusa che non ha mai sentito.

    – Fammi vedere il diario.

    Lo prende senza aspettare che sia la figlia a darglielo. La donna sfoglia le pagine, arriva a quella dell’indomani, legge la calligrafia grande e irregolare di Matilde.

    Compito: disegna la tua famiglia e scrivi un pensiero per descriverla.

    – Qui c’è scritto che devi disegnare e non solo...

    – Il disegno l’ho già fatto. Devo solo colorarlo.

    La curiosità è forte.

    – Fammi vedere.

    – Perché?

    – Perché sì, fammelo vedere.

    Matilde fissa la madre, poi distoglie lo sguardo. Capisce che aria tira. Si piega sullo zaino, estrae lentamente una cartellina rosa, la apre con calma, prende il blocco di A4 e lo sfoglia. Fiori, alberi, animali, biciclette, case, automobili e altre forme strane e fantasiose si susseguono una dopo l’altra, fissate sulla carta rugosa, fino a quando le sue dita si fermano su un foglio con uno schizzo in bianco e nero, disegnato a matita. Lo afferrano e lo fanno scivolare via, mostrandolo allo sguardo autoritario di Angela. Che si trova a osservare un disegno incompleto.

    – Qui c’è solo una figura.

    – Devo finirlo.

    – Avevi detto che l’avevi già fatto, che dovevi solo colorarlo.

    Matilde la guarda e sta zitta. È intimorita. Aspetta un suo cenno, una parola.

    Davanti alla madre, sul foglio, una figura che ricorda quelle stilizzate sulle porte dei bagni all’autogrill.

    – Chi è questo, papà?

    La bimba non risponde, fa cenno di sì con la testa ma non apre bocca.

    Suo padre. Sempre lontano, distratto, distante. Angela non ricorda se era così, quando si sono conosciuti. Non lo ricorda affatto. Se non lo amasse tanto, forse lui se ne andrebbe. Se non ci tenesse alla famiglia, lei se ne sarebbe già andata da un pezzo. Nicola, questo, sembra non capirlo, sembra che se ne freghi di sua moglie. L’unica cosa a cui tiene sono i suoi figli: Matilde, Federico. Se non ci fossero loro due, lei lo sa, finirebbe tutto tra loro. La lascerebbe lì, alla soglia dei quaranta, abbandonandola senza pensarci sopra due volte. Sola, a ricominciare da capo. E quello è un pensiero che la terrorizza.

    Nella sua mente si forma all’improvviso un’immagine, un progetto.

    Una figura femminile, una figura maschile. Non si toccano, sono lontane. C’è un buco bianco, uno spazio enorme in mezzo a loro. Una didascalia triste e delicata, che recita li voglio vicino, e sopra alle due figure le parole mamma e papà, a indicare i protagonisti della storia. La loro storia.

    – Ti aiuto io a disegnare, Maty, e anche a scrivere – le dice.

    Matilde guarda la madre, sorpresa.

    – Ma se poi lo scoprono? – risponde lei, innocente.

    – Sarà il nostro piccolo segreto. Io non dirò niente, e tu?

    La bambina sorride.

    Angela lo sa che Matilde è il suo punto debole. Attraverso di lei, sa esattamente come e dove colpire Nicola. Sa dove arrivare, per attirare la sua attenzione. Per farlo restare con loro.

    Dopotutto, pensa, lo faccio solo per il nostro bene.

    Giulia

    Le pareti.

    Le pareti sono troppo sottili.

    Sento i rumori. Tutti i rumori.

    Sento la televisione dell’arpia a cui pago l’affitto per questo buco del cazzo, il tunisino dell’appartamento di sopra che corre su e giù per le scale, i vicini che litigano, i loro figli che urlano mentre sono alle prese con i miei incubi e magari sto cercando di ricordarmi se ho lasciato aperto o no il gas.

    In questo cazzo di condominio non c’è privacy.

    Pago troppo, per questo buco, devo cambiare qualcosa.

    Non posso farmi fregare sempre da questi schemi. Devo cambiare qualcosa nella mia vita.

    Devo iniziare da qualcosa, qualsiasi cosa. Inizierò col cercarmi un altro appartamento.

    Accendo la luce sul comodino, il muro si illumina parzialmente, tutto il resto rimane in penombra.

    Mi tolgo le lenzuola di dosso e scendo dal letto, vado a cercare il giornale degli annunci che ho preso ieri al centro, afferro una penna e torno a letto. Cerco di concentrarmi. Cerco la pagina degli affitti. Stanze, stanze nuove. Stanze per ragazze, per studentesse lavoratrici o solo per lavoratrici. Referenziate. L’occhio mi cade sugli annunci di lavoro.

    Mi distraggo di nuovo.

    Mi metto a leggere gli annunci.

    Costruisci una carriera migliore, inizia uno.

    Ti affidiamo il nostro business, recita un altro.

    Organizzerai, coordinerai, ottimizzerai.

    Quanti paroloni.

    Mi viene da ridere.

    Termini così altisonanti per dire quello che tutti in fondo sanno già: qui per te c’è un lavoro che ti spaccherà in due la schiena e ti fiaccherà l’anima, in cambio ti diamo uno stipendio da fame che ti permetterà a malapena di arrivare a fine mese e, quel che conta di più, ti regaliamo l’illusione di essere ciò che cerchiamo. Ciò che vogliamo. La persona ideale, l’elemento fondamentale per far funzionare l’ingranaggio in cui ti inseriamo. La tessera mancante. La quadratura del cerchio.

    Fossi al posto loro, mi vergognerei.

    L’ultimo annuncio attira la mia attenzione. È diverso da tutti gli altri.

    Lo leggo con un senso di sollievo che mi nasce dentro man mano lo scorro, che si trasforma in eccitazione a ogni nuova riga.

    Offro posto fisso a ragazza o a coppia per pulizia, custodia casa e babysitting in villa indipendente. Si offre vitto e alloggio indipendente, completamente spesato. Famiglia prestigiosa, buono stipendio, orario dalle 12.0 alle 19.00, giorni di festa, domenica pomeriggio e lunedì tutto il giorno. Disponibilità fissa un week end al mese. Si richiede pratica sia con la casa che con bambini, patente, serietà e referenze. Chiamare numero...

    Possibile?

    Possibile risolvere due problemi al prezzo di uno?

    Andarmene via da questo cesso di appartamento, senza più dover incontrare l’arpia che mi fa i suoi discorsi sulla vecchiaia mentre succhia i miei soldi e li mette da parte per i suoi nipoti, che si fanno vedere solo quando vanno in cerca di contante senza mai preoccuparsi della sua salute.

    Andarmene da qui e dimenticare i rumori, il disturbo continuo nelle orecchie, gli impianti vecchi e mal funzionanti, le preoccupazioni che qualcosa salti per aria, trovare una nuova casa e un nuovo lavoro che mi permettano non solo di aumentare lo stipendio da fame che mi ritrovo ma anche di risparmiare sulle spese vive.

    Andarmene da qui, e basta.

    Rompere gli schemi. Cambiare qualcosa. Imprimere una svolta alla mia esistenza.

    Cerchio l’annuncio, risoluta. Prego che non abbiano già trovato qualcuno.

    La prima cosa da fare, domattina: chiamare questo numero, e chiedere un colloquio.

    Accadimenti

    La scarpa.

    I cordoni strappati, la suola sporca.

    Una macchia scura nell’erba verde, sul ciglio del fossato.

    Il bambino la nota. La curiosità preme. Riconosce la forma. La voglia di prenderla a calci è forte.

    Fa quel tragitto ogni mattina, a piedi. La madre lo lascia andare solo alla fermata dell’autobus. Da lì saranno cinque minuti di buona camminata. Fa quel tragitto ogni mattina e lo sa a memoria. Ogni filo d’erba, ogni avvallamento. Sa contare quante volte il fossato si riempie d’acqua durante il corso dell’anno, sa quante volte viene svuotata la chiusa per annaffiare i campi circostanti. Il fossato è alto all’incirca come lui. È profondo, contiene tanta acqua. Sua madre gli dice sempre di stare dall’altra parte della strada, dal lato libero. Gli dice di stare alla larga dal fossato. Il fossato è pericoloso.

    – Se ci cadi dentro t’anneghi.

    Annegare dev’essere brutto, pensa il bambino. Una volta a lezione di nuoto era rimasto sott’acqua per fare una scommessa con gli amici, aveva contato il tempo col suo orologio subacqueo e aveva cercato di tenere duro il più possibile, ma alla fine aveva dovuto cedere. Non era stata tutta colpa sua. Il corpo si era ribellato

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