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Quasi un Paradiso
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Quasi un Paradiso

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About this ebook

La postina Louise Golden vive nell'isola di Oahu e ama il rapporto d'amicizia creatosi con i clienti del suo itinerario di consegna. Quando si accorge che la signora Santos è scomparsa, Louise inizia a preoccuparsi. Facendo domande ai vicini nel tentativo di capire cosa sia successo all'anziana signora, la postina viene coinvolta in un mistero che include rapimenti, pedinamenti, una festa in piscina hollywoodiana, danze esotiche, contrabbando di manufatti hawaiani e, ovviamente, omicidi.

LanguageItaliano
PublisherBadPress
Release dateMar 3, 2018
ISBN9781547519767
Quasi un Paradiso

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    Book preview

    Quasi un Paradiso - Laurie Hanan

    Indice

    Capitolo Uno.............................................................................................7

    Capitolo Due...........................................................................................12

    Capitolo Tre............................................................................................17

    Capitolo Quattro.....................................................................................20

    Capitolo Cinque......................................................................................23

    Capitolo Sei.............................................................................................28

    Capitolo Otto...........................................................................................37

    Capitolo Nove.........................................................................................41

    Capitolo Dieci..........................................................................................50

    Capitolo Undici.......................................................................................53

    Capitolo Dodici........................................................................................59

    Capitolo Tredici.......................................................................................65

    Capitolo Quattordici................................................................................70

    Capitolo Quindici....................................................................................77

    Capitolo Sedici........................................................................................82

    Capitolo Diciassette................................................................................85

    Capitolo Diciotto.....................................................................................92

    Capitolo Diciannove................................................................................99

    Capitolo Venti.......................................................................................104

    Capitolo Ventuno..................................................................................110

    Capitolo Ventidue.................................................................................117

    Capitolo Ventitré...................................................................................122

    Capitolo Ventiquattro...........................................................................127

    Capitolo Venticinque.............................................................................133

    Capitolo Ventisei...................................................................................138

    Capitolo Ventisette...............................................................................143

    Capitolo Ventotto..................................................................................148

    Capitolo Ventinove................................................................................154

    Capitolo Trenta.....................................................................................158

    Capitolo Trentuno.................................................................................163

    Capitolo Trentadue...............................................................................169

    Capitolo Trentatré................................................................................175

    GLOSSARIO...................................................................................177

    In memory of Daisey Grace

    February 27, 2005 – August 11, 2008

    You were by my side every moment as I wrote this book.

    May I honor your memory by living my life with the simplicity

    and purity of spirit that were the core of your being.

    The land is a mother that never dies.

    - detto Maori

    NOTA DELL’AUTORE

    Quasi un paradiso contiene delle parole hawaiane e dei nomi di luoghi. Se sei un continentale, non farti intimidire. La lingua Hawaiana è semplice, bella e melodiosa. Le parole scritte possono sembrare impossibili da pronunciare, ma dividendole in sillabe, probabilmente ce la farai. Una sillaba non contiene mai più di due lettere e termina sempre con una vocale. Nell’alfabeto Hawaiano ci sono cinque vocali e sette consonanti, per un totale di dodici lettere. Alcune vocali possono essere usate una dietro l’altra, invece le consonanti non sono mai insieme. Le consonanti vengono pronunciate come quelle inglesi, ad eccezione della W. La lettera W in alcuni casi si pronuncia come la lettera V, come nella pronuncia tradizionale di Hawai‘i che, foneticamente, si pronuncia huhvi-ee, piuttosto che huh-why-ee.

    Pronuncia delle vocali:

    a ah

    e eh

    i ee

    o oh

    u oo

    Un simbolo sopra ad una vocale è chiamato kahakō, che indica che la pronuncia della vocale è prolungata. Un simbolo simile ad un apostrofo, chiamato ‘okina, indica una pausa all’interno della parola, come quando diciamo oh-oh. Quindi, la parola hawaiana ka‘a, che significa macchina, si pronuncia: kah-ah.

    Il significato della maggior parte delle parole è chiarito dal contesto. Se non sei sicuro, puoi far riferimento al glossario presente alla fine del libro. Gli hawaiani accettano gli stranieri. Se mostri interesse nell’apprendere la lingua e la cultura, sarai accolto. Dì una parola hawaiana con un sorriso e un aloha, e non puoi sbagliare.

    ––––––––

    Laurie Hanan

    Capitolo Uno

    Aprii gli occhi alla luce soffusa un attimo prima dell’alba. Gli uccelli non avevano ancora cominciato il loro canto e vi era soltanto il frusciare della pianta dello zenzero. La brezza che soffiava attraverso la finestra aperta trasportava il profumo rilassante e pungente della vegetazione tropicale, e della pioggia in arrivo: un profumo che sapeva di casa. Era un altro giorno perfettamente perfetto in paradiso.

    Esatto, vivo in paradiso. Qualche volta stento a crederci. Mi sono trasferita qui dal continente, sono ciò che i locali definiscono malihini o haole. Erano stati l’amore, la perdita e una serie di delicate coincidenze a portarmi in queste isole sette anni fa, e da allora sono rimasta.

    Il verde e il blu delle Hawai‘i mi calmano. L’aria calda e umida, e la brezza leggera sono un balsamo che scorre su di me in dolci ondate. La pioggia è una mano fredda e amorevole che mi accarezza il volto. Qui, le persone sono più gentili. Hanno una cosa che si chiama aloha. La maggior parte delle persone che vengono qui dal continente, finiscono per farsi prendere dal mal d’Hawai‘i, una sensazione di panico derivata dall’impossibilità di guidare per più di 50 km in ogni direzione. A me non è successo. Le spiagge che definiscono i bordi del mio mondo mi fanno sentire protetta e al sicuro. Il costante e tranquillizzante ritmo dell’oceano culla la mia anima.

    Attraversai il freddo pavimento in legno per andare alla finestra, e lanciai un’occhiata al cielo. Quando il sole sarebbe sorto, sarebbe stato oscurato dalle spesse nuvole. Mi lavai i denti e spazzolai i corti capelli biondi. Sono esattamente come ricordo quelli di mia madre; ho anche i suoi occhi blu. Ci sono delle lentiggini sul mio naso, caratteristica che invece ho ereditato da mio padre. Sono abituata al mio naso, mi conferisce un non so che di brusco alla bellezza irlandese di mia madre.

    Da piccola, ero una bambina semplice: pelle e ossa, e dinoccolata, con i capelli flosci e biondo slavato. Dall’età di sei anni, i miei occhi blu sono stati nascosti dietro delle spesse lenti. Prima di allora, nessuno si era accorto di quanto fossi miope: mi facevo strada nel mondo inconsapevole del fatto che le altre persone lo percepivano in modo diverso. Durante quei primi anni, mia madre era stata l’unica a riuscire a penetrare la foschia. Era l’unica a sembrarmi reale. I miei genitori mi portarono da uno specialista per determinare la ragione delle mie scarse abilità motorie e della mia difficoltà nel tenere il passo a scuola. I dottori mi punzecchiarono, tastarono e testarono. Alla fine, non riuscirono a trovare una sindrome con cui classificarmi.

    Infine, un’intelligente insegnante di prima elementare suggerì ai miei genitori di controllarmi la vista. La visita rivelò che avevo una vista di un decimo su dieci, e mi diedero degli occhiali ad alta gradazione. Il mondo, che fino a quel momento era fatto di suoni e di colori tenui, diventò all’improvviso completamente nitido. Si potrebbe pensare ad una sorta di miracolo, ma per me era inquietante. Il mondo in 3D era troppo intenso, e spesso mi toglievo gli occhiali anziché affrontare le sue complessità. La tappa successiva, ci fu a dodici anni, sotto forma di lenti a contatto rigide. Sebbene fossero un netto miglioramento rispetto agli occhiali, erano difficili da rimuovere. Le lenti avevano fatto da poco il loro ingresso in scena, ed io era la paziente più giovane del mio oculista. Ricordo il mio interesse per i suoi occhi grigio chiaro e i lineamenti marcati. Questa attrazione era un nuovo modo di vedere gli uomini.

    A trent’anni, la chirurgia laser perfezionò la mia vista, il tempo e il duro lavoro conferirono massa alla mia figura. Ora, mi si può definire muscolosa invece che pelle e ossa. Da lontano, posso sembrare più giovane rispetto ai miei trentasette anni, tuttavia, le rughe intorno agli occhi, dovute alla troppa esposizione al sole piuttosto che alle risate, mi tradiscono. Mi vestii per andare al lavoro, indossai quella che qui viene considerata una uniforme invernale: pantaloni lunghi e impermeabile. Tutti, alle Hawai‘i, sanno che le pianelle di gomma sono migliori per camminare sotto la pioggia, ma le regole dei servizi postali prevedevano calzettoni e stivali. A fine giornata,  avrei avuto i piedi raggrinziti come prugne.

    Mi piace consegnare la posta. Amo lavorare all’aperto e non mi dispiace quando piove. Il duro lavoro mi mantiene in forma, così non devo andare in palestra. Amo il modo in cui si illuminano gli occhi dei miei clienti quando mi vendono, e adoro il mantello dell’invisibilità che indosso sopra l’uniforme, il modo in cui passo inosservata e divento parte del paesaggio. Spostati Xena, principessa guerriera. Ecco che arriva Louise, la postina!

    Quando uscii di casa alle sette per andare al lavoro, il cielo era chiaro come una uggiosa mattina di febbraio. I passeri cinguettavano e gli stormi litigavano sul mio tetto. Aprii la piccola Z-3 convertibile bianca, salii e girai la chiave d’accensione. Partì il notiziario del mattino, con Perry a sinistra e Price a destra. Sulla Pali, guidai sotto una costante pioggerellina. La mia BMW prendeva le curve come una macchina da corsa e io mi sentii come Magnum P.I. che guidava la macchina di James Bond.

    Beccati questa, Xena!

    Il notiziario terminò, e cantai con Stevie Nick di navigare attraverso l’oceano. La radio si bloccò in galleria, ma io continuai a cantare, Can I handle the seasons of my life? Oh yeah, I’m getting older too...

    Emersi dal lato sopravvento della galleria in un acquazzone accecante. Chiusi i finestrini, azionai i tergicristalli e mi chinai in avanti, come se questo potesse aiutarmi a vedere attraverso la pioggia. Le pesanti gocce di pioggia battevano contro il tettuccio di tela e i tergicristalli strisciavano sul parabrezza. Alzai il volume della radio giusto in tempo per sentire Michael W. Perry che mi informava sul valore dell’oro e quanti yen potevo comprare con un dollaro.

    Su Kam Highway, svoltai verso un centro commerciale e mi misi in coda al servizio al volante di Starbucks. Quando raggiunsi lo speaker, abbassai il finestrino. La pioggia inzuppava la parte sinistra del mio corpo, mentre ordinavo un triplo venti latte. Chiusi il finestrino, alzai il volume della radio, e, mentre avanzavo, ascoltai C e K cantare Highway in the Sun. L’aroma del caffè caldo mi investì ancor prima di arrivare alla finestra per il ritiro. Una ragazza, che non sembrava abbastanza grande per poter lavorare, mi consegnò il caffè. Le diedi cinque dollari e le dissi di tenere il resto.

    Il mio itinerario di consegna mi portò in una parte di Kāne‘ohe dove erano situate delle case multimilionarie in cima a vialetti ripidi e lunghi, nascoste dietro ad alte mura e una vegetazione tropicale incolta. I residenti hanno piscine, campi da tennis e ampi panorami della baia di Kāne‘ohe e, più in là, dell’Oceano Pacifico. Altre strade sono fiancheggiate da semplici case in legno che dovevano essere state tutte simili tra loro quando furono costruite mezzo secolo fa. Con il trascorrere degli anni, alcune erano state innalzate con l’aggiunta di un piano terra fatto di blocchi di cemento posti sotto la struttura originale di legno. In altre, erano state aggiunte delle camere, delle verande o dei garage con le porte automatiche. Le case erano separate dalla strada da giardini ben curati e nascosti quasi completamente da piante di avocado, zenzero e mango, pieni di frutti maturi. Il verde intenso di Kāne‘ohe è punteggiato dal giallo, rosso e dal rosa dei fiori tropicali. Il profumo della plumeria, dello zenzero e del gelsomino è così intenso che si può quasi toccare con mano. I cortili sono circondati da mura di roccia lavica ricoperte di muschio, progettate più per evitare che il terreno venga spazzato via che per tenere fuori gli intrusi.

    Molti dei miei clienti erano anziani. Vivevano nelle loro case da quando erano bambini, e lì avevano cresciuto le loro famiglie. Alcuni dei loro figli si erano trasferiti nel continente alla ricerca di qualcosa in più che le isole non potevano offrire. Parcheggiai il furgoncino postale sul ciglio della strada, indossai il mio casco coloniale, allacciai l’impermeabile e uscii sotto l’acquazzone. Sollevai la borsa colma di posta sulla spalla, e mi assicurai di aver chiuso il furgone, anche se mi sarei allontanata solo per pochi minuti. La regola di sicurezza numero tre, dopo aver portato con sé il repellente per cani e aver indossato delle scarpe adatte, è chiudere sempre il furgone.

    Non c’erano marciapiedi nel vecchio quartiere; superai l’erba, le rocce e il fango trasportando il carico pesante, e facendo attenzione a non slogarmi una caviglia. Avrei potuto consegnare la posta rimanendo all’interno del furgone, ma a me piaceva dare al mio lavoro un tocco personale. Mi fermai a chiacchierare con i clienti che mi aspettavano ogni giorno, e consegnai loro personalmente la posta. Dov’era la signora Santos? Era strano non vederla fuori. In effetti, non saltava mai un giorno. Con la pioggia o con il sole, lei era sempre lì insieme alla sua piccola cagnolina, leggermente ridicola, Pipsqueak.

    La signora Santos era sull’ottantina e viveva da sola. Se la cavava piuttosto bene, sebbene ultimamente, fosse rallentata. La sua mente sembrava ringiovanire mentre il suo corpo invecchiava. Non riceveva mai posta dalla figlia e dai nipoti che vivevano in California, probabilmente si tenevano in contatto via telefono. Non riceveva mai posta personale da nessuno, nemmeno a Natale. Le portavo dei cataloghi e dei giornali in più che non potevano essere consegnati e che altrimenti sarebbero stati riciclati; sapevo che questo poteva costarmi il lavoro, ma la rendeva felice. Ogni Natale, le portavo dei regali che ricevevo dai clienti del mio itinerario. Erano talmente tanti che non sapevo cosa farne, e credo che fossero gli unici che lei ricevesse.

    Poteva essersi dimenticata l’orario? Percorsi il vialetto d’ingresso crepato, attraverso il garage esterno aperto, e bussai alla porta. La casa non aveva grondaie e la pioggia veniva giù a dirotto, spruzzando fango rossiccio sul vialetto e sui muri.

    Signora Santos? Ehilà, signora Santos?

    Nessuna risposta.

    Sono Louise, la postina. Le ho portato la posta.

    La signora aveva problemi d’udito, forse non aveva sentito il colpo alla porta a causa della pioggia. Bussai ancora, questa volta con più forza, e aspettai. Provai a girare la maniglia della porta. Era aperta. La vecchia porta, gonfia per l’umidità, si lamentò con un ciglio quando la spinsi. Proprio lì dietro, c’era Pipsqueak che mi guardava dal basso. La coda sbatteva sul pavimento. Era l’unica cagnolina del mio itinerario che non mi abbaiava contro, e non lo fece neanche quando entrai in casa.

    La prima cosa che notai fu l’odore. Di cane bagnato e... qualcosa che non riuscivo ad identificare. Aspettai che i miei occhi si abituassero alla luce soffusa. L’arredamento ingombrante in bambù con i cuscini con stampe hawaiane blu occupava la maggior parte del salotto: due sedie, un divano, un tavolo da caffè e tavolini con lampade coordinate.

    Andai in cucina e appoggiai la borsa pesante con la posta sul bancone. Mi massaggiai la spalla mentre davo uno sguardo in giro. La pioggia entrava da una finestrella sopra al lavandino. Mi allungai e la chiusi. I piatti erano stati lavati e riposti; i piani di lavoro erano stati spolverati. Non c’era niente che sembrasse fuori posto. Allora perché aveva una forte sensazione che qualcosa non andasse?

    Le unghie di Pipsqueak ticchettavano sul linoleum mentre mi seguiva attraverso la casa. In corridoio, superai il bagno con la porta aperta e due porte chiuse. In fondo, vi era una porta socchiusa. Bussai.

    Signora Santos? Sono Louise, la postina.

    La aprii. Sembrava non esserci nessuno nella stanza.

    Signora Santos?

    Entrai, e mi guardai attorno. Il letto matrimoniale era rifatto con cura, con una coperta di ciniglia consunta. Un comò era appoggiato ad una parete, la vecchia vernice che si staccava. Su una cornice d’argento, vi era una fotografia di una coppia sorridente nel giorno del loro matrimonio. Non ero sicura se si trattasse della signora Santos o, magari, della figlia di cui aveva parlato. L’unico altro pezzo d’arredamento era un comodino accanto al letto.

    Attraversando la stanza, fui colpita dal ricordo di un altro pomeriggio di ventidue anni fa. Ero tornata a casa da scuola e avevo trovato l’appartamento vuoto. Avevo girato per casa, urlando, Mamma? Ci sei? Mamma? Dove sei? Alla fine, l’avevo trovata: era stesa a terra, nascosta dietro al suo letto. Mi ero avvicinata a lei e le avevo preso la mano. Mamma? Cosa c’è? Che è successo? Il suo petto saliva e scendeva, ma lei non si muoveva. In quel momento, capii che la malattia di mia madre era qualcosa di più grave di una febbre cronica, come mi era stato fatto credere. Da quel giorno, avevo vissuto con il silenzioso terrore che la vita potesse capovolgersi senza alcun preavviso.

    Anche la signora Santos era dietro al letto? All’improvviso, l’ossigeno nella stanza non era abbastanza. Rimasi ferma, paralizzata, cercando di respirare. Inspirai profondamente. Un respiro, e poi un altro ancora. Quando tornai a vedere con chiarezza, mi costrinsi a fare il giro del letto e a guardare il pavimento. Le mie ginocchia si piegarono per il sollievo.

    La signora Santos non era lì.

    E adesso?

    Ritornai in corridoio, bussai ad una delle porte chiuse. Signora Santos?

    Era aperta. Spinsi, ma questa non si scostò. Feci forza e si aprì con uno scricchiolio. Dall’odore, ipotizzai che non venisse aperta da anni. Le pareti erano di una tonalità chiara di lavanda; l’arredamento, in stile principessa, era ricoperto da uno strato di polvere. La bambina che usava questa camera doveva averla amata. Su un letto a due piazze vi erano alcuni animali di peluche malconci: un orsetto, un coniglio e un gatto con un occhio solo. Era impossibile dire cosa un tempo rappresentasse la stampa sbiadita del copriletto. Una collezione di bambole in vari stati di nudità sedeva su uno scaffale con gli occhi assenti; delle tende a drappo macchiate se ne stavano afflosciate su una finestra chiusa saldamente. Un’occhiata veloce mi fece capire che la signora Santos non era in quella stanza. Uscii e richiusi la porta alle mie spalle.

    L’altra porta, che era chiusa anche quella, si aprì più facilmente, bastò solo una spinta.

    Ehilà?

    Camminai attorno a scatoloni di cartone, ad una macchina da cucire Singer, ad una sedia a dondolo e a una bicicletta rosa Stingray. Toccai le bandierine attaccate al manubrio e passai la mano sul sellino. Da bambina avevo desiderato avere una bicicletta come questa.

    La signora Santos non era in quella stanza.

    Quando attraversai il corridoio la prima volta, il bagno buio mi era sembrato vuoto. Per fare le cose come si deve, entrai e accesi la luce. Feci un salto quando una rumorosa ed esausta ventola si avviò.

    Okay, Louise, calmati. Fa un profondo respiro.

    Il bagno era soltanto due metri quadrati circa. Tirai la tenda ammuffita della doccia da una parte. La signora non era in bagno. Non era da nessuna parte.

    Capitolo Due

    La ghiaia scricchiolava sotto ai miei stivali mentre camminavo a fatica attraverso rivoletti d’acqua fangosa. La pioggia gocciolava dalla falda del mio cappello, oscurandomi la vista.

    La signora Fujioka mi stava aspettando al riparo della sua tettoia. "Ohio gozaimas, Louisa-san." Accennò un inchino.

    Le consegnai un mazzetto di posta. Oggi ha una lettera da suo fratello.

    Sorrise quando vide la lettera dal Giappone.

    La signora Fujioka, un’insegnante d’asilo in pensione, adesso traduceva libri per bambini in giapponese. Si trovava ad Hiroshima quando era scoppiata la bomba, e gli alti livelli di radiazione l’avevano lasciata con l’impossibilità di avere figli. Suo marito, poi, era scappato con una donna più giovane, e lei non si era mai risposata.

    Conosce la signora Santos? Indicai in direzione della casa della signora. Abita qualche casa più in là.

    La signora Fujioka mi scrutò attraverso gli occhiali dalle lenti spesse e rotonde che le coprivano quasi metà del viso rugoso e gentile. So chi è. Non parliamo spesso.

    L’ha vista oggi?

    No, non la vedo da ieri.

    Sono un po’ preoccupata. Mi aspetta sempre alla cassetta della posta, e oggi non c’era.

    Sono sicura che sta bene. Probabilmente è a camminare da qualche parte.

    Può darlo un’occhiata? Mi faccia sapere se la vede.

    Lo farò. Fece un altro inchino. "Domo arigato."

    Quando gli passai accanto, il signor Kaminaka neanche alzò lo sguardo dal tiki che stava intagliando. Un uomo snello sulla sessantina, sedeva ogni giorno nel suo garage a intagliare i suoi tiki. Impiegava più o meno una settimana per completarne uno, poi ne iniziava subito un altro. Si diceva che li vendesse su eBay. Al signor Kaminaka mancavano parecchie dita della mano destra, e i suoi vicini ipotizzavano che facesse parte della Yakuza. Secondo me, era più probabile che c’entrasse qualcosa la moto che occupava il resto del suo garage. Inizialmente, avevo provato a salutarlo: lui mi lanciava un’occhiata e nient’altro. Dopo alcuni tentativi di intavolare una conversazione, mi arresi. C’era anche una signora Kaminaka, che faceva i turni di notte al Castle Hospital e dormiva durante il giorno.

    Buongiorno, Louise!, urlò la signora Shimabukuro dalla sua tettoia, dove se ne stava seduta sulla sua sedia a rotelle: aveva da poco subito il secondo intervento di sostituzione dell’anca.

    Percorsi il vialetto d’accesso. Buongiorno, signora Shimabukuro. Come sta suo nipote?

    "Lui è meraviglioso. Ieri è stato con me e mi ha chiesto carta e penna. Ha scritto i numeri da uno a duecento perfettamente, in kanji!"

    Sono molto colpita. Ha soltanto tre anni, giusto?

    Esatto, solo tre.

    Era una nonna orgogliosa. Ed era molto fortunata, suo figlio viveva sull’isola e poteva vedere spesso suo nipote.

    Conosce la signora Santos che vive in fondo alla strada?

    Agitò una mano e scosse la testa. Quella. Si impiccia sempre degli affari degli altri. Le piace andare in giro a sbirciare attraverso le finestre delle altre persone.

    L’ha vista ultimamente?

    Forse un paio di giorni fa, passeggiava con il cane. Non ci ho parlato.

    Sono preoccupata. Sembra essere scomparsa.

    Scomparsa?

    Di solito mi aspetta, ma oggi non c’era. Le dia un’occhiata, lo farebbe?

    Certo.

    Consegnai la posta in mani gonfie e piegate dall’artrite, poi spinsi la sedia a rotelle su una rampa e in casa.

    Mentre camminavo lungo la strada, i bambini urlarono, Ciao, zietta!, da dietro le zanzariere. Adoro il modo in cui i bambini qui mi chiamano zietta. Mi fa sentire parte di una grande famiglia.

    Avevo una raccomandata per la signora Kalama. Mi aprì la porta con un bambino di due anni con il pannolino e il viso sporco, appoggiato sul fianco.

    Buongiorno, signora Kalama. Deve firmare. Le passai la lettera ed una penna.

    Spostò il bambino sull’altro fianco, e lui cominciò a piangere. Firmò il talloncino verde.

    Lo strappai e le riconsegnai la lettera. Conosce la signora Santos che vive in fondo alla strada?

    Guardò nella direzione che le indicavo. "Ah, quella."

    L’ha vista di recente?

    Gira sempre qui intorno con quel suo cane a ficcanasare nelle finestre degli altri.

    Quando l’ha vista l’ultima volta?

    Ieri sera. La sua voce salì di un tono. Sono tornata dal supermercato, e lei è corsa subito alla mia macchina a frugare nelle mie buste della spesa per vedere cosa avevo comprato. Mi sono dovuta sbrigare a portare tutto dentro e a chiudere le tende.

    La vede mai prendere l’autobus, o un Handi-Van?

    Un giorno è venuta a prenderla un Handi-Van. Mi ha detto che aveva un appuntamento dal medico per via del cuore. Ma oggi non ne ho visto nessuno.

    La ringraziai e proseguii, chiedendo a tutti quelli che erano in casa se l’avessero vista. Tutti sapevano chi era, ma nessuno la conosceva bene. A quanto pareva, i suoi vicini la consideravano una seccatrice e quindi la evitavano. Nessuno ricordava di averla vista dal giorno prima, nessuno aveva visto un Handi-Van di recente.

    Ritornata alla stazione, mi sedetti alla panchina di legno tra gli armadietti, sfilai gli stivali fradici e i calzini. Presi dal mio armadietto un paio di pianelle di gomma e vi infilai i piedi freddi e raggrinziti.

    I miei vestiti erano ancora umidi, ma almeno i piedi si sarebbero asciugati. Una parte della mia formazione da postina prevede di individuare dei segnali che indichino se i clienti più anziani del mio itinerario possano essere in pericolo. Se la posta inizia ad accumularsi nella cassetta di una persona anziana devo contattare l’Ufficio per l’assistenza agli anziani della contea di Hawai‘i. Poi, sarebbe stato loro dovere contattare le autorità.

    Ma quanto tempo ci sarebbe voluto? E se la signora Santos avesse bisogno d’aiuto adesso? Non sarebbe mancata a nessuno, e nessuno l’avrebbe cercata. Non potevo sopportare l’idea di lei che vagava sotto la pioggia, confusa e disorientata. O ferita da qualche parte, in attesa di ricevere aiuto mentre la sua posta si accumulava. Se qualcuno doveva cercarla, quel qualcuno dovevo essere io. E non avrei aspettato che la sua posta si ammucchiasse: dovevo andare alla polizia, il prima possibile.

    La centrale di polizia di Kāne‘ohe si trova dall’altra parte di Kam Highway. Ci passo davanti molte volte nel corso della giornata, ma, per fortuna, non ho mai avuto l’occasione di entrarci. Svoltai su Waikalua Road, parcheggiai nel piccolo parcheggio, e scesi dalla macchina. Aprii la porta in vetro oscurato, sbirciai all’interno, ed entrai.

    Dai programmi sul crimine in televisione, sapevo che la polizia non accettava una denuncia di persona scomparsa se non erano passate almeno 48 ore.

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