The mission
By Matteo Porru
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Gli adulti pensano che i bambini siano ingenui, ignari di quello che accade, capaci solo di fantasticare. Ma lo sanno i grandi che sono loro i primi a fingere, a mascherarsi? E i bambini cosa avrebbero preferito? Loro cosa avrebbero detto? Quella risposta nessuno la sa: vaga sola, disperata, senza tomba, fra le strade. Quattro note echeggiano nella capitale. Ora è il momento di dire la verità, quella che sanno sempre solo gli altri. Il tempo è scaduto, il sipario è aperto. Sono diventati grandi troppo presto, quei bambini. E nessuno ha più voglia di giocare.
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The mission - Matteo Porru
biografiche
Prologo
sol-la-mi-re.
Echeggiava, portandosi dietro i tintinnii dei cucchiaini che sbattevano sulle tazzine da tè, barcamenandosi fra i vicoletti, sguazzando come una nutria frettolosa sul Tevere, unica piccola e impercettibile melodia di quattro note. Eppure, sotto quella cappa di sesso e politica che per secoli aveva sovrastato le teste di milioni di romani, qualcuno, impotente, la fischiettava, rassegnato. Ed è proprio quando il sole cade sotto l’orizzonte e la luna cerca di tirarlo su, che quel qualcuno, a passo felpato, esce.
Camminava con le mani dietro la schiena sulla Passeggiata dell’Aventino. A volte si girava a destra, con lo sguardo spento, guardava una Roma silenziosa, timida, sola, piena di donne che si tolgono la gonna per il primo che le paga, logorata dalla mafia e dalla corruzione, stanca, per le tante mogli che ha visto piangere, e per i mariti che, bastardi, le ammazzano, per i tanti falsi amici che dicono di amarti e non ti amano, per le tante vecchie sole che ripensano invano ai compagni di una vita, quando dicevano che avrebbero spaccato il mondo insieme e non l’hanno mai fatto. E tutto questo una dama come Roma non lo fa vedere, tiene alto il suo orgoglio, con fondotinta e mascara.
E sentiva i violini, le viole, le trombe, i violoncelli, gli oboe, il contrabbasso, i timpani, che al Costanzi, lieti, suonavano. E di tutto quel fragoroso spettacolo, degli applausi del pubblico, degli schiaffi e dei coltelli, fra crini di cavallo e preservativi, rimaneva soltanto un lieve sussurro che vagava, senza meta, fra le strade, un’aria leggera, uno stridulo e soave cucù.
Cucù.
E quel qualcuno lo sentiva bene.
Era un vecchio. Albino. E nudo.
Nel baccano della capitale verso mezzogiorno non lo notava nessuno, tutti a correre, chi per un appuntamento in banca, chi in ritardo a lavoro, o chi, invece, si affrettava fra una parola e l’altra del Messaggero. Qualche anziano dava da mangiare ai piccioni seduto su una panchina, un altro guardava il suo riflesso su una fontana ormai quasi asciutta. E altri ancora non facevano niente. Stavano lì, seduti, bloccati dal tempo che ormai andava a gocciolare. Incastrati nei ricordi di una vita, rammentavano a malapena i volti, le follie, le partite a calcio, il tifo, il campo, lo stadio, il goal. Ricordavano tutte le occasioni perse, e quel maledetto bacio che non sono riusciti a dare. E dell’infanzia, del volto della madre, del padre, dei nonni? Memoria vuota, storia vuota. Rivivere tutto faceva avere loro ancora più paura della fine che, egocentrica, prende tutto quello che vuole.
Moriamo tutti, prima o poi, ma per alcuni non sembra giusto: ci sono vite da rivivere, altre da sognare, farci un film magari. Altre insignificanti e poco influenti. Ma tutte hanno la stessa fine: annegare impotenti in un mare di ricordi.
Quel vecchio passeggiava spesso lì, immerso nella nuvola di smog delle auto, sempre a fischiettare. Camminava per tutta la città, passando dai quartieri ricolmi di palazzoni a quelli che avevano soltanto una mansarda umidiccia al terzo piano. E poi a quelli che di gente ne avevano tanta da non poter respirare, confinati da casermoni popolari.
Girava queste case, fra signore che piangevano di nascosto sotto la doccia, giovani che si toccavano, corpo su corpo, e talvolta vedeva una donna delle pulizie, con un grembiule striminzito addosso, che non riusciva a far altro che sognare un’altra vita, una meravigliosa e appagante vita, e poi si ritrovava con quel suo straccetto in mano, unica fonte di guadagno, seppur esigua, di certo non abbastanza per poter comprare a suo figlio il suo regalo preferito. Impugnava il cencio e continuava a pulire, con un viso scavato dalle occhiaie e dalle molte rughe che un cerone non sarà mai in grado di coprire, oppure solo la soddisfazione di avere quel poco che basta per campare a far da toppa. E allora si sente una cattiva madre, e quello stesso straccio impregnato di piscio diventa il suo unico fazzoletto: pensa di non essere all’altezza, che quando crescerà lui la odierà per non avergli dato niente in più, e non saprà mai niente delle fatiche enormi per portare a casa di sera le coperte pulite, prendere i libri di scuola in comodato d’ uso, pagare la luce, l’acqua, l’affitto, la spazzatura.
E a volte, quando è stanca da non potersi alzare e le scoppia la testa e vorrebbe urlare al mondo che si sente una merda come quella che pulisce, si siede sulla prima sedia che trova e piange.
Il vecchio è curioso, gli piace osservare le vite delle persone: gli errori, i riscatti, le vittorie. Lui, che passa sempre inosservato, ama guardare. Ha un corpo flaccido, piedi lunghi, dita tozze e piccole, come incastrate l’una nell’altra, a stento riesce a muoverle; trema spesso, forse per paura, forse per il freddo dell’inverno, vai a sapere. Zoppica un poco ed è imperturbabile nel viso; continua a camminare con il solito passo lento, scandito solo dal suo orologio al polso che cinicamente dà il tempo.
Tic tac, tic tac.
Finito il giro, il vecchio torna in periferia, in una casa vecchia e logora.
Sei in ritardo, è pronto da mezz’ora
dice la moglie.
Sì, scusa, ho dovuto girare per un po’, ho lavorato parecchio.
Ah sì? Be’ quanto hai fatto oggi?
Un centinaio… forse centodieci.
Muoviti, che altrimenti diventa freddo!
Si siede, prende il cucchiaio, inizia ad assaggiare il brodo di carne. La lampada sopra la sua testa continua a ondeggiare, neanche la nuova guarnizione la ferma. L’acqua fredda ghiaccia il bicchiere.
E tu invece che hai fatto?
Quello che dobbiamo fare
risponde lei, algida.
Ah… be’, senti, era da un po’ che ci pensavo: vorrei proporti uno scambio.
Uno scambio?
Sì: tu lavori molto meno di me, fai cose rapide con i bambini, solo quando è necessario, e lo fai due o tre volte al mese. Io ogni benedetto giorno mi alzo alle quattro ed esco, sto via tutta la mattina, poi pranzo ed esco di nuovo. Hai idea di quanto sia difficile per me farmi quotidianamente le rampe delle scale, andare in sala rianimazione, poi di nuovo in giro per la città e potermi riposare solo quando finalmente rientro a casa? Non sono più un ragazzino, miseria! Ti prego, proviamo a invertire i compiti, poi vediamo come va.
Sicuro? Bisogna essere donne per fare certe cose.
Quanto vuoi che sia difficile togliere la vita a un bambino? Ma dai, su, facciamo questo lavoro da secoli e non abbiamo mai avuto incertezze. Dobbiamo soltanto attrezzarci, come sempre.
Ci sto, almeno cerco di dimagrire un po’ con le scale.
Bene, grazie.
Si alza dal tavolo asciugandosi le labbra umidicce con la mano. Con lo stesso passo lento si avvicina alla finestra della cucina. Alza la zanzariera ed esce, affacciandosi su quel piccolo terrazzo al quarto piano. In lontananza, seppur piccolo, si scorge il Cupolone. Si siede a cavalcioni, facendo dondolare i piedi. Chiude gli occhi: riesce a sentire il caldo della luna, la brezza che vaga fra quelle viuzze, i clacson delle macchine, rumori di carezze, serrande, abbracci.
Poi si butta da quel terrazzo, tutto in avanti.
E scompare.
Capitolo 1
Mamma, mamma!
Martina, tutto bene?
No, ho avuto un incubo!
Dai raccontamelo, così passa e ti riaddormenti.
C’era la morte che chiacchierava con la moglie, diceva che vogliono ucciderci tutti! E si sono invertiti i compiti, adesso viene e ci uccide!
Marti, ma cosa vai a sognarti? La morte esiste ma non è una persona, e per te di certo non arriverà presto. È normale che tu ne abbia paura, tutti un po’ la temiamo, ma dobbiamo affrontarla con coraggio. Hai dieci anni e tutta una vita davanti, non pensarci adesso. Pensa a cose belle. Ora torno a letto, buonanotte amore mio.
’Notte, mamma.
Martina guardò l’orologio: tre di notte, tredici marzo. Nonostante il pigiama e il piumone si sentiva nuda tutta intorno, protetta solo dai veli delle lenzuola che teneva strette tra le gambe.
E si faceva cullare dal lieve frinire dei grilli, come gocce di ghiaccio che cadono a terra, e forse, solo per un attimo, tornava a sognare.
I rintocchi delle campane di San Pietro scandivano le prime ore di luce. E tutto d’un tratto iniziavano a partire treni, aerei, tram, autobus. Roma si stava svegliando, sotto l’odore acre dei viali bagnati dalla