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Siamo nel 2018. Alle porte di marzo. Io sono Eva, oggi ho 35 anni. Faccio sempre la escort, ma con uno spirito, una qualità del lavoro ed un metodo molto diverso. Sono laureata alla specialistica in Scienze del Corpo della Mente e questo è il mio terzo libro pubblicato. Un anno dopo questo avvenimento mi sono iscritta alla facoltà di Psicologia. Rileggendo questo testo oggi, 7 anni dopo, dalla vista della persona che sono ciò che vedo è molto semplice. Una ragazza con poca esperienza e un pagliaccio dall’ego ipertrofico. Il tempo serve proprio per cambiare e comprendere. Noi sbagliamo spesso nel valutare il prossimo, e in oltre cambiando noi cambiano i nostri parametri di riferimento valutativi. Ma già allora, a 26 anni, in me erano le basi dell’integrità, della coerenza, e della lucidità che mi avrebbe caratterizzato più stabilmente molti anni dopo. Vedessi oggi uno così, e ascoltassi le stesse frasi, girerei i tacchi e mi farei una risata. Ma ogni cosa ha un suo tempo e certe “Viste” hanno bisogno del passaggio di molti cadaveri. Oggi, io cadavere di me stessa, pubblico questo testo come simbolo…come talismano vivente…. Nera Luce Augmn
LanguageItaliano
Publishereditrice GDS
Release dateMar 10, 2018
ISBN9788867827831
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    Karma - Lilith

    Siamo nel 2018. Alle porte di marzo. Io sono Eva, oggi ho 35 anni. Faccio sempre la escort, ma con uno spirito, una qualità del lavoro ed un metodo molto diverso.

    Sono laureata alla specialistica in Scienze del Corpo della Mente e questo è il mio terzo libro pubblicato. Un anno dopo questo avvenimento mi sono iscritta alla facoltà di Psicologia. Rileggendo questo testo oggi, 7 anni dopo, dalla vista della persona che sono ciò che vedo è molto semplice. Una ragazza con poca esperienza e un pagliaccio dall’ego ipertrofico. Il tempo serve proprio per cambiare e comprendere. Noi sbagliamo spesso nel valutare il prossimo, e in oltre cambiando noi cambiano i nostri parametri di riferimento valutativi.

    Ma già allora, a 26 anni, in me erano le basi dell’integrità, della coerenza, e della lucidità che mi avrebbe caratterizzato più stabilmente molti anni dopo. Vedessi oggi uno così, e ascoltassi le stesse frasi, girerei i tacchi e mi farei una risata. Ma ogni cosa ha un suo tempo e certe Viste hanno bisogno del passaggio di molti cadaveri. Oggi, io cadavere di me stessa, pubblico questo testo come simbolo…come talismano vivente….

    Nera Luce

    Augmn

    LILITH

    KARMA

    EDITRICE GDS

    Lilith

    Karma

    Editrice GDS

    Via Pozzo 34

    20069 Vaprio D’adda-Mi

    www.gdsedizioni.it

    Ogni riferimento descritto nel seguente volume a cose,

    luoghi persone è da ritenersi del tutto casuale

    Premessa

    Storie che raccontano altre storie. Un fascista ed una puttana. Due universi che si incontrano nel 2010, a Torino, dentro un'unica realtà: una palestra. Nessuno dei due sa chi ha di fronte, ma un solo sguardo è fin dalla prima ora sufficiente a spiegare un sentimento irrefrenabile. Tutto si realizza dentro quattro mura, lungo un’odissea di silenzi e distanze, attraverso messaggi, frasi a metà, occhiate, assenze, attese.

    Dettagli che cambieranno il loro modo di essere, di vedere, di esistere. Parafrasi del reale che incarnano circostanze sfavorevoli, lotte dentro le lotte, assidua ricerca del respiro dell’altro, affanni e voglie insaziate. Parentesi aperta che spalanca la verità, quando si rendono conto di chi hanno davanti. Ma ciò non è ancora sufficiente ad arrestare la marcia verso quell’unico momento, uno dentro l'altro, sognato, immaginato, al quale nessuno dei due riesce a rinunciare, nonostante la consapevolezza delle condizioni renda tutto troppo difficile.

    Eva, inizia ad amare Paolo, nonostante sia un nazista, e Paolo, accetta Eva per quello che è, anche se fa la puttana. Ma manca il tempo e dovranno reinventare il conosciuto, se davvero vorranno amarsi nella carne.

    Introduzione

    La morte si riteneva femmina, utero cangiante dalle spire ascendenti, tenebra fecondante. Si osservava allo specchio e si fissava a lungo, guardava il suo riflesso consapevole di non essere né quel riflesso né ciò che vi era riflettuto, ma nella possibilità che gli veniva ora data, di vedersi, una parte di sé stessa, s’allietava. Comunque avesse fatto, avrebbe potuto solo fissarsi, e quel fissare sé stessa così da vicino, dentro le pupille nere, gentile dono concessogli dalla luce, in certi giorni altrettanto la alterava. Quella superficie le avrebbe mostrato una sola angolatura, e la visione di sé stessa per quanto vasta potesse essere, non la soddisfaceva a sufficienza. Quella sarebbe stata sempre un’immagine, un’allusione della materia a qualcosa che viveva di una sua sostanza propria, un’anarchia dei sensi proiettati verso qualcosa di indistinto e sconosciuto, senza nome.

    La avevano chiamata morte, ma chi l’aveva abbracciata non era più stato lo stesso dopo averla conosciuta. La sua prerogativa diveniva quindi quella di provocare mutamenti radicali rarefacendo il pesante, dividendo per poi coagulare entro una natura indivisibile.

    Ogni vista che le si offriva partoriva lei stessa, e come poteva sentirsi non dentro eppure fuori ad ogni cosa? Come ignorare che proprio ciò da cui la vita stessa aveva vibrato emanandosi, si nutriva della stessa morte per continuare a esistere? Cosa pensava la morte della morte? Aveva convissuto così a lungo con sé stessa da doversene necessariamente fare un’idea, se non altro per accomiatarsi in lei più dolcemente, per potersi accettare ed infine comprendere. Questo genere di accettazione sarebbe scaturita prima di tutto da lei, per poter divenire infine accettazione dell’altro, e definirsi come una acquisizione sulla quale più non pensare alcunché. I primi tempi, ricordava, si sentiva ammorbata dalla sua stessa presenza in sé stessa, qualcosa di vertiginoso e latente la trascinava verso un incubo condiviso, i suoi stessi pensieri erano vietati alla radice dal veleno insito nella sua stessa natura, che marciva facendo putrefare ogni suo slancio vitale. Decise che l’unica soluzione sarebbe stata quella di vivere da eremita e si rendeva conto che intorno a lei si generava dolore, ed in lei altro dolore contribuiva a devastare ogni bellezza.

    Le grida dei morenti erano fumi sulfurei che tagliavano il respiro, piegando a più riprese ogni tentativo di fuoriuscire da quel vortice opprimente.

    L’Amore era ferito, si spiegava pigro per poi ricadere come morto ad ogni rivolo di vento tiepido. Ed era una brezza gelida quella che le alitava nel cuore, rendendola infeconda. Cercò nel buio a lungo. Sprofondò nel nero più fitto senza per molto tempo riuscire ad alzarsi, la terra era una gravità che spegneva il movimento riportandolo alla fonte impermanente di ogni sorgente di vita.

    Dopo molti anni si risolse in una scelta decisiva. Vivere o morire. Vivere a metà, accontentandosi di gioie parziali, filtrate attraverso il mortifero, non poteva dirsi vita. E morire nella parzialità del suo essere così, sospesa in una dimensione ove nemmeno il suo riflesso allo specchio dava sufficiente conforto, non era morire. Così levò lo sguardo al sole e s’incammino oltre il buio, alla ricerca di qualcosa ove specchiarsi giustamente. Quella era una sfida che proponeva a sé stessa, il coraggio di proseguire dalle interiorità della terra oscura, attraverso i cunicoli cavernosi dei suoi anfratti putrescenti, verso l’uscita. La morte per la morte non poteva dirsi un traguardo, anche se più spesso l’aveva ritenuta una liberazione, ma si trattava più del come piuttosto che del cosa.

    Forse si era guardata di traverso e quella vista dei suoi occhi era ancora troppo poco, ancora limitatamente ignota. In uno di quei giorni offesi, ove la primavera levava alta il suo grido per accostarsi al canto della natura in fiore, la morte giocava a scacchi con i parsimoniosi pedoni della vita ed ancora una volta ne scrutava oscuramente le trame fitte, chiedendosi quando e se avrebbe smesso di giocare, per ritornare a splendere della sua dignità essenziale, facendo quello che aveva sempre fatto ed essendo quello che era sempre stata: colei che muove i pezzi sulla scacchiera per poi frantumarli.

    E venne vicino a lei qualcuno, quel qualcuno e non un altro, le si accostò e la baciò con lo sguardo. Le disse Io sono la morte. Non scherzare con me . Da quel nero fondo in lei si fece spazio una fessura dalla quale lo osservò: anche se i suoi occhi erano blu, in lui vedeva la morte e se ne innamorò.

    La di lui morte era diversa dalla sua, scherniva il fato con un’ironia pungente e sorrideva condividendo i flutti della parvenza: Perché sei sempre infelice. Ricorda che hai una vita sola .

    Forse aveva dimenticato come si vive e si era pensata già finita ancor prima di finire, accondiscendendo la sua natura abbastanza a fondo da divenire lei stessa il suo stesso carnefice, severo carnefice che verga la carne fino dentro l’anima. Uccidimi, ti prego, uccidimi chiese lei a lui.

    Lo fece in silenzio, negli spazi scuri ove insieme danzavano, come un richiamo d’amore eonico, un'unica memoria che finalmente si completa e trova il suo senso in qualcos’altro che è uguale. Ti ucciderò quando mi amerai lui le rispose. La morte femmina tremò, il ventre si accese, la vita iniziò a percuoterla in ogni solco. Ora stava guardando nello specchio giusto, riflessa da sé stessa in sé stessa attraverso l’altro specchio. L’atto d’amore che la morte uomo le rivolgeva era vederla piegata ed abbandonata a sé stessa, attraverso l’uccisione di una parte che in fondo non si era mai compresa abbastanza.

    Ed ora lei comprese, perpetuandosi nel mare azzurro, che non vi era mai stata differenza.

    Molti nomi per una sola forma amalgamata in modi diversi, ferite che si curano accarezzandosi, in un bacio profuso dal vuoto. Si portò sulla riva del mare, guardò oltre l’orizzonte: si emozionò.

    Ora la morte l’abbracciava ovattandola in una stretta amorevole, nella soavità di parole che solo un'altra morte poteva pronunciare così, soffiandole sul cuore, baciando il dolore e redimendo. Lui le stava chiedendo di vivere, di uscire dalla caverna per ritrovare la rosa che sboccia sul ciglio abbarbicato ad un raggio di sole, ove lui aveva posato il suo occhio. Lì nasceva un fiore per poi morire. Tutto era già lì, senza nome e senza voce: un unico fluire incessante, ove non esiste confine.

    Sconfinò in lui e si sentì completa: fece silenzio e si inchinò. Quanto tempo è passato? Dov’erano finiti i tuoi occhi? Ed i miei non sono forse i tuoi? Ti amerò, si, ti amerò, e tu mi ucciderai. Solo così vivrò davvero. Poi, gli dedicò questi versi

    " Quando mi hai guardato ho visto sola bellezza. Sono rimasta incantata. Mi hai incantato ed inebriato e non lo sai. Ho rivolto le spalle alla nube che mi aspettava giusto dietro quell’ angolo scoperto ed un sole s’è speso sulle mie labbra rosse. Scarlatto, purpureo, magma che s’ effonde e si cela e mi circonda e mi riempie.

    Cosa avevo da dare ancora? Io non ho niente da dare.

    Vuoi belle parole e posso dartele, ma questa non è la mia ricchezza. Vuoi generosi sguardi e posso darteli, ma questa non è la mia bellezza. Mi sei venuto a chiedere perdono e ti ho chiesto perdono a mia volta. Mi sono piegata e dal basso ti ho guardato: eri altissimo. Quello che può durare un’eternità di fronte alla fugacità di ciò che morde e viene morso, io lo lascio a chi se ne farà qualcosa. Ma quando sei venuto a chiedermi pordono e perdonandoti mi sono perdonata io stessa, ho desiderato anche dimenticare che il tempo laverà via qualunque cosa abbia creduto che sia esistita. Permarrò nella memoria di qualcuno ma non è questo che cerco. Nell’eternità ove posso abitare esiste lo spettro di ciò che ho amato, di ciò che ha alitato in me, di ciò che mi ha aperto e dilaniato e tutto quel sangue versato cade lentamente nella fessura nera che mi aspetta più avanti.

    Nel tuo esistere adesso mi stai dicendo che è venuta l’ora della rosa che sboccia, che devo cercare acqua dalla terra e fuoco dal cielo, perché sbocci nel tempo che le è dato e poi si accasci al suolo sorridendo. E lo sai che è così. Lo leggo nei tuoi occhi. Quando mi sono chinata e ti ho guardato felina, mi hai fecondata bagnandomi dei fiotti che uscivano dai tuoi occhi aperti ed io mi sono inebriata di ciò. Sono rimasta così a lungo ed intanto si bagnavano le vesti e la carne e dalla sommità del cranio generavo universi. Sei entrato lavando via, ma senza ferire. E quando mi incantai di una lacrima e di come lei fosse viva, ed in lei io stessa stessi riversandomi a terra, mi hai ricordato anche di quanto tempo è trascorso da quando il dolore era una tenera fessura ove mi arrendevo quieta, invece di combatterlo. Tutte le vite e tutte le morti per un solo momento di ora, l’unico tempo che mi appartiene davvero e che non durerà, anche se subito dopo tornerà per andarsene di nuovo.

    Meravigliosa questa danza si fa lo spettro di me stessa che cuoce al sole per ritornare al cielo, fuoco che non brucia. Ed è così che getto via le ultime vesti e nuda ti vengo davanti. Se tengo qualcosa per me potrai davvero dire di stare abbracciando tutta me, od avvolgerai solo una parte? E se volessi portarti là dove sono stata, fra i ghiacci senza fine e la luce blu argentata di un cielo senza nubi, non mi servirebbero le ali? Così mi voglio rendere leggera come un respiro, io respiro che respiro, e tu, cingendomi, volerai con me, perché non c’è pesantezza che una grandissima leggerezza non possa sollevare. Dove è il vuoto, niente più scende e tutto fluttua in ogni direzione. Quando non sentirò più il fruscio del vento, ed un sordo frastuono annienterà anche l’ultimo suono, questa voce raggiungerà ogni altezza.

    Mi sono incantata quando ritenni che la morte sarebbe stata la più grande ricompensa per una vita vissuta essendoci. Come un sollievo, una rettificazione di sensi menomati, un atto d’amore verso sé stessi. Come quando si lascia qualcosa che non è più tempo di avere, perché è ora di lasciare il posto ad altre danze. Questo sarà ciò che darò infine, prima e poi ancora infine ancora del tutto, quando mi amerò così tanto da lasciarmi libera.

    Volevo volare fino alla vetta per vedere se da lassù potevo vedere tutto e mi accorsi che quella vetta era nel centro esatto del mio essere. Quando mi hai guardato mi hai mostrato anche questo. Ho guardato ancora e mi sono accorta che la morte era già arrivata. Ma non me ne ricordavo.

    Sei venuto per me? Sai che tutto questo passerà ma resteremo noi, se in quella fugacità crudele e magnifica, ci saremo stati. Allora quando fra cento anni o mille ti ritroverò davanti a me, mi sembrerà che non sia trascorso neanche un battito di vento.

    Rivolgimi il tuo volto più dolce ed anche quello più crudele. Non c’è vera bellezza senza la crudeltà che solca ogni angolatura e prospettiva. Ed io allora verrò vestita di solo fuoco, per amarti ed onorarti, nella vita e nella morte, nella salute e nella malattia, per sposarmi a te in ogni parte di me, senza lasciarmi qualcosa. Sarà così che avendomi io stessa dopo essermi persa, tu mi ritroverai a guardarti. Ed allora voleremo insieme".

    Prima Parte

    EVA

                                                                       1.    Il Sepolcro

    Lo scorgeva già. Un sepolcro laggiù ad attenderla. Era sospeso dove il desiderio s’infittisce fino a lacerare il ventre, nel punto esatto dove si era fermata a rimirare un orizzonte vacuo ed inconcludente, chiedendosi cosa avrebbe dovuto farsene di tutta quella materia esposta.

    E sotto la carne fiotti d’ acqua scorrevano a render placido ciò da cui poco prima si lasciò travolgere, un fuoco che la arse senza ponderazione, fino ad incenerirla. Aveva lasciato quel letto cavo d’alta montagna esausto, ricoperto di cenere grigiastra. Se ne ero andata senza lasciar scorrere una lacrima e di quelle che non aveva versato, aveva fatto un fiume che riversò dove solo la morte raccontava la vita. Così, dopo qualche tempo, ritornando in quella landa desolata, trovò sbocciata una natura che si era nutrita del sacrificio della sua carne divampante, abilmente placata da dentro: un rivolo d’amore con il quale si accarezzò, senza tuttavia potersi condonare il perdono. Cos’erano tutte queste parole stese al sole? Si aggrovigliavano l’una sull’altra generando universi che erano trascorsi ed amalgamandosi si radicavano più in là, dove ancora non era arrivata a bere.

    Aveva infatti bevuto la coppa amara che senza saziare eppure a suo modo era riuscita a saziarla, colmandola di un’abbondanza privatrice, ed in quella privazione aveva comunque trovato un senso di pienezza, come dal vuoto procede il risveglio.

    Se non poteva decantarsi dopo aver biasimato sé stessa, non riusciva neanche più ad aggredirsi, allora ma non adesso le restava soltanto quella vista di un orizzonte nebuloso, e qualche passo deciso verso la riva la avrebbe condotto oltre, in una nuova vita. Le sembrava di aver vissuto vite dentro la vita ed una vita dentro altre vite.

    Eva, un’piccolo cosmo in espansione costante dentro un vuoto pieno inconoscibile, condivideva anfratti e luci ambrate con altre forme, in un caleidoscopio frastornante. Quando spostava l’asse di visione abbastanza in alto, e si trascinava lontano dal muro per poterci essere, vedeva chiaramente l’insieme. Non ci sarebbe mai stato un assoluto definibile ed i termini stessi la avrebbero sterminata rapidamente se avesse davvero creduto che in essi potesse esserci tutto quello che era, e sarebbe stata.

    E quella conoscenza poteva spingersi e doveva spingersi oltre le parole, oltre il concetto stesso che le parole sottintendevano.

    Ma non era forse la parola sottintesa nel concetto?

    Se l’avere un corpo riflettente la aveva adombrata e adombrava questo che sapeva, ancora saperlo non le era sufficiente. Doveva infatti terminare tutte le parole ed i concetti, farsi uno scavo vuoto per accogliere il pieno e da quel luogo avrebbe tutto ricevuto e tutto dato nella sua cristallina purezza e potenza. Voleva condividere qualcosa e lo condivise, ma ad un certo punto si chiese fino a che punto lo aveva davvero fatto o se non era stato invece un filtro soggettivo a farle credere che fosse davvero così ed invece dall’ altra parte ci fosse stata solo una vista parziale. Cominciò anche a riproporsi lo stesso quesito rivolgendolo a sé, come se sé stessa fosse l’osservato e lui fosse l’osservante che si osserva. Allora divenendo lui in un atto di amore che anela al verticale si disse che anche lei aveva avuto una visione parziale. Fra chi le diceva che poteva sfuggire alla parzialità percettiva e chi le diceva che la soggettiva non era oltrepassabile in quanto corpo, propendeva più per la prima versione e non a caso.

    È vero che aveva accolto in lei ogni parola che le fosse stata rivolta e nell’ascoltare aveva tentato proprio di svincolarsi da quella soggettività, per riempirsi ed inebriarsi di ciò da cui quelle parole erano sorte. Non le parole in sé stesse quindi, e non il concetto, ma il substrato emotivo ed animale da cui erano scaturite, addensandosi attraverso successivi stadi. Rarefacendosi ecco che quell’ ascoltare passava attraverso gli occhi. Quelle parole non erano più così oscure.

    Ascoltare con gli occhi e vedere con le orecchie. Eppure di tanto che si ero sentita comunicare era stata proprio una frase del genere a risvegliare in lei un nuovo senso che infine le aveva permesso di comprendere ciò che quelle lettere abbarbicate una sull’altra volevano dire.

    Lo decifrava a questo modo il suo esserle così vicino e le sue frasi gettate qua e là passando. Il sottostrato di carne e desiderio la trascinava in basso, verso i sensi e dentro verso le viscere. Quando non esaspera i sensi oltrepassandoli veniva trascinata in un coacervo di ragioni che non erano ragioni e posizioni che non erano posizioni: se ne rendeva conto quando l’una poteva esser vera quanto l’altra ed entrambe altrettanto false, eppure non poteva dire di non esserci e pensare o provare qualcosa. Quello che sentiva ora che lo aveva così vicino, occhi dentro agli occhi, era una veemenza placida, l’espressione di una potenza che si nasconde dentro e non fuori l’acqua placida di un lago, e che si sarebbe scaricata su di lui come un’onda che segue naturalmente il suo corso. Il battito del cuore scandiva una vibrazione che da gentile brezza gelida, stava diventando vorace vento bruciante del deserto. Si era così sollevato un grido da dentro di lei, fra quella cenere sollevata dal vento e via via che passava il tempo l’atmosfera si faceva più limpida e la sabbia ricadeva a terra, lasciando a scorgere un rosso sole all’ orizzonte

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