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Sincronia colpevole
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Sincronia colpevole

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About this ebook

Molte volte viviamo la vita ignari del fatto che, dall’altra parte del mondo nello stesso istante, un’altra persona possa vivere le medesime sensazioni. Non c’è però bisogno di andare molto distante per trovare due persone accomunate dallo stesso tipo di guerra interiore, basta attraversare un paio di vie in una grande città come San Francisco ed ecco un uomo di nome Daniel Rivera, che ha perso tutto nella vita: la moglie Gilda e il figlio Tommy. Oppresso del peso del dolore e di infondati sensi di colpa, decide di punirsi per il resto dei suoi giorni vivendo per strada.
Poco distante, in un’umile casetta Connor Sullivan, dieci anni, fa i conti con una realtà ben diversa da quella dei suoi coetanei. Le sfaccettature che il destino gli ha riservato hanno fatto di quel bambino un involucro di dolore, rabbia e ingenua speranza, trascinandolo in una sofferenza troppo grande per il suo piccolo cuore.
Due sconosciuti, uniti da eventi tragici e drammatici, sullo sfondo di una contemporanea San Francisco, si troveranno per caso a condividere la stessa sincronia, un abisso, lo stesso desiderio di espiazione.
Sincronia colpevole è un viaggio introspettivo. È il tempismo perfetto di tante vite imperfette. È il senso del tempo che scorre ma che in realtà non esiste. È la colpa di aver scelto chi essere e la sensazione di sentirsela pesante addosso. È la macchia nera interiore che ci si porta dentro, stando a galla nella propria vita come meglio si può, senza mai provare a nuotare davvero. È l’errore commesso, la verità che costantemente abbiamo sotto gli occhi ma che non vediamo.
LanguageItaliano
Release dateMar 13, 2018
ISBN9788867933709
Sincronia colpevole

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    Sincronia colpevole - Giada Strapparava

    EDIZIONI SENSOINVERSO

    AcquaFragile

    © Edizioni SENSOINVERSO

    Collana AcquaFragile

    info@edizionisensoinverso.it

    Via Vulcano, 31 – 48124 – Ravenna (RA)

    © 2017 – Copyright | Tutti i diritti riservati

    Sensoinverso – P.I. 02360700393

    ISBN 9788867933624

    1° edizione – Marzo 2018

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio. Tutti gli episodi, le vicende, i dialoghi di questo libro, sono partoriti dall’immaginazione dell’autore e non vanno riferiti a situazioni reali se non per pura coincidenza.

    GIADA STRAPPARAVA

    SINCRONIA

    COLPEVOLE

    A Stella,

    che con la sua breve presenza nella mia vita

    è riuscita a darmi quello che in una vita,

    tante persone non riuscirebbero mai.

    A Natascia e Marcella,

    donne speciali d’altri tempi

    che hanno visto fra queste pagine

    la mia penna intinta di audacia e amore.

    Ultimo, ma non meno importante: a me stessa.

    E al mio coraggio di fare delle mie più grandi paure

    i miei punti di forza.

    «Dentro un raggio di sole che entra dalla finestra,

    talvolta vediamo la vita nell’aria.

    E la chiamiamo polvere.»

    Stefano Benni

    «Coloro che amiamo e che abbiamo perduto

    non sono più dov’erano

    ma sono ovunque noi siamo.»

    Sant’Agostino

    Prefazione

    Chiedetevi sempre cosa spinga una persona a un comportamento piuttosto che a un altro. Chiedetevi perché abbia una determinata paura, perché si mostri al mondo in un modo insolito, spesso incomprensibile agli occhi di molti e perché abbia bisogno di vivere la vita facendo delle scelte forti e per lo più non condivisibili. La verità è che nel passato di ognuno di noi si nascondono eventi, fatti, parole che segnano l’esistenza in modo indelebile, creando un solco potente e prepotente e mentre viviamo quel presente non sappiamo ancora quale sarà la conseguenza sul nostro futuro.

    Ma quando arriva, questo futuro, diventando il nostro nuovo presente, rimette in ordine tutti i tasselli del nostro cammino, svelandoci chi siamo diventati e il motivo per cui abbiamo assunto queste strane sembianze. Lo sa bene Connor, un bambino di dieci anni che vive col senso di paura e con il bisogno di protezione. Lo sa bene Daniel, che vive per strada, o meglio sopravvive perché non c’è più nulla che possa tenerlo in vita davvero. E a loro modo lo sanno bene anche Anna e Robert, un uomo e una donna vicini fisicamente, ma lontani anni luce l’una dall’altro nei pensieri, nel carattere e soprattutto nella natura. Sincronia colpevole è il tempismo perfetto di tante vite imperfette. È il senso del tempo che scorre ma che in realtà non esiste. Tutto sfugge dalle mani dei protagonisti, senza che essi possano realmente rendersene conto. È la colpa di aver scelto chi essere e la sensazione di sentirsela pesante addosso. È la macchia nera interiore che ci si porta dentro, stando a galla nella propria vita come meglio si può, senza mai provare a nuotare davvero. È l’errore commesso, la verità che costantemente abbiamo sotto gli occhi ma che non vediamo. Per miopia o per scelta. Ma è una verità forte e ingombrante che prima o poi ci viene a sbattere contro con violenza scaraventandosi addosso a noi. Ed è così che scopriamo veramente chi siamo. È così che la natura che abbiamo scelto per noi muta e assume altre forme, forse quelle più giuste. È così che abbiamo la capacità di riscattarci. E di scegliere, nuovamente. Perché nelle sincronie della vita, nel lungo cammino di ciascuno di noi, c’è sempre un’occasione nuova, una possibilità ulteriore, un altro tempismo perfetto. Basta solo vederlo e afferrarlo al volo.

    E allora la colpa che pesava come un macigno nel nostro petto, nei nostri pensieri e alloggiava nella nostra anima, finalmente svanisce lasciando spazio a una preziosa possibilità: il perdono per se stessi.

    Giulia Dell’Uomo

    A volte non basta sopravvivere, bensì vivere

    Si può nascere e morire più volte, si può comprendere l’amore della vita e capire il complicato intreccio della morte: è tutto lì, nella nostra testa.

    È proprio lì che regna l’utopia, un mondo fatto di avvenimenti anche non perfettamente combacianti, che cercano di accaparrarsi il primo posto sotto forma di ricordo.

    A volte non basta sopravvivere, bensì bisogna vivere. Un mondo divide queste due parole opposte, anche se composte dallo stesso concetto.

    Dovremmo cercare di perseverare nella nostra vita, trovare degli schemi d’attacco e vivere ogni cosa come fosse l’ultima, solo così potremmo godere appieno delle nostre capacità, solo così potremmo imparare a rimanere svegli e vigili in una società che ci fa morire per vivere.

    Questo Daniel Rivera lo sapeva bene, non era insolito che contemplasse la vita come una vecchia amica d’infanzia e come un luogo di culto intimo.

    Per lui, poche cose erano quel che si può definire gioia e amore; la semplicità, ciò che la gente non vede più perché attratta da frivolezze e addobbi.

    Da piccolo, Daniel Rivera si divertiva con poco. Amava giocare mettendo in fila quattro sassi bianchi e con gli altri bambini costruiva, sulla base di quei ciottoli inanimati, una storia che durava anche tutto il giorno.

    Ora, osservava la gente passare per Mission Street: un gruppetto di ragazzini disposti a cerchio, ognuno con uno smartphone di ultima generazione in mano. Telefoni che costavano uno stipendio, che non era nemmeno il loro.

    E poi quanto erano diversi quei ragazzi, pensò Daniel, in confronto all’adolescente che era lui tanti anni prima.

    Più li guardava in volto e più vedeva svanire la loro fresca innocenza. Non erano sguardi fanciulleschi, tantomeno ingenui, ma piuttosto colmi di una nuova onnipotenza. Non era un ego positivo quello che esibivano quei ragazzini nell’iride: era un potente senso di consapevolezza. Una consapevolezza irreale, fraintesa.

    A quell’età lui osservava e coglieva ancora il lato puro delle cose, il mondo era un essere da scoprire e da rispettare, ma per quel gruppo poco distante da lui non era così.

    Ne vedeva spesso di ragazzi passare. Daniel viveva a Mission District, uno stupendo quartiere di San Francisco, forte delle sue origini latine: dalle persone alla vivacità dei colori, interamente ricoperta di murales e impregnata dell’aroma di squisito cibo messicano.

    Daniel si alzò da dove era rimasto seduto per circa due ore.

    Non era una persona malvagia o negativa; Mission District contava un’alta criminalità e lui questo lo sapeva molto bene, ma non era un delinquente, era solo diverso.

    Gli piaceva sorridere ai bambini, quelli piccoli. Lo adorava perché erano ancora privi di preconcetti: A differenza dell’adulto, l’infante ragiona e pensa esclusivamente con il suo istinto: sorride solo se vuole realmente farlo.

    Quello scambio di espressioni oneste era presto interrotto da una madre che lo guardava in cagnesco, strattonando la mano del bambino in un’altra direzione.

    Forse erano i suoi denti, pensò Daniel. Non aveva la possibilità di lavarseli, lo poteva capire, ma ai bambini non importava.

    Imboccò la prima via sulla destra e s’inserì nel flusso di passanti, ma anche così – in qualche modo – spiccava tra la folla.

    Era diverso. Era un senzatetto.

    Nel corso degli anni si sono inventati moltissimi modi per identificare quelli come Daniel. Senza casa, senza fissa dimora e senzatetto, sono solo alcuni dei possibili nomi che vengono utilizzati per le persone come lui.

    Scoprì soltanto in seguito che per i francesi era un clochard e per gli inglesi un homeless. Quest’ultimo appellativo lo preferiva in assoluto: il suono delle lettere, così assemblate, era decisamente più dolce.

    La gente, però, non sa che molti di loro diventano tali per scelta. Non sempre sono tossicodipendenti, alcolisti o uomini deboli che si sono giocati la moglie al gioco d’azzardo. Molte volte sono anche persone che non riescono a vivere sotto il dominio di uno Stato politicamente scorretto e che non possono pagare più di quello che hanno. Allora stanno per strada, vivono alla giornata e senza dipendere da nessuno.

    Daniel ne conobbe diversi che fecero proprio questo tipo di scelta. Come conobbe uomini messi sulla strada dalle mogli, per alcolismo o per aver mandato in rovina economicamente l’intera famiglia, figli compresi.

    Lui iniziò a vivere in strada perché aveva perso tutto. Era un uomo moralmente morto che aveva perso la voglia di sperare e di comprendere, non voleva nemmeno provarci, ma poi gli anni passarono e il dolore lacerante e inconsolabile si trasformò gradualmente in uno dei ricordi più belli, ma più amari, della sua vita

    ***

    La lampadina accanto al letto, dipinta di un colore blu oceano, era accesa ed emanava fasci di luce azzurrognola su tutto il soffitto. Di fianco c’era un bicchiere d’acqua e poco più in là, seduto sul letto, un bambino.

    Una donna, dai lineamenti raffinati, si affacciò sulla porta. «Connor, non vai a dormire?»

    Il bambino alzò bruscamente il viso, abbassando il giornalino che leggeva con avido interesse. «Sì mamma, tra poco, devo finire la storia.»

    La donna gli sorrise e andò verso la cucina.

    Quella stanza apparteneva a Connor Sullivan, un bambino di dieci anni appassionato di fumetti e modellini di aeroplani. Quelle, in realtà, erano solo due delle molteplici passioni che portava nel cuore. Per il futuro sognava di poter fare il lavoro di suo padre: allevare i cavalli.

    Un fumetto lo divorava anche in un pomeriggio, si metteva lì con le gambe incrociate e leggeva fino all’ora di cena. A scuola aveva sempre dei buoni voti, ma era un ragazzino alquanto difficile, dicevano le maestre, non perché fosse maleducato o fannullone, al contrario era molto timido e riservato.

    Anche se aveva solo dieci anni, lui si era dato le sue spiegazioni. I traumi non sono setacciati dal cervello, il subconscio rimane sempre lì e possiede informazioni a cui noi non possiamo arrivare. Connor sapeva che la parte conscia della sua mente rispecchiava solo la punta di un iceberg e che negli abissi del suo inconscio si trovava il resto.

    Lo aveva letto in uno dei suoi fumetti.

    Comprendeva perfettamente che molti traumi erano inestirpabili e che il potere della mente coscienziosa non poteva competere con la parte subcosciente.

    Forse era per questo che non riusciva ad avere dei veri e propri amici attorno a lui. I suoi pensieri vagavano troppo in là rispetto ai ragionamenti elementari dei suoi coetanei. Parlare di pensiero illogico o irrazionale con un altro bambino di dieci anni, non era possibile. Questo Connor lo sapeva bene e se n’era fatto una ragione.

    Posò il giornalino e spense la lampadina blu. Mentre s’infilava sotto le coperte, sentì sua madre prendere la borsa e lo spolverino dall’attaccapanni. Lavorava solo la sera, fino a notte fonda come cameriera in un casinò.

    Connor non era turbato dal fatto di dover passare la notte da solo, era più angosciato da un’altra cosa. Forse anche quella notte lui lo avrebbe fatto di nuovo…

    ***

    Vi era un parco impreziosito da sempreverdi e coperto da rose selvatiche, decisamente uno dei migliori per Daniel.

    Avevano anche da poco sostituito le panchine, prima spigolose e dure, ora invece finalmente adattabili anche al didietro di una persona senza protesi ai glutei.

    Nell’aria si percepiva il profumo della primavera, ma non era solo l’aroma dei fiori e del fresco a suggerire a Daniel l’arrivo della bella stagione, erano le persone.

    Molte si preparavano ad allestire un bel picnic, altre correvano o giocavano a pallone, cani scodinzolavano di qua e di là mentre una schiera di bambini li seguivano divertiti. Se Daniel fosse stato cinico, avrebbe tranquillamente dichiarato di essere in paradiso.

    Gli si avvicinò un bambino dai capelli biondo cenere e le guance violacee, sfoggiava pantaloni sporchi di terra a

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