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Eleonora
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Eleonora

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Eleonora Brasi è una psicologa analista di scuola junghiana, brillante e di successo. Ha una visione professionale assoluta, acritica, ossessiva. Vive dentro di sè un impulso che chiama ricerca d'anima e lo diffonde, appunto, con veemente ossessione. E' l'amore sentito come archetipo. Lo incarna in un giovane amante colombiano capace di far armonia, fra i due, di gesti sessuali perversi. Ne è convinto il suo analista Camillo Volterra. Eleonora, invece, ne afferma il fondo ancestrale, ereditario, istintuale comune a tutta l'umanità. Segue il giovane a Bogotà e vi conquista la fama. Altri tre amanti italiani, cui se ne aggiungerà un quinto verso la fine della narrazione, le sollecitano a diversa intensità e convenienza il cuore. Quiesti fanno gruppo con la psicologa per difendersi dagli attacchi mortali orditi dal narcotraffico in risposta ad un involontario e grave evernto..; Eloeonora, bella, affascinante, inaspettatamente guerriera ed esperta d'armi è, con i suoi amanti, in fuga per tutta la Colombia...;
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateMar 15, 2018
ISBN9788827820322
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    Eleonora - FRANCESCO SALAMINA

    Self-Publishing

    Eleonora

         Vivevo ad Alghero in quegli anni e insegnavo in un liceo. La scuola si apriva sul mare e così la mia casa. Pareva vivessi in un’interminabile estate. Bellissima. Mi ero trasferito dalla Toscana per voglia d’isolamento. Avrei scritto finalmente quel romanzo. Quali escursioni avrebbe, la mia instabile e famelica anima, descritto se non avessi dato lontananza alle inerzie ordinarie di una vita ordinaria? Dovevo annegare in un oceano di solitudine. Così scelsi la Sardegna e Alghero. L’istituto dove insegnavo, dicevo, aveva le finestre aperte sul mare e, nell’azzurro, spesso invitavo i miei allievi a disegnare sulle carte un invisibile orizzonte. Andarvi, navigando e navigando, con un’invisibile vela per un’invisibile via. Ecco quel mare e l’isola.

    Un ormeggio sicuro e distante. Alghero, una madreperla catalana, posava non solo sul mare ma anche su un’interessante misura culturale che attraeva intellettuali da tutta l’isola. Cinema. Teatro. Letteratura. Era una sinfonia nella quale immergevo tutto me stesso. La recitazione dei Versi vi trovava l’ambiente più fantasioso e mirabile. Non avevo amori e il mio essere solo era un vessillo sicuro per le mie scorrerie e la mia cortigianeria. Fui invitato, come professore, a seguire un corso di pedagogia e psicologia presso l’università di Sassari obbligato dagli aggiornamenti. Non ne fui entusiasta. Un certo interesse lo provai per la psicologia perché le lezioni le teneva una dottoressa competente e bella. Erano quelli anni in cui l’obbligo etico dell’impegno sociale e politico misurava lo spessore dell’intellettuale ma io, distante e indifferente, me ne infischiavo e, per quanto militassi, come quasi tutti i miei colleghi, in un’idea diremmo proletaria della società i miei libri la tradivano. Un dandy con la poesia elitaria e la malizia di un’essenzialità ostentata. Un morto di fame con l’aria di un cortigiano falsamente borghese. Che antipatia mietevo fra gli impegnati e i devoti della rivoluzione. Eppure mi divertiva quella contraddizione non sempre veduta nella sua necessità libertaria. I ricchi della Costa Smeralda amavano tutto questo e spesso ne imitavano la possibile virtù almanaccando di certe loro sensibilità proletarie e sociali. Un falso teatrale e ne ridevo e ne alimentavo la dialettica fra lo champagne e piatti di aragoste cucinate da chef pagati come star. Che feste! E che regine eleganti! Mi rallegravo per quegli inviti e ne godevo magnificamente.

    In quell’estate calda a Liscia di Vacca mi trasferii in un posticino che un mio collega mi aveva prestato in cambio della mia piccola casa in Toscana. Era un paradiso superbo. La villetta con patio e giardino, due camere, cucina e bagno. A duecento metri la spiaggia a falce si offriva al mare placido e limpido. Vi avrei trascorso due mesi dopo gli scrutini e gli esami. La prima notte dormii sulla sabbia mentre una nuvolaglia di sogni navigava su di me svegliandomi e riaddormentandomi convulsamente. Come al solito gli incubi popolavano il mio inconscio e forme terribili mi adescavano facendomi urlare e agitare.

    «Signore! Signore!»

    Mi svegliai fra le braccia tiepide e bagnate di una donna bella e austera.

    «Il suo urlare mi ha richiamato dalla battigia dove stavo facendo un bagno mattiniero. Ho dovuto rassicurarla. Come sta?»

    «Grazie, mi capita e non ricordo mai il sogno che procura quest’ansia notturna.»

    «Lei non vuole ricordare ma sogna. Sognare è un bene.»

    «Sono Gabriele Del Valle. Ha fatto colazione? Mi permette di invitarla.»

    «Eleonora Blasi. Grazie.»

    Eleonora mi emozionò ed ebbi dentro strani ammonimenti. La guardai mentre era seduta dinanzi al tè e a marmellate isolane. Accavallò le gambe e nel farle roteare la parte del costume sottostante ebbe uno scatto e s’intravide un vorticoso abisso. I seni scoperti e la linea posteriore del tanga, inesistente, rendevano la signora quasi nuda. Forse era un vezzo e che ne godesse si capiva. La colazione fu consumata e andò via.

    La Costa Smeralda durante quel mese di luglio era piena di turisti eletti per via di un caldo esasperato. Le navi milionarie attraccavano negli imbarcaderi o al largo di Porto Cervo e la piazzetta e i negozi erano continuamente affollati. La spiaggia sembrava un salotto sfarzoso, dove signore abbronzate e ingioiellate prendevano il sole accompagnate dai mariti o dagli amanti. Agenti di modelle e di artisti scodinzolavano fra quei ricconi per organizzare feste. I locali pullulavano ogni sera.

    Proprio su una di quelle navi, un’immensa deriva di ricchezza, il due di luglio fui invitato da donna Lucilla Mendez. Una colombiana che aveva conquistato Giovanni Loprete, il padrone di buona parte delle aziende tessili di quel paese. Dall’Italia era sbarcato in Colombia e vi aveva localizzato una serie d’imprese che un tempo erano ubicate nel nostro Nord Est. Un traditore. Un vero moderno negriero che si arricchiva sulle differenze del costo del lavoro. Accettarne l’invito voleva significare essere umiliato dall’ambiente intellettuale dell’isola ma, come dicevo, non me ne importava e rispondevo accettando con sincera gratitudine. Salii sulla nave con il mio vestito di lino bianco e come il più classico dei cortigiani.

     «Ciao Gabriele ti stavo aspettando!»

     «Sono felice di essere con voi.»

    La nave era un tripudio di luci e la piscina centrale s’illuminava di fasci colorati la cui sorgente veniva dall’albero maestro. Un due alberi gigantesco. Sembrava che la notte galleggiasse fra il buio e il chiarore lunare. L’orchestra suonava. Gli ospiti sedevano o ballavano. Champagne e vini di qualità scorrevano fra piatti di elevata squisitezza.

    «Ecco!» Dicevo a me stesso. «L’aristocrazia sporca del nostro tempo. Il gregge ha pastori crudeli.»

    E mi preparavo a dialogare con i possibili interlocutori. Il padrone, Giovanni Loprete, mi amava per questo e per quella mia sconsiderata contraddizione. Un intellettuale di sinistra sulla sua reggia galleggiante e che intellettuale, diceva, vista la sua fama fra i giornalisti. Quella sera cosa avrebbe detto a quei rompi coglioni a proposito della sua Vanesia, il nome della nave, e del suo ambiente intellettuale? I giornalisti erano pronti a intervistarlo. Anzi qualcuno di questi veniva invitato strategicamente e orientato verso di me. Il vero mattatore di schermaglie d’arte ma anche politiche. Ero capace di dire o non dire e di sferzare e Giovanni se ne beava anche perché sottolineavo il suo spessore culturale.

    «Gli imprenditori sono uomini di azione e di pensiero» diceva, arpionando il concetto di essere, insieme ai suoi colleghi, i veri produttori di ricchezza. Non mi arrischiavo a dargli torto, e poi, come avrei potuto se non usando le categorie di Carlo Marx.

    «Gabriele sei pronto?»

    «Sono curioso.»

    Giovanni Loprete, imprenditore dalla professionalità leonina e dotato di una certa cultura, aveva studiato alla Bocconi e conosceva i ritmi e i respiri dei mercati e sapeva, a suo modo, conquistare quanto era dovuto alle sue imprese. Il lavoro lo considerava un vero costo di produzione senza alcuna etica. Lo sfruttava, lo utilizzava come una qualsiasi forma di energia. Aveva nel suo pensare l’archetipo selvatico dei suoi confratelli della prima rivoluzione industriale. Era un cane ma sapeva comportarsi elegantemente. Amava la letteratura ed era informato sulle scienze umane e gli piacevano la dialettica e le guerre di pensiero. Per questo amava circondarsi d’intellettuali e artisti dagli orientamenti diversi. Il ponte della nave era arredato in modo tale che gli interlocutori potessero fronteggiarsi. Divani bianchi e poltrone nere e un pavimento lustro di legno pregiato. Gli invitati presero posto nell’inconsueta agorà e l’ufficiale commissario fece da maggiordomo presentandone i nomi come in una corte di reali.

    L’architetto Vincenzo Lopez e signora, il dottor Virginio Morelli e signora, la dottoressa Eleonora Blasi e signore, la poetessa Chamira, lo scrittore Federico Cappelli, la sociologa Veronica Musumeci e signore. E via di seguito. Mi alzai e m’inchinai quando Eleonora apparve con Paco al suo fianco. Anche quella sera il suo vestito copriva appena le sue geometrie. Paco Llorente, mi dissero, era il suo amante colombiano. Ebbi una vibrante emozione e i suoi occhi sfuggenti mi ferirono in profondità. Mi salutò sorpresa. Chamira, la poetessa algerina, regale ed elegante, si avvicinò con portamento etereo. Le andai incontro e le feci il baciamani mentre ricordai, a memoria, alcuni suoi versi mirabili. Piegò i suoi occhi neri e mi ringraziò. Gli altri, a parte gli scrittori e qualche pittore, si misuravano nelle loro professionalità fra industria e terziario isolano. Giovanni Loprete sceglieva con cura i suoi ospiti soprattutto quando pensava a un tema che potesse interessare tutti. Quella sera pensò alla libido. Invitò per questo Eleonora, psicologa junghiana di una certa fama. Si avvicinò alla signora e mi chiamò.

    «Il professore Gabriele Del Valle scrittore.»

    «Ci conosciamo.»

    Sorrise. Il colombiano fece lo stesso. Lucilla mi prese sottobraccio indicandomi il bar.

    «Devo stare attento a quel Gabriele, mia moglie lo adora.»

    Rise sguaiato. Invitò gli ospiti a tavola. Sedemmo e nel guardare Eleonora capii quando l’avevo incontrata per la prima volta. Era lei la dottoressa che teneva le lezioni all’Università ed era lei che mi aveva svegliato dall’incubo. Ricordai il suo eloquio. Un vero osso duro. La cena ebbe termine. Tutti si spostarono dal salone verso l’agorà oramai inargentata dalla luna e da un fascio tiepido di luci. La nave dondolava come un’isola irreale.

    «Eccomi a pensare in una proiezione femminile e da questa ritornare al maschile come in una circolarità di effetti che tutto attraversa. Una febbre attrattiva. Il femminile accentra, come la bocca di un vulcano, l’energia primaria e il maschile la guida, la orienta, la distribuisce. Per questo la sapienza di questo processo deve realizzarsi nel maschio amante e poi, come in un riflesso, in quello femminile. L’esistenza si avviluppa e si stringe nell’armonia di questa voluttà. Se la geometria perfetta prevista dalla natura non dovesse realizzarsi le vite sarebbero squilibrate, a volte sofferenti, incerte. La libido intesa come energia psichica di natura sessuale rappresenta la bussola dei nostri comportamenti.»

    Esordii con queste parole. Eleonora rimase fissa e quasi assente. Attesi.

    «Lei ritiene che la sessualità sia fonte primaria di comportamenti. Quali teorie la sostengono se non, forse, quelle del dottor Freud.»

    Rispose la sociologa Veronica Musumeci, donna altera e impostata, conturbante, disegnata come un’icona della libido manifesta; scosciata fino all’inverosimile e con movenze dosate e pensate.

    «Nessuna teoria se non il discernimento dall’osservazione e dall’esperienza. Posso ribadire che il femminile accentra dentro di sé la parte più importante della libido. I maschi dovrebbero farla vivere verso un pari piacere plurale. È facile ricordare quanto sia drammatico per molte donne la questione dell’orgasmo e della sua mancata o parziale realizzazione. E poi cosa dire della reiterazione quasi infinita del piacere femminile? Se il maschio non dovesse averne conoscenza o dovesse assumere atteggiamenti egoistici il tutto si chiamerebbe insoddisfazione…»

    «Dunque la questione della libido la risolve con questi pochi concetti, diremo di inversione comportamentale. Non le sembra poco?»

    Accennò lo scrittore Federico Cappelli intellettuale di orientamento cattolico.

    «Non è poca cosa perché spesso la soluzione la si trova nella contraddizione fra l'insoddisfazione femminile e l’impreparazione tecnica del maschio.»

    «Non mi convince.»

    «Osservi…»

    «Cosa vuole dire?»

    «La centralità del femminile.»

    «Quali ad esempio?»

    «Il trucco, le gonne cortissime, i seni al vento, il posteriore esposto e altro…»

    «Lei banalizza!» Disse Veronica Musumeci mentre si copriva le cosce con un’impossibile gonna.

    «Sono d’accordo, lei banalizza. Una tecnica. Che orrore!»

    La dottoressa Blasi prese la parola mentre una brezza le tolse quasi del tutto il vestito. Si vide… sotto non aveva nulla…

    «Il dottor Jung ha discusso e contestato la centralità degli impulsi sessuali. Sostiene che vi sono altri istinti come quelli della nutrizione e del potere. Così se il cibo è scarso l’istinto a nutrirsi prevale su quello sessuale. Nelle società capitalistiche, dove regna il desiderio di far denaro e scalare le vette del potere, si sviluppa in alcuni un impulso superiore a quello sessuale. Quale centralità, dunque, della sessualità nella nostra vita? È un istinto come altri che deve essere soddisfatto. E la sua soddisfazione è guidata dai sentimenti e non da tecniche. Questo punto di vista è condivisibile nella misura in cui la questione della sessualità, in alcuni casi, perde fondamento mentre per altri, e direi sono moltissimi, rimane appunto centrale. Anzi aggiungerei che in questo argomentare i sentimenti vanno intesi come anima. La sessualità come espressione dell’anima.»

    «La discussione si fa briosa e quanto a te sei un vero cane; hai messo in difficoltà la sociologa, stringeva e copriva le cosce; e che cosce Gabriele!»

    Prendemmo una coppa di champagne mentre Giovanni ridacchiava. La Musumeci si avvicinò. Mi alzai.

    «Bravo professore, conosce bene la seduzione e il suo argomentare è interessante ma solo da questo punto di vista. Dovremmo spostare l’attenzione altrove.»

    Sorrise mentre il marito la cinse affettuosamente. Veronica aveva un fascino aguzzo e mordente. I suoi occhi neri di siciliana portavano dentro un calore che aveva molto a che

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