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Fra' Diavolo. Vita ed imprese del Colonnello Michele Pezza
Fra' Diavolo. Vita ed imprese del Colonnello Michele Pezza
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Ebook551 pages8 hours

Fra' Diavolo. Vita ed imprese del Colonnello Michele Pezza

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Eroe e partigiano per il suo popolo, spietato brigante per gli invasori. Ma chi era realmente Michele Pezza, al secolo Fra' Diavolo? L'uomo dietro al mito rivive in questa appassionante biografia che, partendo dalle sue origini a Itri, piccolo centro medievale incastonato tra i Monti Aurunci, ne narra le incredibili gesta, l'ascesa al grado di Colonnello del Regno delle Due Sicilie, le fortune in battaglia e, quindi, la tragica fine.
LanguageItaliano
Release dateMar 17, 2018
ISBN9788833460765
Fra' Diavolo. Vita ed imprese del Colonnello Michele Pezza

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    Fra' Diavolo. Vita ed imprese del Colonnello Michele Pezza - Alfredo Saccoccio

    Fra’ Diavolo – Vita ed imprese del Colonnello Michele Pezza

    di Alfredo Saccoccio

    Progetto grafico curato da Sara Calmosi

    ISBN 978-88-33460-76-5

    Ali Ribelli Edizioni

    Saggistica – Briganti

    www.aliribelli.com – redazione@aliribelli.com

    È vietata la riproduzione del testo e delle immagini contenute in questo libro, in parte o nella loro totalità e attraverso qualsiasi mezzo, senza l’espressa autorizzazione dell’Editore.

    ALFREDO SACCOCCIO

    FRA’ DIAVOLO

    Vita ed imprese del Colonnello Michele Pezza

    AliRibelli

    Sommario

    Presentazione

    Capitolo I - Conquiste napoleoniche in Italia

    Capitolo II - Conquista del reame di Napoli da parte dei francesi

    Capitolo III - I precedenti di Michele Pezza

    Capitolo IV - Primi tentativi fortunati – Sanguinosa repressione ad Itri

    Capitolo V - Insurrezioni in Terra di Lavoro

    Capitolo VI - Il blocco e la resa di Gaeta

    Capitolo VII - Alla conquista di Roma

    Capitolo VIII - Il colonnello Pezza a Napoli

    Capitolo IX - La seconda invasione del regno di Napoli da parte dei francesi

    Capitolo X - Fra’ Diavolo alla difesa di Gaeta

    Luoghi e personaggi nella vicenda umana del pezza

    Capitolo XI - La spedizione in Calabria

    Capitolo XII - La nuova sollevazione in Terra di Lavoro - La presa di Sora da parte dei francesi

    Capitolo XIII - Inseguimento, cattura e processo di Fra’ Diavolo

    Capitolo XIV - Morte di Fra’ Diavolo

    Capitolo XV - Fra’ Diavolo nella letteratura e nell’arte

    Capitolo XVI - La figura storica

    Bibliografia

    Presentazione

    Duecentoquarantasette anni fa nasceva, ad Itri, uno straordinario personaggio che avrebbe fatto parlare di sé e fa parlare ancora, sotto tutti i profili. Si tratta di Michele Pezza, alias Fra’ Diavolo. I francesi delle armate di Napoleone Bonaparte che invasero il Regno di Napoli lo definirono un brigante perché si oppose a loro con tutte le forze: in realtà lui non era altro che un grande partigiano, un guerrigliero che lottava per la propria terra, il Sud.

    A dare rinomanza internazionale a Fra’ Diavolo furono, d’altronde, proprio i francesi con un’opera comica, dalle spigliate melodie, ma anche un fortunato film americano mise in luce le imprese di Fra’ Diavolo, tra l’altro un prestigioso paladino dei Borboni, poiché tutta la sua storia si sviluppa in un periodo denso di avvenimenti, quelli alla fine del Settecento ed a cavallo del nuovo secolo.

    Nella realtà storica Michele Pezza è nato ad Itri, nei pressi di Formia e di Gaeta, un pittoresco paese ubicato sulle propaggini meridionali dei Monti Aurunci, dominato da un vetusto castello medioevale che sovrasta la cittadina e la via Appia. Non è facile, però, inquadrare nella sua essenza Fra’ Diavolo, un personaggio di cui si è scritto molto e che è ormai entrato di diritto nella storia. Ancora oggi, a duecento anni dalla sua morte, la gente itrana lo ricorda e lo esalta. Il fascino che emana dal dittico ambiguo, in cui sono mischiate la sua natura angelica e quella diabolica, quella che salva le anime e quella che le perde, spinge, ancora oggi, numerosi studiosi a cercare documenti inediti per una più obiettiva biografia dell’audace guerrigliero, che ha interessato l’opinione pubblica di tutta Europa e che ha eccitato, al massimo grado, la fantasia della gente esercitando anche un fascino irresistibile su storici, romanzieri e commediografi.

    Chi fu in realtà Fra’ Diavolo? Un eroe o un sanguinario brigante? Un grassatore o un valoroso combattente, che si è immolato per difendere la sua terra ed i suoi legittimi regnanti? Certamente fu una figura che presenta delle zone d’ombra. Michele Pezza nacque il 7 aprile 1771 da Francesco e da Arcangela Matrullo. La sua era una famiglia numerosa, tipica del Mezzogiorno d’Italia: oltre a lui, tre fratelli e otto sorelle. Suo padre era un piccolo possidente terriero, che faceva il vetturale e commerciava in olio.

    Una grave malattia aveva minacciato la vita di Michele e la prolifica madre fece un voto a S. Francesco di Paola, per la sua guarigione. Ottenuta la grazia, il bambino indossò un saio francescano per onorare il santo e per tale motivo i suoi compagni di gioco gli appiopparono il soprannome di Fra’ Michele Arcangelo, presto trasformato, però, in Fra’ Diavolo dal suo maestro, il canonico Nicola De Fabritiis a causa dell’irrequietezza e della vivacità del ragazzino durante le lezioni che gli venivano impartite.

    Michele andò a lavorare assai giovane, ma venuto a diverbio, per motivi d’onore, uccise, in rissa, mastro Eleuterio Agresti ed il fratello e subito si dette alla macchia riuscendo a porre addirittura in ridicolo i soldati che inutilmente lo braccavano per catturarlo. Ferdinando IV di Borbone, sovrano del regno di Napoli, non riuscendo a liberarsene, gli commutò la pena di morte in tredici anni di servizio militare, nei reggimenti Messapia di Sicilia. Michele Pezza accettò e, da quel momento, il bandito si trasformò in soldato, riscattando il suo fosco passato, macchiato dai due omicidii. Involontariamente il giovane aveva scelta la strada che gli avrebbe fatto occupare un posto, non di secondo piano, nella storia.

    Ben presto Michele Pezza rivelò ottime doti militari ed entrò nella fiducia del re Ferdinando IV, che lo nominò colonnello dei fucilieri, e nell’ammirazione della regina Maria Carolina d’Asburgo, che gli regalò un pugnale tempestato di diamanti, ora conservato nel museo di Nancy. Fra’ Diavolo meritò questo riconoscimento per le intelligenti e audaci azioni di guerriglia contro i francesi, che lo temevano molto.

    Michele Pezza fu il primo tecnico, in Italia, della guerriglia, condotta sulle montagne del centrosud, negli anni dal 1799 al 1806, con incursioni clamorose, perché aveva il genio della tattica veloce. Fu lui ad inventarla in Italia, con la tattica del mordi e fuggi, piombando giù dai monti, sempre al momento opportuno, sgominando i distaccamenti franco-polacchi in marcia, intercettando le comunicazioni tra Napoli e Roma e catturando i loro convogli di rifornimenti. Il Pezza fu l’inventore della guerriglia moderna, perché aveva capito che non avrebbe potuto affrontare in battaglia le soverchianti truppe francesi. Con attacchi improvvisi e fulminee ritirate, inflisse gravi perdite al nemico, che aveva occupato il regno di Napoli. Fu un incubo per i francesi, attaccati ai fianchi e alle spalle. Con rapidi spostamenti, mise in grande difficoltà l’esercito napoleonico e i loro fiancheggiatori. Avvalendosi di una perfetta conoscenza dei luoghi, tese, in Terra di Lavoro, imboscate nelle gole, rese possibili dalla conformazione morfologica del territorio, aspro e boscoso. La guerriglia fu spietata e si intreccia strettamente alla feroce repressione francese, che reagirà con violenza alle operazioni di guerriglia operate dai suoi agili drappelli.

    In un’altra occasione Michele Pezza si distinse particolarmente: l’assedio della piazzaforte di Gaeta, una fortezza munitissima, che capitolò nel luglio 1799. Il famoso guerrigliero aveva iniziato il blocco della piazza due mesi prima, avendo a disposizione novecento uomini, divenuto poi mille e seicento.

    Due mesi dopo Michele Pezza partì alla volta di Roma con una truppa a massa, composta dapprima da mille e cinquecento uomini, cresciuti poi a duemila e seicento unità. La sua colonna, il 9 settembre 1799, occupò Velletri, da cui lanciò un pomposo proclama alla popolazione veliterna. Il 15 dello stesso mese Fra’ Diavolo si impadronì di Albano e puntò su Roma giungendo fino a Porta San Paolo, ma non entrò a Roma da conquistatore, ma in catene, per gli eccessi commessi dai suoi accoliti. Il guerrigliero fu rinchiuso in Castel Sant’Angelo, da cui riuscì ad evadere.

    I francesi dovettero lasciare il regno di Napoli, ritornandovi nel 1806, con un esercito di quarantamila uomini, comandati da Joseph Bonaparte e dal maresciallo Massena. Il 15 febbraio 1806 i francesi entrarono nella capitale del regno, senza colpo ferire. La fortezza di Gaeta, comandata dal generale Philippstadt, che si servì delle coraggiose sortite di Michele Pezza, offrì una seria resistenza, ma fu costretta a capitolare, il 18 luglio dello stesso anno, contro le agguerrite e preparate truppe del generale Andrea Massena, che poteva disporre dei migliori soldati del mondo. Il sovrano di Napoli si era rifugiato pavidamente alla Corte di Palermo. I suoi generali avevano consigliato a tutte le fortezze di arrendersi, giudicando inutile impedire l’avanzata dei francesi. Fra’ Diavolo, invece, disubbidì e con improvvise azioni di disturbo contrastò efficacemente l’avanzata del nemico, riportando alcune vittorie, grazie alle sue capacità tattiche e alla sua astuzia. Queste brillanti azioni gli valsero poi il titolo di duca di Cassano. Una considerazione: chiunque al suo posto si sarebbe ritirato negli agi del suo ducato, ma Fra’ Diavolo non la pensò così. Altro che riposo. La sua vita era un’avventura continua. Ed eccolo in azione: il Pezza non sa stare con le mani in mano, inoperoso. Così, mentre il regno è in frantumi e i francesi spadroneggiano dappertutto, l’ex bastaio di Itri ritorna a combattere, attaccando le pattuglie e i distaccamenti degli invasori del sud.

    Il colonnello, irriducibile, sbarca in Calabria dando l’assalto al castello di Amantea, che riuscì ad espugnare. Poi Fra’ Diavolo, agli ordini del commodoro inglese Sidney Smith, coopera alle occupazioni di Capri e di Ponza. In seguito Michele Pezza si impossessa del forte di Licosa, isoletta del golfo di Salerno, che mantiene per quattro giorni, ma è costretto, dopo accanita resistenza, a lasciarlo e a riprendere a veleggiare.

    Nella notte tra il 4 e 5 settembre Fra’ Diavolo sbarca a Sperlonga. A questo punto, il governo di Joseph Bonaparte, preoccupato dell’audacia e delle imprese del legittimista, la cui reputazione ed influenza risultano accresciute per il costante successo dei suoi colpi di mano, sentì la necessità di occuparsi seriamente di lui, per poterlo avere nelle mani. Il re di Napoli, Joseph, fratello di Napoleone, affidò il difficile incarico della cattura del Pezza al maggiore Joseph Léopold Sigisbert Hugo, padre del celebre scrittore, di fama universale, Victor Marie. Il conte Hugo, che aveva a disposizione circa tremila uomini, ben equipaggiati ed agguerriti, mentre Fra’ Diavolo aveva alle proprie dipendenze solo un centinaio di seguaci, lo braccò come una bestia e gli fu addosso.

    Dopo ventiquattro giorni di fatiche e di ansie, l’Hugo lo raggiunse alla fine nella Valle di Boiano, perché numerosi distaccamenti lo avevano stretto come in un cerchio di ferro.

    La lotta fu lunga, serrata, feroce, sanguinosa: si combatté corpo a corpo, per quattr’ore, tra fulmini e pioggia dirotta, in una spaventosa giornata di ottobre, e caddero al suolo, morti, più di ottocento francesi e molti borbonici.

    Il manipolo di uomini di Fra’ Diavolo si assottigliò, giorno per giorno, gli insorti furono passati a fil di spada e si credette che il loro capo fosse tra i morti, ma l’intrepido guerrigliero era riuscito, ancora una volta, a dileguarsi. Incalzato negli Abruzzi da una colonna mobile, sempre al comando del maggiore Hugo, che era rimasto ferito nel conflitto sanguinosissimo di Boiano, il quale aveva portato nella caccia al capomassa un coraggio ed una passione non meno diabolica del fuggiasco, il suo drappello fu annientato.

    Era caduto molta neve in una notte di fine ottobre, simile a quella di Natale, che Victor Hugo descrive per la sua piccola allodola ne’ I Miserabili.

    Ferito, lacero, rotto dalla stanchezza, dalla fame, dal freddo, il fiero capomassa, errante, solo, per le montagne, inseguito dalla soldatesca e dalle guardie civiche, scese a Baronissi, nei pressi di Salerno, per saziare la fame e per curare le ferite, tra le quali una che il maggiore Hugo diceva di avergli inferta lui, per poi imbarcarsi su qualche nave inglese o su qualche barca di pescatori. Arrestato, fu processato per i reati che gli venivano attribuiti. Gli venne, però, offerto dal ministro Christophe Saliceti, direttore generale delle Polizie, di passare al servizio dei francesi, che gli avrebbero conservato il grado fino ad allora rivestito, il titolo di duca di Cassano e la pensione che aveva concesso a Michele il re Ferdinando. Il Saliceti voleva che il Pezza si obbligasse a servire il nuovo governo mantenendo l’interna tranquillità del reame di Napoli. A tali condizioni, Fra’ Diavolo rifiutò sdegnosamente affermando che prima mille morti avrebbe desiderato, che mancar alla fede data al proprio sovrano, il quale per niuna causa avrebbe tradito. La sua risposta, alla vigilia del patibolo, fu nobile e fiera, attestante la sua devozione alla causa borbonica. Questo contegno coraggioso, questo sprèzzo dell’esistenza e di una brillante carriera, mentre era atteso dalla giovane ed adorata moglie, Fortunata Rachele Geltrude De Franco, e da due tenere creature, Carlo e Clementina, ha, francamente, dello stoico, dell’eroico, e strappa sentimenti di profonda ammirazione.

    Il Tribunale Straordinario di Napoli, il 10 novembre 1806, lo condannò a morire sulla forca. L’esecuzione avvenne il giorno dopo, in Piazza Mercato. Le grand diable salì, con grande fierezza, il patibolo, al cospetto di una folla immensa e silenziosa, che assistette commossa alla fine di un uomo che fu il terrore dei francesi per la sua instancabile ed implacabile guerriglia, che interrompeva le comunicazioni stradali tra Napoli e Roma, con sensibile danno per gli approvvigionamenti delle truppe di occupazione nelle due città. Quella sua tattica di combattimento, fatta di attacchi fulminei, di apparizioni e di scomparse inattese, di ritirate sapienti, di accerchiamenti violati, di finte fughe, di velocissimi dislocamenti, di misteriosi travestimenti, di temerarietà, destò l’entusiasmo dei borbonici e il terrore nei francesi, i quali, per intaccarne il prestigio, lo impiccarono come un malfattore comune, nonostante il maggiore Hugo avesse raccomandato a Joseph Bonaparte, re di Napoli, la clemenza nei confronti del partigiano, riconoscendo il suo coraggio e la sua presenza di spirito.

    La condanna a morte di Fra’ Diavolo fu un giudizio politico, perché i Napoleonidi erano troppo interessati – come nota lo stesso Victor Marie Hugo – a screditare l’antica sovranità per non cogliere l’occasione di fare dei difensori del trono borbonico dei criminali, mentre altro non erano che patrioti che lottavano per la libertà della propria terra.

    Michele Pezza chiuse la sua tumultuosa vicenda terrena, appeso al patibolo, vestito, per dileggio, con la divisa di colonnello borbonico e con al collo il brevetto di duca di Cassano. In un silenzio cupo e grave di commozione, stava copiosissima gente, in serrato affollamento. Fra’ Diavolo si comportò con grande dignità: ricevuti i conforti religiosi da Martucci e Celentano, Padri Bianchi della Giustizia, salì con fierezza verso il capestro. Morì con segni di vero cristiano e con molta edificazione. Lo sostengono le cronache del tempo. A Palermo, dieci giorni dopo, si tennero solenni funerali nella chiesa di S. Giovanni Battista, detta dei Napoletani. A queste solenni esequie, volute dalla regina Maria Carolina d’Austria, in memoria del suo fedele servitore, intervennero i più alti dignitari dello Stato e gli eserciti inglesi, napoletani e siciliani. Sull’urna simbolica, a fianco dell’altare maggiore, alla base del mausoleo, al lato destro e a quello sinistro della porta maggiore, furono incise alcune epigrafi in latino per rievocare Michele Pezza strenuo, sagace, incorrotto.

    Il guerrigliero itrano non accettò le offerte del Saliceti anche perché non voleva confondersi con i repubblicani, che, in stragrande maggioranza, erano mestatori che cercavano nella rivoluzione il modo migliore per far fortuna, asserviti ai venuti d’oltralpe, avversati, però, dalla povera gente, senz’armi o con vecchi ed arrugginiti schioppi, che innalzava il vessillo reale tenendo testa alle agguerrite e burbanzose soldatesche francesi, fornite di cannoni e di ottimi fucili. Questa gente misera contrastò, palmo a palmo, la marcia dello straniero sul suolo della patria difendendo intrepidamente l’indipendenza del proprio Paese, la religione degli antenati, l’incolumità degli averi pubblici e privati, forti di quegli stessi principii sanciti, ma non osservati, dalla rivoluzione francese, per cui ad ogni popolo era riconosciuto il diritto naturale di darsi quel governo che credesse migliore. La difesa fu strenua ed ardimentosa, bollata con la definizione di brigantaggio, definizione ingiusta, a giudicare obiettivamente uomini e cose.

    Così furono uccisi ben sessantamila briganti, passati a fil di spada, sulle macerie delle loro città o sulle ceneri delle loro capanne. Erano briganti gli insurrezionisti calabresi contro Joseph Bonaparte; erano briganti i contadini di Terra di Lavoro; erano briganti i rivoltosi pugliesi ed abruzzesi. Insomma l’Italia era la terra dei briganti o la terra dei morti, come la definì, nel 1825, Alphonse-Marie-Louis de Prat de Lamartine, in L’ultimo canto del pellegrinaggio di Aroldo, per cui fu sfidato, a duello, dal patriota Gabriele Pepe, duello che si concluse con una ferita del poeta borgognone.

    Michele Pezza rifiutò sdegnosamente le proposte del Saliceti, motivo per il quale fu condannato a morire sulla forca chiudendo la sua vita movimentata a Napoli, in Piazza Mercato.

    Un approfondimento sulla figura del guerrigliero è, dunque, doveroso. Va detto che Fra’ Diavolo fu sicuramente uno dei più intrepidi e indomiti capi di insorti che la storia ricordi. In particolare fu un precursore della guerriglia, delle azioni fulminee, attacca e fuggi, e va posto accanto alle figure eroiche dell’Empecinado, di Mina, di Longa, di Hofer, di Kanaris, di Abd-el-Kader, di Cabrera e di tutti quelli che lottarono, in ogni tempo e sotto la propria bandiera, contro gli invasori della propria terra. I grandi eroi degli altri Paesi non gli furono e non gli sono certamente superiori nel valore e nelle astuzie della guerriglia. Quelli, però, sono oggi eroi nazionali, a cui, in patria, sono stati eretti monumenti e intestate strade e piazze. Le loro figure sono circondate da ammirazione e riconoscenza perpetue.

    In Italia, invece, siamo sempre propensi a screditarci ed a credere a delle viete e rancide leggende, deformatrici ed insultatrici! Se ancora non pochi parlano del Pezza come di un brigante, in un’ottica riduttiva, lo si deve alla storiografia francofila, che ricostruì poco fedelmente gli eventi di quel fosco periodo di tempo che va dal 1796 al 1806, denso di sconvolgimenti politici e di sanguinose vendette. Essa, parziale e conformista, desiderosa di metterlo, nel proprio interesse, al bando anche morale, lo dipinse con le cromìe più fosche creandogli la nomèa di brigante e svisandone la vera personalità.

    Uno di quelli che più si adoperarono a parlar male di Fra’ Diavolo fu Pietro Colletta, che amò le repubblicane turpitudini, rivestite del fallace manto dell’uguaglianza. Il Tacito italiano, che giurerebbe, come scrisse il principe di Canosa, Antonio Capece Minutolo, nell’Epistola contro Pietro Colletta, fedeltà alla peste ed al diavolo, vuol dare ad intendere ai gonzi che Michele Pezza era un assassino, capo di assassini. Risus teneatis, amici! Ridicole imposture e menzogne, le sue. Quod erat demonstrandum, mutuando la formula dei teoremi di Euclide.

    Questo cacasenno tratta il colonnello borbonico da infame, mentre tratta con decoro i francesi, che posero a ferro e fuoco tutto il reame di Napoli. Uomini voracissimi, che Michele ebbe il torto di combattere per farceli stare poco. Il calunniatore, uomo dalle molte bandiere (dall’esercito borbonico passò alla repubblica partenopea, poi accettò incarichi onorifici da parte del Murat, in seguito comandò, dopo la seconda restaurazione, la divisione militare borbonica di stanza a Salerno) e dalla poca serenità di giudizio, dovette dipendere, durante la prima restaurazione borbonica, dal Pezza. Egli, l’ufficiale esonerato per infedeltà, dovette essere subordinato all’antico, basso ufficiale, salito agli alti gradi dell’esercito per la sua fedeltà e per il suo valore. Quanto dovette dispiacergli tale dipendenza nel disseccamento delle paludi, durante il tempo che Fra’ Diavolo reggeva il dipartimento di Itri! Il Colletta, però, è un rispettabilissimo Padre della Patria!

    Possiamo affermare, senza ombra di dubbio, che l’imprendibile primula rossa, il sanguigno duce itrano, definito dal generale Roger de Damas anche il Leonida napoletano (e le gole ed il fortino di Sant’Andrea, tra Itri e Fondi, furono le Termopili del regno di Napoli), fu soprattutto un grande calunniato, subito e di brutto, da giornali parziali, anche a parere del Rambaud. Nessun personaggio ha patito più contraffazioni e più oltraggi del formidabile agitatore politico, mentre avrebbe meritato, per il suo contegno eroico, stoico, una profonda stima, per aver combattuto disperatamente contro i soverchiatori e ladri francesi, che rubavano a man bassa. Nel Settecento si diceva: Calomniez, calomniez; il en restera toujours quelque chose (Calunniate, calunniate; ne resterà sempre qualche cosa), sentenza di incerto autore, attribuita a diversi: dagli uni al Voltaire, dagli altri ai Gesuiti, da altri ancora al Beaumarchais, che la disse nella scena ottava dell’atto secondo de Il barbiere di Siviglia. Donde la rossiniana calunnia, che era un venticello…

    Un uomo che rifiutò l’offerta del ministro di Polizia, Christophe Saliceti, preferendo morire piuttosto che servire gli odiati francesi, che gli avevano ucciso barbaramente l’adorato padre Francesco, di anni 67 circa. Michele morì impiccato, l’11 novembre 1806, su quella piazza dove, secoli addietro, era salito al patibolo il biondo principe Corradino di Svevia, ultimo degli Hohenstaufen, decapitato, insieme al cugino Federico di Baden, per volere del re di Sicilia, Carlo I d’Angiò.

    La leggenda di un Fra’ Diavolo brigante e spoliatore deve svanire, non perché interessi alla causa borbonica o per motivi municipalistici, ma per l’ossequio alla verità.

    Molti hanno di lui una concezione incompleta ed ingiusta, tutta a scapito dell’integrità e serietà del giudizio, che deve offrirsi esatto e veritiero. Ciò è dovuto al fatto che "Difensori e denigratori – come scrive Michele Pezza, pronipote di Fra’ Diavolo – se lo sono lungamente conteso, trascinandoselo capricciosamente nella luce della storia o nella penombra della leggenda. Dalla famosa opera comica di Scribe e Auber ai romanzetti popolari, dalle oleografie al vasellame da tavola, dai conventi alle galere, povero e glorioso guerrigliero! Il suo nome è stato finanche umiliato sulle bottiglie dei liquori e su vasetti di crema da barba! Pazienza! È la disgrazia di un nome tanto suggestivo, preda di gente che ignora in maniera assoluta le gesta di chi le portò. In uno studio sul mio glorioso antenato, ebbi già ad osservare che un tal nome, che accoppiava con elegante agilità due grandi potenze del popolino, due grandi valori di sortilegi e di magie, il frate ed il diavolo, ha reso il colonnello, duca Michele Pezza, il protagonista di tutte le più intricate storie di delitti ed amori, eroismi e rapine, lascivie e galanterie. E la storia, la vera storia, se l’è visto rapire dalla leggenda inesorabilmente".

    E ancora: "Quanta luce di dignità e di forza si sprigiona da quel brigante impiccato in piazza Mercato, nel triste pomeriggio dell’11 novembre 1806! Magari se ne fossero sapute illuminare tanti gloriosissimi omuncoli del tempo di oggi. Fra’ Diavolo va rispettato ed onorato come alta espressione di quell’eroismo italico, che tanta gloria ha dato in ogni tempo al nostro Paese. Se Michele Pezza fosse nato pochi decenni dopo, l’avremmo visto all’avanguardia dell’epica azione del nostro Risorgimento. È giusta consuetudine, però, della storia che si onorino tutti i nostri eroi, in qualunque tempo e sotto qualunque principe abbiano militato.

    Bisogna finirla di ucciderlo ancora con calunnie infamanti e crudeli. Saremmo veramente lieti che la storia del nostro Paese avesse un bandito in meno ed un eroe in più".

    Malgrado la critica lavori per i diritti della giustizia storica, bisognerebbe essere più seri e revisionare la figura pezziana, al di là del coro degli oziosi ripetitori delle frasi fatte. Occorre denudare delle luci e delle ombre il suo profilo storico, a volte idealizzato, a volte esacrato, con giudizi neri come la pece e scottanti come il sangue.

    Ancora oggi, a 200 anni dalla sua morte, il popolo itrano lo ricorda e lo esalta. Ad Itri si dice che uno spettro si aggira, nelle tetre serate invernali, sui bastioni del castello medioevale. Il fantasma, inquieto, vagante come anima in pena, aleggia lungo il caratteristico camminamento di ronda. È il bellicoso spirito di Michele Pezza, che, in alcune serate buie e piovose, si drizza sugli spalti ferrigni, quasi a vigile scolta della fortezza, minaccioso, guatando verso l’Appia sottostante, in attesa della venuta dei francesi, apprestandosi a sostenere contro di essi altri cruenti scontri, in una guerra eterna, implacabile. Lui che aveva spento tante vite, che fu un terribile martello contro le truppe francesi per eroismo, coraggio, attività, ingegno nel concepire stratagemmi, nel combattere, impavido, e battere spesso i napoleonici. Quando non poteva farlo, Michele Pezza scappava dalle loro mani come un pesce da quelle del pescatore.

    Alfredo Saccoccio

    Capitolo I

    Conquiste napoleoniche in Italia

    Il 1999 è stato tutto un proliferare di manifestazioni in onore della Repubblica Partenopea e del dominio napoleonico in Italia, come se essi fossero avvenimenti felici per la Penisola, mentre, in realtà, sono eventi luttuosi, una vera iattura per il Bel Paese, essendo stata la Rivoluzione francese, che ha generato il decennio napoleonico, un’utopia sfociata in tragedia.

    La prima spedizione francese in Italia, sulla fine del diciottesimo secolo, si era compiuta felicemente, con rapidità ed energia.

    Napoleone, dopo aver composta la grande rivoluzione in Francia e minacciate vendette ai re del Vecchio Continente, collegati contro di essa nella generale difesa, poté indicare dalle Alpi al suo esercito le feraci terre e le prospere città italiche, premio del loro ardimento e dei loro sacrifici. Il Corso penetrò nel Piemonte e nella Lombardia sconfiggendo, in quindici giorni, due eserciti e rovesciando regni. L’uomo fatale, sacrificata la libertà della republica di Venezia, ordinò ai suoi soldati la marcia sulla Città Eterna. Il generale Louis Alexandre Berthier, l’alter ego del Bonaparte, l’attuò proclamandovi, all’inizio del 1798, la Repubblica Romana. Egli, capo di Stato Maggiore dell’esercito d’Italia, fu incoronato d’alloro in Campidoglio, ma il Direttorio parigino lo richiamò bruscamente nella capitale francese sostituendolo con Andrea Massena e destinandolo alla campagna d’Egitto. La sua gloria tiberina fu breve. A Roma aveva compiuto un gesto energico, quando, in nome del Direttorio, aveva ingiunto al pontefice Pio VI, al secolo Giovanni Angelo Braschi, di abdicare al potere temporale e, al rifiuto avutone, gli aveva intimato lo sfratto. Il vecchio papa, ottantaduenne, vilipeso ed amareggiato, partì per l’esilio, morendo a Valence, alcune settimane dopo il suo arrivo; i cardinali furono tratti in arresto.

    Rimaneva il Regno di Napoli. Il Direttorio, a causa delle subdole incertezze della politica borbonica, orientata, malgrado le dissimulate intenzioni, verso i nemici della Francia, decise di conquistarlo. Forse re Ferdinando IV intuì le rovinose conseguenze della slealtà del suo governo, se parve, per un momento, di voler assumere personalmente la direzione degli Affari Esteri e farne una particolare occupazione. Ed egli era, a giudizio dell’Abate Bonelli, ministro piemontese a Napoli, uomo di mirabil senno.¹ Da filosofo, come talvolta fu detto, egli avrebbe sostenuto a lungo, se fosse stato libero, la minaccia nemica alle frontiere, in attesa degli eventi. Ma la volontà della regina Maria Carolina d’Austria, ferocemente avversa alla Francia, che aveva reciso sotto la mannaia la testa di sua sorella Antonietta e di Luigi XVI, e le mire di Acton e di Hamilton (interessati, per ragioni politiche, commerciali e militari, a fomentare la discordia con Bonaparte, favorendo ogni movimento che arrestasse il predominio francese in Italia) finirono col prevalere. La condotta che si tiene qui – riferiva il Bonelli, nel giugno 1797 – servirà di pretesto ai Francesi per avanzarsi e ingerirsi in questo regno. Da vari colloqui che ho avuto con li Francesi mi risulta che sono sempre più malcontenti di questa Corte di Napoli, e del Ministero – pieno, dicono essi, d’iniquità e perfidia, e ne hanno reso esatto conto al Direttorio che non dimentica che questo governo è stato spergiuro e lo sarebbe ancora se potesse, come consta dalle carte prese ultimamente all’Incaricato d’Affari di Napoli in Venezia e da altre scoperte in detta città! Tanta moderazione verso questo Governo che non cangia di condotta costantemente equivoca, non è di felice augurio

    Segretamente si continuava a maneggiare intrighi con le potenze coalizzate ed a fare grandi preparativi di guerra, con una leva imponente, di migliaia di uomini, che il Re, installatosi su Montecassino, dirigeva egli stesso attivamente. Vero è che, per non urtare la suscettibilità del ministro francese, si abolì il soprassoldo a 2 reggimenti, richiamati dalle frontiere, ma poco più tardi vi si mandarono nuovi rinforzi, di scelte reclute, e si cercava di formare eserciti dei più considerevoli ed appariscenti d’Europa.

    Nei primi mesi del 1798 si viveva in somma apprensione. In un consiglio di guerra in cui fu discussa la richiesta fatta dal Berthier di avere provvigioni da Napoli, intendendo la Francia di far rivivere, per suo conto, i diritti della S. Sede sulle Due Sicilie, il marchese del Gallo consigliava di prepararsi a qualsiasi evento e di mostrare insieme confidenza per avere migliori condizioni; al che il maresciallo John Francis Edward Acton, primo ministro inglese alla Corte di Napoli, gli fece osservare che si lasciava avvilire troppo presto. La regina Maria Carolina assisteva dolentissima né poteva frenare le lacrime. Protestava di non volersi occupare più di affari ed il re Ferdinando IV prometteva di allontanarla da essi³. Persisteva, invece, a far tutto, benché malata. E si disperava piangendo sopra i suoi figliuoli⁴.

    Lo stesso sovrano si mostrava molto afflitto, come non lo fu neppure alla morte di suo padre, Carlo III di Spagna, a cui era succeduto nel regno delle Due Sicilie, nel 1759, a soli otto anni. Con un’invasione nemica dalla parte dell’Adriatico si temeva una sorpresa sulla reggia e, più ancora, il pericolo di vedersi chiuso, dalle navi francesi in crociera presso le coste della Sicilia,⁵ il viaggio verso l’isola, qualora la Corte vi si rifugiasse.

    L’ambasciatore francese Garat, in vista dei preparativi militari, con collera parlava della indignazione della Francia contro un governo colpevole di un servile attaccamento all’Inghilterra⁶. Egli montò poi su tutte le furie per le pubbliche dimostrazioni di gioia fatte dalla Corte, nel giugno del 1798, alla comparsa della flotta inglese.⁷ Ogni suo sforzo per salvare il regno – diceva – era riuscito vano. La Corte si sarebbe rovinata per sempre. In realtà la situazione di essa non era stata mai tanto critica né terribile – commentava Bonelli. Si fida interamente all’Imperatore che ha promesso d’invadere la Lombardia se i Francesi si avanzano a Napoli, ma la Francia avrà già occupato Napoli prima che i lenti Austriaci siano mossi.

    Il grado di tensione era al colmo. Dalla parte nemica si attendeva l’opportunità per l’occupazione di Napoli e, dalla parte borbonica, si scopriva più franca l’attitudine di ostilità contro di essa, il cui primo atto fu l’invio ai rivoltosi delle Romagne di armi e di danaro, chiesti da una particolare deputazione. Il governo, convinto ormai che si attentava, in modo tiranno, alla conservazione dello Stato, la cui conquista rientrava nei vasti disegni napoleonici, nei primi giorni di agosto 1798, si schierò con l’Austria e con l’Inghilterra.

    Il ministro francese abbandonò Napoli. Questa si sentì, fin d’allora, votata alla vendetta di un potente nemico, che trionfava già delle sollevazioni incontrate altrove: quelle di Perugia e di Città di Castello erano finite in tragedia; Viterbo messa in fiamme ed incendiata da capo a fondo e domati anche i campagnòli romani; Frosinone e Ferentino arsi, come Veroli, Anagni e i paesi vicini. Trattati gli abitanti come piazze prese di assalto. Uguale tragedia a Terracina: ucciso da un sicario l’ufficiale francese che vi comandava, Leduc, perché aveva emanato un divieto a seppellire i morti nei cimiteri vicini alle chiese, una sorta di attacco alla propria cultura e maniera di vivere, gli abitanti fuggirono, inseguiti dai gallo-polacchi fino a La Portella. Qui ci fu uno scontro con i fucilieri borbonici di presidio alla dogana.

    Il governo di Napoli, richiamato il vecchio maresciallo Tschudy che vi era infermo, inviò, la sera del 12 agosto, il Cavaliere di Sassonia con 3 reggimenti di cavalleria, preceduto già dai reggimenti di fanteria Sannio e Albania⁸. I francesi, non forti abbastanza per invadere il reame, presentarono le scuse per la violazione del territorio. Per un momento tornò la fiducia nella Corte borbonica, anche perché l’ammiraglio inglese Horatio Nelson, vincitore ad Abukir, l’odierna Mesra, fece annunziare, con orgoglio, di aver distrutta la flotta francese e che avrebbe costretto il nemico, dopo aver fatto il resto per terra, ad una pace generosa di giustizia.⁹

    Il 9 ottobre giunse, molto atteso, con tutto il suo numeroso Stato Maggiore, il generale prussiano Karl Mack, barone von Leiberich, per prendere il comando di tutto l’esercito napoletano, pronto a marciare verso Roma.¹⁰

    Egli tenne un lungo colloquio con Acton e con Nelson, il quale ultimo gli parlò della necessità di attaccare subito, ed il re, alla fine, si arrischiò all’ardua impresa, generalmente non approvata, di cacciare le truppe transalpine dallo Stato Pontificio.¹¹

    Fatte occupare le legazioni di Pontecorvo e di Benevento, il sovrano mise agli ordini del generale Mack, eterno sconfitto nella campagna di Germania contro le truppe francesi, più di sessantamila uomini¹² e, alla testa del suo esercito, marciò verso Roma. Qui, accolto con gioia, prese alloggio nel suo splendido palazzo Farnese, da cui uscì spesso e volentieri a cavallo, per le vie dell’Urbe¹³.

    Per alcuni giorni egli si godette la marcia incontrastata delle sue truppe, ma presto, alla sognata vittoria, seguì la triste realtà della fuga e della ritirata, per l’inettitudine dei capi.¹⁴

    Battuti i napoletani in vari scontri (a Fermo, Terni e Civita Castellana), l’inetto, dottrinario secentista della guerra, Mack, gettò polvere e munizioni nelle acque del Garigliano e del Volturno e si chiuse nella piazzaforte di Capua.¹⁵

    Il monarca, travestito, fuggì da Roma. Appena giunto a Caserta, dopo 22 ore di corsa, incitò con un proclama i suoi fedeli sudditi ad armarsi e a correre contro i francesi, che ne invadevano il regno, e, freddo alle preghiere delle autorità e del popolo che lo supplicavano di restare, decise frettolosamente la partenza per Palermo. Qui lo sbarco, salutato dalle acclamazioni entusiastiche dei cittadini, non valse a lenire il dolore causato dalla morte, durante la traversata tempestosa, di un principino infermo, Carlo Alberto. Era il giorno di Natale. Intanto nella Capitale si levavano più angosciose le grida e più veementi le imprecazioni dei napoletani, affezionati a Ferdinando IV più che mai nell’ora del pericolo e presi dall’oscuro presentimento degli orrori dell’anarchia in cui stavano per cadere. Il generale Jean-Étienne Championnet, conforme alle istruzioni verbali avute dal Direttorio di portare la guerra sul territorio napoletano, qualora Ferdinando IV avesse invaso i dominii pontificî per abbattervi la repubblica romana, marciò a grandi passi verso i suoi Stati.

    Egli si mosse ad occuparli dalla parte di Valmontone, Frosinone ed Isoletta; Étienne Macdonald, figlio di un gentiluomo scozzese, per gli Abruzzi perveniva a Sora; Rey e Forest, attraversate le paludi pontine e superate le deboli resistenze di Terracina, si affrettarono verso Gaeta, l’estremo e forte baluardo del regno di Napoli, dominante l’azzurro arco del Tirreno che va dal Circeo e dalle isole Ponziane al Vesuvio. La paura fu enorme, per cui Capua si arrese.

    Il Vicario generale, Francesco Pignatelli, principe di Strongoli, se ne fuggì, anch’egli, in Sicilia, mentre i lazzaroni si levarono a combattere. Championnet entrò in Napoli, il 23 gennaio 1799, dopo una sanguinosa lotta, che costò la vita, in un solo giorno, a mille transalpini e a più di diecimila lazzaroni.¹⁶

    Sul popolo che difendeva la propria terra, palmo a palmo, esempio dato al sovrano e ai suoi consiglieri stranieri, che sprigionò luce purissima, Championnet scrisse: "Gli uomini che il re e i capi ci avevano fatto disprezzare come soldati si fanno ammirare come popolo, come cittadini, come uomini. Escono dalla terra e ci vengono contro con ogni mezzo. Non sono più quelli di prima, ma nemici decisi e terribili: non si vedono, ma si sentono e arrivano ovunque.

    Questi difensori della loro terra e delle loro case, sono gli stessi che, male sorretti e male guidati, non avevano potuto più combattere, perché in essi era venuta meno la fiducia. Soli, hanno trovato e trovano la forza di combattere e vincere. Sono uomini robusti, nati liberi, abitatori di terre e di monti, coperti di rozze lane, nutriti di scarso e grossolano cibo, amanti e gelosi delle loro donne, assetati di giustizia, ribelli alla prepotenza e che da soli difendono se stessi e i loro beni.

    Innanzi ad essi, il nemico si inchina e riconosce virtù e onore. È l’eroismo di anime semplici che combattono e muoiono per l’ideale che è loro caro".¹⁷

    Nell’archivio del Museo del Risorgimento di Roma c’è uno straordinario manoscritto del grande patriota ed uomo politico, Giuseppe Mazzini, dal titolo La rivoluzione napoletana del 1799. Ne stralciamo un brano: "Dov’erano i patrioti? Disgrazia e fatalità! Si erano eclissati proprio loro, i cospiratori illuminati; intrattenevano un generale straniero. Gli dicevano: venite, Napoli è nelle nostre mani! S’impegnavano a liberare le fortezze e ad aprirgli una strada nel cuore dello stato! Dio non voglia che io tenti di offuscare i più bei fiori del martirio che Napoli possiede! Come i Girondini, la morte li ha riabilitati, come i Girondini essi erano dei deboli. Tremavano dinanzi al Popolo, lo temevano. Non si preoccupavano di comprendere da che cosa dipendesse questa avversione ai Francesi. Non se ne accorsero che quando…Mancarono di fede: è questa la piaga più evidente delle nostre insurrezioni e io non voglio mascherarla, perché ho a cuore la riabilitazione del Popolo. (…)

    Alle armi! Alle armi! I Francesi sono alle porte! La città è caduta, 60.000 lazzaroni si levano come un solo uomo. S’improvvisano battaglioni, i bastioni sono presidiati, i cannoni imbracati. Ecco luglio. Ecco gli elementi che hanno fatto prendere la Bastiglia e puntare la lancia contro la monarchia. Manca soltanto la Costituente. Allora gli uomini del Popolo insorgono. È Paggio, è Pagliuchella, è Michele il Pazzo. Chi sono costoro? Realisti? È stato affermato, ma prima di tutto sono uomini d’azione. Napoletani avversi allo straniero (…)".

    Il Mazzini onorava, dunque, chi correva alle armi per il proprio ideale, come Victor Marie Hugo ammirava i controrivoluzionarî della Vandea.

    Il popolo napoletano, insomma, preconizzava il futuro Risorgimento italiano. Quello del Mazzini è anche un segno di giustizia storica verso i lazzaroni ed una protesta contro il servilismo dei nostri liberali verso i francesi, oltre che un mettere in evidenza un retaggio della virtù italica.

    Si registrò allora, in tutto il reame, una mirabile dimostrazione di valore, di arditezza e di fedeltà al legittimo sovrano, che sorprese i nemici: Championnet, infatti, ammirò senza riserve l’eroismo e l’attaccamento di quei lazzari alla religione. È opportuno qui una pagina del Rodolico: Quando i reggitori della Repubblica di San Marco, tremanti di paura alle minacce francesi, strappavano le gloriose insegne del leone alate, e supplicavano pace, i contadini del Veronese gridavano Viva S. Marco! E morivano per esso in quelle Pasque, che rinnovarono i Vespri. Quando, sotto il cumulo di umiliazioni patite da prepotenti francesi e da giacobini paesani, Carlo Emanuele avvilito abbandonava Torino, i montanari delle Alpi, i contadini piemontesi e monferrini, continuavano disperatamente la resistenza allo straniero. Quando nella Lombardia gli Austriaci si ritiravano, incalzati dai Francesi, i contadini lombardi a Como, a Varese, a Binasco, a Pavia, osavano ribellarsi al vittorioso esercito del Bonaparte, sfidando la ferocia della sua vendetta. Quando il mite Ferdinando III di Toscana era licenziato dai nuovi padroni, e i nobili fuggivano, e i Girella, democratici improvvisati, venivano fuori con la coccarda tricolore, i contadini toscani insorgevano al grido di Viva Maria! Quando nelle Marche scappavano generali e soldati pontificî e il vecchio Pontefice arrestato era condotto via dalla sua Roma, non i Principi cattolici osarono protestare, non Roma papale insorse, ma i contadini dai monti della Sabina alle marine marchigiane caddero a migliaia per la loro fede e per il loro paese. Quando vilmente il Re di Napoli con cortigiani, ministri e generali fuggiva all’avvicinarsi di Championnet, soli, i montanari degli Abbruzzi, i contadini di Terra di Lavoro, i Lazzaroni di Napoli si opposero all’invasore in una lotta disperata e sanguinosa. Così, fra lo spavento delle folle e lo sgomento della Corte, le doppiezze dei generali e le defezioni dell’esercito, sorsero – come scrive Ernesto Jallonghi – di mezzo al popolo i forti e gli eroi, che si scagliarono con selvaggia impetuosità contro gli usurpatori, opponendo una resistenza feroce e lottando disperatamente, per contrastar loro il passo e cacciarli dal regno. I francesi conquistarono alla fine, ma non trionfalmente. Essi dovettero attraversare mucchi di cadaveri, di cenere e di informi macerie, prima di giungere a fissare sulle batterie napoletane le loro bandiere grondanti sangue!.¹⁸

    Era tra quei forti, tra quei capi, tra quegli intrepidi, Michele Pezza, Fra’ Diavolo, un nome che suscita i giudizi più contraddittorî, poiché, tra i personaggi della reazione borbonica, pochi fornirono il pretesto, come lui, a passioni più contrastanti e furono l’oggetto di denigrazioni e di ammirazioni più spinte: un ribaldo o un eroe, un brigante o un martire.

    D. Pasquale Cayro, di San Giovanni Incarico, scrisse Narrative e riflessioni sull’Accantonamento e marcia dell’Esercito, sua ritirata, e venuta dei francesi, Napoli e Roma ricuperati. Il giornale senza numeri finisce con il 1799, cioè con l’entrata di Ruffo a Napoli. Dopo aver parlato del governo della Repubblica napoletana, cominciato con lo Championnet, che caratterizza il monarca come despota e tiranno, mentre i francesi erano il dispotismo e la tirannia, ricorda le loro vessazioni, chiedendo a Fondi, piccola popolazione di 4774 anime, dodicimila ducati, a Sora diciottomila, eccetera, e così a religiosi e a vescovi. Gli stessi soldati parlavano del Comandante loro definendolo ladro.

    Essi, però, facevano peggio volendo morbidi letti, lenzuola fini e biancofiore, ben stirate, cibi delicati, fuorché i polacchi, i quali erano scostumati e con sporcizia si trattavano in tavola. I francesi esigevano, da padroni, di mangiare tre volte al giorno e conducevano a tavola altre persone, anche le meretrici, i cavalli e i bauli. Dicevano che volevano lasciare agli abitanti i soli occhi per piangere. Si prendevano le razioni di pane, di lardo e di vino, riempendo le borse, cagionando assassinii ed inquietudini.

    I francesi avevano ridotto lo Stato romano uno scheletro. Essi non pensavano che ad arricchire. Un commissario si fece dare dal parroco di una Terra povera un ostensorio e disse che lo facessero poi di legno.

    Un tal governo cominciò a dar modo all’insurrezione e diede principio nell’Abruzzo un certo Giuseppe Pronio (villano, ladro ed omicidiario sortito da galera) a cui si unì Giovanni Salomone ed in Itri un tal Michele Pezza alias Fra’ Diavolo (imbastaio ed omicidiario e si trovava per non esser carcerato fuggiasco per le montagne mangiando capre e quel che poteva prendere ad altri, per vivere), il quale gli (sic!) scacciò da questa sua patria, ma di nuovo se ne impossessarono e fecero del danno col saccheggio e col fuoco ed ammazzarono ancora alcune persone.

    Molte popolazioni avevano tagliato l’albero dell’immaginaria libertà, l’Albero senza radici, simbolo del credo repubblicano, nemico dell’ordine sociale.

    Il 1 marzo 1799 i francesi si condussero in Pastena per prendere la contribuzione, ma furono respinti. Molti di essi furono uccisi, finché non ritornarono ad Itri.

    Un francese morto fu appeso al macello come un porco, dopo avergli tagliate le orecchie e il naso.

    Il Cayro odiava i francesi, ma odiava ancora di più gli insorgenti e i capimassa. Di essi dice sempre male. Di Fra’ Diavolo attenua le tinte: lo definisce solo omicidiario; poi ricorda il delitto di Albano e qualche volta lo coinvolge nella pessima stima degli altri, ma, in genere, si capisce che non ne ha

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