Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Il coraggio di sapere: Itinerario autobiografico
Il coraggio di sapere: Itinerario autobiografico
Il coraggio di sapere: Itinerario autobiografico
Ebook369 pages5 hours

Il coraggio di sapere: Itinerario autobiografico

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Un ragazzo di paese, orfano di guerra e privo di risorse economiche, sceglie la via del seminario come unico modo per avere un'istruzione. Racconto autobiografico di una faticosa, infinita lotta di liberazione dalle menzogne di cui è intessuta, per stratificazioni secolari, la cultura (soprattutto religiosa e politica) che ci ritroviamo addosso, con le sue conseguenze pratiche.
LanguageItaliano
PublisherFabio De Mico
Release dateMar 25, 2018
ISBN9788827594100
Il coraggio di sapere: Itinerario autobiografico

Read more from Fabio De Mico

Related to Il coraggio di sapere

Related ebooks

Biography & Memoir For You

View More

Related articles

Reviews for Il coraggio di sapere

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Il coraggio di sapere - Fabio De Mico

    Fabio De Mico

    Il coraggio di sapere

    Itinerario autobiografico

    UUID: 49e4e9d2-3041-11e8-b19e-17532927e555

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    Presentazione

    Prima parte:

    FU OTTAVIO…

    L’OMBRA LUCRETILE

    TATA GIOVANNI

    LA VOCAZIONE

    IL CARDELLINO DEL CASTELLO DI PESCIA

    IL NOVIZIO

    CAMINO MONFERRATO

    VENERABILIS BARBA

    seconda parte:

    MADONNA DELLA STRADA

    L’AVVOCATO

    ONNE

    IL VENTO DEGLI ANNI SESSANTA

    TRASTEVERE

    IL POETA E LE SUE ADIACENZE

    EMARGINAZIONE

    ARRIVANO I NOSTRI

    Presentazione

    E’ sentimento comune che la nostra esistenza sia determinata da una serie di circostanze che, in larghissima misura, sfuggono al nostro controllo. La fede religiosa le fa risalire a un supremo ordinatore; annaspando così senza uscita nel problema di un libero arbitrio che dev’esserci, per meritarti paradiso o inferno in sempiterno; ma è difficile capire come, se non cade foglia che Dio non voglia . Più umilmente il pensiero laico organizza le tue circostanze facendoti ruotare in una galassia di ambienti, che vanno da quello che ti ha prodotto a quello che ti eliminerà. E’ comunque una considerazione ovvia che tanti fatti decidono da soli tutto il corso successivo della tua vita, non solo a prescindere dalla tua volontà, ma per lo più a tua insaputa.

    Perfino nel rappresentarti quanto ti è successo, nel chiederti ad esempio dove saresti voluto nascere, finisci, il più delle volte, sia pure con tante riserve, proprio nel luogo dove sei nato: ormai fa parte di te. Ma non per tua scelta. Non hai scelto né la razza, né il paese, né i genitori; tutti elementi di cui magari sei fiero, pur essendo essi, non tu, a determinare il tuo modo di essere e il tuo stesso esistere. Qualcuno ti ha dato un nome, altri previssuti un cognome. Esisti, senza averne fatto richiesta. E ti ritrovi battezzato o circonciso, con un tuo idioma e in una tua civiltà; ossia in un tessuto che altri ti hanno cucito addosso.

    Un tessuto che ti può stare anche bene, finché non ti accorgi, magari a tue spese, che la tua civiltà consiste inoltre in una stratificazione di continue menzogne; che avendo irretito prima di te i tuoi precursori, esigono da chi voglia districarsene tutto il coraggio di cui dispone.

    Che la tua vita sia oggettivamente il risultato di un’azione corale, qualcosa che non hai voluto personalmente, ti può sconcertare e al tempo stesso rassicurare, nella constatazione che se tanti non fossero vissuti per te prima di te saresti un primitivo.

    Ebbene, a differenza di chi ha la fortuna di adagiarsi felicemente nel suo contesto, trovato forse abbastanza comodo da essere acriticamente accettato, io non ho potuto fare a meno di vivere la scomoda esistenza che mi è toccata come una lotta continua contro la predestinazione delle circostanze e le menzogne di cui sono intrise. Sì, per cambiare anche solo un millesimo di quanto era già deciso, per esistere di mia volontà. Possibilmente senza stonare, nel coro composto dall’ambiente, da qualche dio, dagli antenati… Ma, cazzo, anche da me.

    Poiché riesco ad esprimere quel millesimo di libertà che mi concedono le circostanze soprattutto nello scrivere, conservo volentieri un vizio che ho preso presto, quando avendo tante cose da dire non sapevo a chi dirle; a differenza di celebrati contemporanei che scrivono e scrivono per trovare qualcosa da dire. Ho scritto intingendo nel calamaio un pennino che si storceva continuamente prima di spuntarsi e poi usando la stilografica, la biro, la Olivetti e il computer. Perché sarà un vizio, ma non mi pare che da una scuola che non insegna più a scrivere, privilegiando oralità, automazione e sussidi audiovisivi, i nostri figli, più scolarizzati di noi, escano con un più elevato livello culturale…

    Ahimè, eccomi diventato anche un vecchio sentenzioso. Comunque, anche se lo scopo subconscio per cui lo faccio ora fosse un rincorrere la mia gioventù, lo scrivere mi aiuta a capire e a spiegarmi. Ché al capire e al conoscere ho dedicato, sempre costrettovi dalle circostanze, il mio tempo migliore , essendo stato persuaso che solo il conoscere e il capire (l’amare e l’odiare sono conseguenti) diano un senso all’esistere.

    Così, dall’alto dei miei secoli di vita, riassumo qui in prosa il mio itinerarium mentis a Deo , dopo averlo somministrato in tante piccole dosi ad alcuni coraggiosi blogger sotto lo pseudonimo di Anonimo Sabino e trasfuso nei tre volumi in rima della mia Divina Tragedia ossia La Bibbia secondo un pagano. .

    Dicendo secoli di vita non mi riferisco alla storia che mi ha preceduto e confezionato (della quale ho pure cercato di far tesoro andando a riscavarla sotto la montagna di menzogne di cui l’ha coperta la storiografia), ma alle mie personali vicende: ho infatti vissuto la civiltà contadina (più esattamente pastorale montanara), quella postindustriale e quella mediatica; e nella mia particolare condizione giovanile di recluso ecclesiale ho vissuto il medioevo e la controriforma, parlando in latino. Non sono riuscito, quindi, ad essere pienamente figlio del mio tempo; in compenso, ho vissuto in un tempo senza età, come uno che nel suo secolo ci sta in affitto. E sempre a disagio.

    Nel mio tempo migliore sono stato pastorello, orfanello, chierico e poi tante altre cose, di cui qui parlerò. Ho amato e odiato, ho sofferto e goduto, ho provato la fame e la sazietà; ho pianto, ho riso e ho cantato. Ho fatto politica e ne ho preso scottature; non ho eluso la lotta, vincendo e perdendo, ma sempre amando sopra ogni cosa la pace. Ho soprattutto sognato, costretto a sognarmi un'esistenza parallela. Ho accarezzato l'illusione e trovato la delusione. Ho conosciuto tanti stronzi, persone cioè che avresti preferito non incontrare; ma anche persone splendide, troppo poche, invero; qualcuna da amare; e tanti, tantissimi miei simili condannati a un'esistenza anonima e insignificante, nei quali tuttavia non ho faticato a ritrovare sempre i miei stessi palpiti di umanità.

    Per cui, nel mio tempo peggiore , amo giocare a scopone con i cafoni, come Machiavelli nel ritiro di San Casciano, e andare in macchina con la musica classica a palla; essere un progressista che studia il passato e un rivoluzionario saturo del turbinare di innovazioni tecnologiche che hanno cambiato rapidamente il nostro modo di vivere e la nostra cultura, lasciandoci esaltati, storditi, fottuti.

    Ai miei compagni di sventura

    Prima parte:

    IL CORAGGIO DELLA RAGIONE

    FU OTTAVIO…

    Tutti i miei ascendenti, paterni e materni, erano radicati in un povero paese di montagna; non si sarebbe detto che si trovasse alle porte di Roma, nella parte orientale dei Monti Sabini, quella che, in omaggio a Orazio, è adesso ribattezzata dei Monti Lucretili. Monteflavio sta tra le balze che terrazzano il versante a ponente del Monte Pellecchia, il tetto dei Sabini, che regala all’Urbe, a nord-est dal Gianicolo, uno squarcio di orizzonte innevato nei giorni della giannetta ; sull’altro versante, dalla parte di Licenza, era la villa rustica del vate. E l’amore del grande poeta per questi luoghi era forse superiore al mio, certamente meno contrastato.

    Io ho considerato il paese più spesso una prigione che un nido, anche se ho pianto nel lasciarlo, l’ho rimpianto dopo averlo perduto e l’ho poi recuperato per la boccata d’ossigeno e di cultura materna.

    Non c’era acqua, nelle case. Le donne andavano ad attingerla alla Pilocca , la fontana rinascimentale al centro della Piazza, dove l’acqua giungeva dalla più vicina sorgente. Fino ad essa, sul fianco del dirimpettaio Monte Mozzone, le donne andavano a fare il bucato, sulle lisce grandi pietre dell’antica fonte fattavi ingabbiare dagli Orsini; e stendevano i panni al sole sulle siepi dei prati circostanti. D’inverno la Pilocca gelava e d’estate l’acqua era razionata; per cui dopo litigi e pettegolezzi la monteflaviese, facendo posto agli asini che aspettavano di dissetarsi alla sciacquatura, lasciava la fonte con una conca di rame in bilico sulla testa (qualcuno gliela imponeva ) e un’altra appoggiata sull’anca. Ecco perché le donne di Monteflavio camminavano, anche da vecchie, erette come principesse e ancheggiando piacevolmente.

    Freddo quasi tutto l’anno, per i 1500 abitanti; numerosa e povera pastorizia familiare per le montagne; boschi per far legna da ardere e carbone da vendere; un po’ d’ulivi per i colli che degradano verso la valle del Tevere; si raggiunge l’Aniene a Tivoli, il Tevere a Passo Corese, seguendo il fosso che fu la seconda sorgente dell’ infaustum Allia flumen .

    Ho identificato l’Allia (ma l’aveva già supposto il Guattani) quando ho scoperto che si chiamava Allìa, Ad Liam , prima che ne deformassero il nome le esigenze metriche di Virgilio: attraversava infatti una località chiamata dalle carte dell’Abbazia di Farfa Ad Petram Liam , per riversarsi prima nella via Salaria che nel Tevere; e aveva la sorgente principale a Capo Acqua di Monte Gennaro. E’ stato l’amico maestro Guido Rosati a farmi scoprire presso Stazzano Vecchio, lungo il corso di quello che d’estate è ormai un letto asciutto, due grotte naturali che, riaperte e svuotate dalle piene torrentizie, dovettero essere gli ossari della infausta battaglia con la quale Roma, tra l’indifferenza di Sabini delusi dall’aggressività della loro ultima fondazione, cercò di fermare la discesa dei Galli del Brenno. Più a valle si chiama Fosso delle Rosce (o stretta): le Rosse dovevano essere le loro donne, lasciate lì con le masserizie per riprenderle dopo il sacco.

    L’unica strada sale a Monteflavio da Moricone a occidente, ansa dopo ansa, tra una serie di muri a secco che trattengono agli ulivi piantati tra i sassi la poca terra. Fu resa carrozzabile da Pio IX, come ricordava una lapide; e finiva ai piedi del paese. Ai vicini centri della Sabina orientale (Scandriglia, Orvinio, la Val Turana), come nella opposta direzione della Via Salaria al vicinissimo Montorio Romano si poteva andare soltanto a piedi o a cavallo, per i sentieri della montagna.

    A fare e vendere carbone si era dato mio padre, seguendo le orme paterne. Ultimo di otto figli, Ottavio non aveva ereditato la vena poetica di famiglia, ma aveva composto una canzone. Almeno credo che fosse sua. La cantava alle sue mule facendo schioccare la frusta sulle loro orecchie dalla cassetta del grande carro articolato (il tir dei suoi tempi):

    Me nne parto pe lli paesi,

    tutti a me me so’ cortesi.

    Pe Velletri e Zagarola

    ogni rota pe ll’aria vola

    e nel vedermi da lontano

    queste ragazze tutte a mano a mano.

    Boi-bilaboi-bilaboi-bilabò.

    E’ quanto ne ricordo (o forse me la ricordava mia madre). Poca cosa sia come testo che come musica, la cantavo felice a tre anni, seduto in cima al mondo, sulle balle di carbone che egli aveva caricato nel carro.

    Nonno Mimmittu (Domenicuccio) aveva prima organizzato la numerosa famiglia come una grossa azienda commerciale; poi, maritate le tre femmine, aveva lasciato che ogni maschio si mettesse in proprio, dividendo tra i figli carretti e muli. Ma il suo talento commerciale non gli impediva di essere un poeta a braccio incontrastato nel paese e ammirato anche fuori. Andava fiero di essere chiamato col nome di colui che, evidentemente, era considerato anche per i paesi della Sabina, oltre che in Toscana, il più valente poeta improvvisatore di tutti i tempi, Francesco Berni. Cosa ignota, mi pare, alla storia della letteratura italiana. Come erano ignoti al nostro Berni, vantatore di una atavica virilità, gli strambotti froceschi dell’altro.

    " Cara Francesca mia fatti coraggio

    ché Ottavio porterà Maria del Belgio".

    Così aveva salutato l’arrivo di mia madre, che si chiamava Maria come la principessa abbagliata in quei giorni (era l’anno 1934) dai riflettori della cronaca, benché la sposa di Ottavio fosse soltanto una pastorella. Bella sì, ben messa, mora, con due grandi occhi lucenti, tanto desiderabile quanto orgogliosa (in casa la chiamavano la Paìna ); ma figlia di un modesto pecoraio, che per la sua bontà, pur chiamandosi già Angelo, era soprannominato Pietà. A battagliare anche per lui bastava sua moglie, la fiera Annarella, cugina di quella Giulia soprannominata la Fèra , di cui ho narrato, a chi abbia letto i miei sonetti semiromaneschi, ne La storia burina d’Aristide d’Er Vù .

    L’unico a tenere testa a nonno Berni, come poeta, era il primo dei figli, Annibale.

    Dello zio Annibale e di Gino, suo figlio, primo laureato del paese, ma in America, ho narrato in un inedito, Gino l’americano , con la sua collaborazione. Ivi ho diffusamente raccontato la gita del Duce con famiglia sul Monte Pellecchia, nel 1933, a dorso di mulo, accompagnato da mio padre ventiduenne e osannato, alla ridiscesa in paese, da un peana del nostro Berni che i maestri avrebbero poi fatto imparare a memoria a tutti i bambini.

    Il paese ne ebbe in cambio la luce elettrica e il servizio postale, uscendo così da un isolamento progressivo e desolante. Aderì quindi in massa a quel movimento fascista che lo reinseriva nel mondo civile e gli prospettava la partecipazione a un’era di gloria.

    Uno scontro in ottave rimasto famoso in paese, tra nonno Berni e zio Annibale, fu proprio in occasione del matrimonio dell’ultimo, avendo il Berni concesso allo spazzanido di insediarsi provvisoriamente in un vano della casa paterna.

    Affacciati, Mimmi’! Ché Nìbbile è venuto a fare la serenata a dispetto.

    Il Berni si pose olimpico alla finestra al fianco di nonna Francesca, pronto a rispondere all’ottava del figlio riprendendo la rima baciata della sua chiusura, secondo la norma del certame poetico. E lo zio Annibale lanciò al grande genitore la sua sfida, rimproverandogli, civilmente da poeta ma decisamente, la sua parzialità…

    "… Son io il maggiore. O dove il giusto vale

    ognuno deve avere parte uguale".

    " Tu sai come per l’erta il carro sale…"

    Maestro di rime come di vita, il Berni gli ricordò che è il muletto più giovane e inesperto quello che va aiutato dal buon carrettiere, quando la ripidezza dell’ansa stradale fa slittare il carretto.

    Anche Ottavio, desideroso di avere la licenza per il carro, che gli avrebbe consentito di mettere su famiglia con la sua Maria, accettò la tessera di camicia nera della milizia volontaria fascista, scarsamente cosciente di ciò che significava, ma piacevolmente gratificato dal saluto a braccio teso che gli rivolgevano i balilla e gli avanguardisti del paese.

    Chioma rossa e corporatura robusta, era gentile e forte, Ottavio, grande lavoratore, simpatico nel trattare gli affari e buon cacciatore; come lo stesso Annibale e il cognato Giulietto, che facevano i lupari. Ed era l’amico di tutti, quello che aveva sempre una sigaretta per chi le aveva finite. Così almeno me l’hanno descritto, per quanto può valere la descrizione di un defunto. Confidando nella sua forza e nella sua giovinezza, rinunciò presto all’ospitalità paterna, anche perché le chiacchiere non s’incattivissero. Nella casetta presa in affitto in Contrada Pescaria Maria gli sfornò tre figli in quattro anni, con grande soddisfazione della Patria.

    L’unica immagine che conservo del babbo sono le ampie spalle che mostrava nello scorticare le lepri al paletto dell’uscio di quella casa. Ma non appena il suo commercio cominciò a girare, acquistò la nuda proprietà della casetta che era stata del parroco, di fianco alla chiesa, all’angolo della piazza del paese.

    Sarebbe morto prima lui della vecchietta che vi attendeva la chiamata divina.

    Prima di entrambi se ne andò nonno Berni, che ho conosciuto solo di nome e per le poche rime che ne ricordava mia madre. Una gelida pioggerella lo colse nella macchia di Monte Mozzone. E se lo portò via, senza che lui opponesse alcuna resistenza. Anche di polmonite, a quei tempi, si moriva senza rimedio.

    Ottavio e Maria erano una coppia felice e soddisfatta. In un ambiente e in un’epoca in cui tanti maschi affermavano la loro potestà picchiando la moglie e supplivano alla mancanza di autorevolezza strapazzando i figli, lui, appena tornato dai suoi viaggi, non scaricava né scavezzava i muli se prima non era corso a baciare la sua Maria. Aveva cominciato a corteggiarla quando lei respinse la proposta di matrimonio che Ottavio recava per conto di un amico.

    Che me ne faccio, gli rispose, di uno che non si sa presentare da sé?

    La prima di cinque fratelli, tre femmine e due maschi, lei aveva anche più di Ottavio, quattro anni. Lui l’adorava; non le permetteva neanche di continuare ad aiutare suo padre a far rientrare la sera le pecore e a mungerle (Che ci pensino gli altri figli rimasti in famiglia); tanto meno di andare a lavorare con le casalanti nella campagna romana, nelle tenute principesche di Fonte Papa, della Cesarina, di Marco Simone o verso i Castelli.

    Devi pensare solo ad allevare i nostri figli e ad accudire alla casa, le diceva Ottavio. E lui stesso ci prendeva e ci coccolava quanto poteva.

    Il doppio lavoro di carbonaio e di carrettiere non sembrava pesare sulle sue forti spalle. Fu per un preciso calcolo che, dopo qualche tempo, anziché affaticarsi lui a tagliare legna e ad allestire e infuocare le carbonaie per i boschi, prese a raccogliere di preferenza il carbone fatto da altri, per i clienti sempre più numerosi che la sua cordialità gli aveva procurato; nei paesi vicini, ma anche a Tivoli, a Monterotondo, ai Castelli e a Roma.

    Diventò così, con il suo tir a muli, il commerciante di carbone atteso per i dintorni, non esigendo pagamenti immediati e sigillando i contratti con una stretta di mano. Non tardò quindi ad acquistare anche la vignarola , il carrettino da passeggio che utilizzava per viaggiare senza carico. Vi attaccava sempre Picchione, il mulo ribelle, suo preferito. E girando per andare a riscuotere o per le fiere a comprare finimenti, attrezzature e merci non reperibili in paese, si faceva accompagnare dalla giovane sposa.

    Trovava comunque il tempo per le serate all’osteria e per le mattinate a caccia. Così che in casa non mancava mai la cacciagione: erano cibo consuetudinario, oltre i maccheroni impastati dalla mamma, quaglie e lepri; che ormai sono scomparse appresso ai lupi, nonostante i tentativi di ripopolamento.

    Era stato il babbo a volere per mia sorella il nome della vamp, Vanda, per me il nome romano (ma mi chiamava Biotto) e per l’ultimo nato il nome del caudillo spagnolo ammirato e spalleggiato dai fascisti nostrani. Quando sento oggi (lo faccio io stesso) etichettare con il titolo di fascista la persona altezzosa e facile alle discriminazioni pregiudiziali, non posso fare a meno, ripensando a mio padre, di considerare come allora essere fascista fosse, per molti di loro, un’affermazione dello Stato Sociale contro il capitalismo liberalista.

    Ed ecco l’evento. Si preparava da tanto tempo che alla fine la guerra scoppiò. Il 1° settembre del 1939 la Germania invadeva la Polonia e l’anno successivo conquistava in un lampo mezza Europa, inginocchiando la Francia. Il sogno dell’Impero sembrava diventare una facile realtà, al fianco dell’alleato tedesco. E a Monteflavio, come altrove, i camerati cantavano: Slungheremo lo Stivale / fin all’Africa Orientale.

    Il 5 aprile del 1940, anno XVIII dell’Era Fascista, Ottavio non poté festeggiare con Maria il mio terzo compleanno, perché richiamato alle armi. Il successivo 10 giugno, vilmente, l’Italia entrava in guerra contro una Francia già invasa dai Tedeschi; che il giorno stesso chiedeva l’armistizio, benché l’Inghilterra accorresse ad affiancarla contro di noi. Nove giorni dopo, il 19 giugno, mio padre era morto. Fascisticamente caduto, manco non si fosse retto in piedi.

    La guerra era contro la Francia e l’Inghilterra, ma il suo oggetto erano l’allargamento nei Balcani e soprattutto l’Africa, dove si trovavano già le nostre truppe: i figli dell’antico Impero Romano vi rivendicavano, con velleitario anacronismo, la loro fetta di colonie e un posto al sole.

    Quando a Ottavio giunse la cartolina di richiamo alle armi, fu costernato. Invano protestò con il federale:

    Ho diritto all’esenzione, perché il militare l’hanno fatto i miei quattro fratelli; e adesso più ancora, con moglie e tre figli.

    L’avresti, se tu non fossi un volontario della Sicurezza Nazionale.

    Vuoi dire che tutti i militi partiranno soldati?

    Non partirono tutti: i peggiori rimasero a infestare l’Italia. Ma il federale continuò a ricordargli i suoi doveri: l’adesione al Partito Fascista non comportava soltanto i privilegi della licenza per il carro articolato e la vendita del carbone, ma anche la milizia volontaria.

    Ottavio, che tutto si sarebbe aspettato meno che un arruolamento da volontario coatto, urlò, protestò, prese a pugni il federale. Cosa che gli valse soltanto la destinazione immediata all’Africa.

    Stai tranquilla! disse a Maria: Su questo petto può passare un camion.

    Infame anche quello: gli passò sulla faccia.

    Prima di raggiungere Napoli per l’imbarco, Ottavio si era fermato a Roma da Gino di Annibale, che ora faceva il cameriere da Bernasconi al Largo di Torre Argentina. Primo nipote, suo allievo e compagno di caccia, sembrava suo fratello. A lui non nascose la preoccupazione:

    Non per me. Mi preoccupo per Maria, con tre bambini.

    Qualche giorno dopo la sua Maria scese anche lei a Roma, dove prese per la prima volta il treno e lo raggiunse a Napoli.

    Ma che ci sei venuta a fare? le disse per nascondere il piacere.

    A ricordarti che io starò sempre a casa, ad aspettarti, dovessi attendere tutta la vita… O soltanto per abbracciarlo prima dell’imbarco, come presaga di doverlo perdere.

    Ho trovato di recente, tra le carte di mia madre, il tagliando di un vaglia postale di Lire 150. Mittente: c.n. (camicia nera) De Mico Ottavio – 219 Leg. 114 Btg. 1 Comp. P.M. 301 – Tripolitania. Sul retro: tuo per sembre De Mico Ottavio . L’italiano non era il suo forte.

    La legione era in Africa da alcuni mesi prima che la patria entrasse in guerra. Ivi Ottavio si ritrovò improvvisamente al fronte, in prima linea: non ci poteva credere, che la cosa riguardasse proprio lui. E non pensava di certo al nemico quando, nove giorni dopo l’entrata in guerra, avanzando nel deserto della Tripolitania, l’automezzo che li trasportava ribaltò (Si dica per lo scoppio di una gomma), lo sbalzò fuori e gli ricadde sul volto.

    Si trovava sul posto il caposquadra di Moricone, dove viveva una delle sorelle di Ottavio, Angelina, maritata con Antonio di Amato, anche lui monteflaviese, che reduce dalla emigrazione vi aveva acquistato una casetta e un po’ di campagna più coltivabile delle pietraie monteflaviesi, per nutrirvi i due figli Paris e Renzo. Fu il camerata moriconese a dare la notizia al marito di zia Angelina, con questa lettera che ho ritrovato, sempre tra le carte di mia madre, e che trascrivo integralmente, correggendo solo l’ortografia.

    Homs li 21 Giugno 1940- XVIII° Carissimo Amico Antonio, in precedenza di questa mia avrete avuto certamente comunicazione dalle autorità circa la disgrazia imprevista capitata al povero defunto tuo cognato Ottavio…

    Come già avrai saputo, la disgrazia avvenne verso le ore 7 del 19 c.m. in seguito ad incidente automobilistico che per lo scoppio di una gomma l’autocarro ribaltò.

    Venuto io stesso a conoscenza dell’accaduto e sapendo che i feriti erano stati ricoverati nell’infermeria presidiaria di Homs, fra i quali trovai il povero Ottavio in condizioni pietose, consultai il medico curante, facendogli conoscere che si trattava di un mio paesano questo mi disse che solo un gran miracolo avrebbe potuto ridargli la vita perché si trattava di aver riportato ferite multiple al viso con la frattura base cranica.

    Con le lacrime all’occhi chiamavo Ottavio onde farmi riconoscere e farmi dire qualche cosa, tutto fu invano, durante le poche ore del suo delirio poche parole pronunciò nonché quelle di chiamare la sua moglie.

    Per quanto abbia avuto la più scrupolosa assistenza da parte di tutto il presidio, verso le ore 22 dello stesso giorno cessava di vivere con i dovuti conforti religiosi…

    Nulla fu trovato addosso al povero Ottavio fuori del portafogli contenente alcune carte, la fotografia della famiglia e Lire tre con un coltello e piastrino di riconoscimento e che senz’altro e al più presto possibile questa roba sarà rimessa alla famiglia. Credetti opportuno di prendere un po’ di capelli e che questi li consegnerai alla moglie che li serberà per un perpetuo ricordo del proprio estinto.

    Stretto a voi nel più vivo dolore invio a voi tutti di famiglia le mie più fraterne condoglianze.

    C.sq Poliziani Francesco – Presidio di Homs Tripolitania.

    Solo un mese dopo, il 19 luglio 1940, giunse, a firma illeggibile per il Podestà, la nota ufficiale, di patriottica laconicità, diretta a Maria Gilardi Vedova De Mico – Monteflavio

    OGGETTO: Decesso De Mico Ottavio.

    Si porta a V.s. conoscenza che la salma della cc.nn. De Mico Ottavio è stata sepolta nel cimitero civile di Homs e la di lui fossa porta il n. 342. p IL PODESTA’.

    Furono anni terribili per tutti. Per noi drammatici. Davamo ogni colpa alla guerra, non essendo allora in grado di capire che era stata la scelta autarchica a ridurre in miseria tutta l’economia nazionale. La pretesa dell’autosufficienza nella produzione del grano aveva portato i nostri montanari a competere con i carbonai nel deforestare la montagna, per seminare fin quasi alla vetta del Monte Pellecchia, per pietraie che, dove non potevano essere solcate dall’aratro, venivano dissodate con la gravina. Una fatica ingrata offerta alla megalomania del Duce e un costo pazzesco per pochi quintali di cereali che potevano essere acquistati all’estero a basso costo e bilanciati con l’esportazione di risorse più competitive.

    La mia famiglia non poté dare alcun contributo alla battaglia del grano , in mancanza di braccia virili. Ma nostra madre, passata bruscamente dalla stagione dell’amore a quella del pianto, dovette portarne il segno sulla schiena, per le tenute della campagna nei lavori stagionali e perfino a spigolare, per rimediare qualche chilo di grano da portare alla mola.

    Ci mancò non solo l’aiuto del nonno Berni, scomparso poco prima, ma anche quello dei suoi numerosi figli, tutti alle prese con la guerra o con una crisi che aveva il colore della fame; tranne lo zio Annibale, che era una delle due guardie comunali. Si ricordò di noi la zia Angelina, le rare volte che risaliva al paese dalla sua campagna di Moricone.

    Le altre due femmine, Adalgisa ed Elvira, maritate, non avevano alcuna autonomia, come tutte le donne, all’epoca. E anche gli zii maschi li ho conosciuti soltanto per il dovere impostomi di andarli a visitare.

    Il secondo del Berni, Antonio, era detto Alò per il saluto che aveva riportato dagli Stati Uniti. Aveva esaurito mentre viveva ancora in famiglia il gruzzoletto dell’emigrante. Povero come prima, lo zio Alò viveva alle prese con quattro figlie (in attesa del sospirato Dario) e con la moglie moriconese.

    Il terzo De Mico, Alfredo, dopo aver partecipato alla conquista dei Balcani e allo smacco delle nostre truppe in Grecia, stava tentando la via del successo recitando gag e poesie romanesche in un avanspettacolo ambulante per militari. Intanto sua moglie moriva di tisi e i due bambini più grandi lavoravano da adulti.

    Di nome Angelo come mio nonno materno, verseggiatore tenace era invece il penultimo del Berni, benché non sempre imbroccasse il metro preciso e la rima giusta. Insistendo per la via del commercio, prese in affitto la rimessa e il carretto di mio padre. Affitto che non pagò mai, perché lo zio Angelo era tanto gioviale quanto sempre squattrinato. Si raccontava come da ragazzo ironizzasse con nonna Francesca:

    Non potevi fare un altro figlio? Cosa possiamo dividerci in otto? Nonna Francesca gli rispose:

    Ti auguro di averne uno più di me. E così fu.

    Quasi tutte le mogli dei miei zii furono vittima di quello che era l’incubo e il terrore del tempo. Non osavano neanche chiamarla per nome, la tibicì.

    Lo zio Angelo trovò una moglie ternana, così delicata che la dicevano la signorina . La stessa tosse che aveva stroncato Onelia di Annibale e che minacciava la Cecilia di Alfredo l’avrebbe portata alla tomba. Rimasto con cinque figli, Angelo prese in seconde nozze la florida Livia, dalla quale ebbe altri quattro figli. Così la vendetta di nonna Francesca si adempiva. Come quei miei cugini siano sopravvissuti è un mistero. Lasciarono uno alla volta il paese, verso istituti religiosi, casali, retrobotteghe; e si conquistarono tutti una posizione dignitosa; i ristoranti romani da Alvaro al Circo Massimo e Lucia al Palazzaccio appartengono a due di loro.

    Il nostro unico sostegno erano i nonni materni, essendo i due maschi al fronte e le altre due figlie da sistemare. Ad assisterci, mentre la mamma stava al lavoro, bastava la grande casa che era il paese. Quasi tutte le mattine di buonora la mamma o una delle due zie materne, Santa e Orizia, ci accompagnava a impanare nell’ovile dove nonno Angelo teneva un centinaio di pecore all’addiaccio: dopo aver fatto il formaggio, nel paiolo ancora caldo di siero con larghi fiocchi di ricotta egli spezzava il pane per noi e per i cani.

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1