Il Commissario Sartori. Il caso di Marina Solaris
By Franco Enna
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Il Commissario Sartori. Il caso di Marina Solaris - Franco Enna
2018
IL CASO DI MARINA SOLARIS
1. La metropoli sconosciuta
La grande targa con la scritta «Roma» spuntò all'improvviso dalla foschia notturna; poi il treno si fermò alla banchina e il commissario Sartori scese con gli altri viaggiatori.
Si trovò disorientato, spinto, sbattuto, con la valigia che gli picchiava contro il polpaccio e l'ombrello che spesso gli faceva lo sgambetto. Le luci delle insegne al neon nella grande stazione Termini lo stordivano.
Non aveva più sonno. L'aria umida, odorosa di fumo, di gas e di polvere, gli rinfrescò la faccia. Si sentì oppresso dall'alto edificio, di cui non riusciva a scorgere i contorni, attraverso la pioggia.
«Dotto'!... Dottor Sartori!»
Vide una mano che si agitava tra la folla. La faccia raggiante, un po' paffuta, del brigadiere Corona gli fu davanti all'improvviso. Il commissario, che aveva sentito suo malgrado un piccolo tuffo al cuore, non si limitò alla formale stretta di mano, ma, quasi per riprendersi dal leggero panico che lo possedeva, abbracciò il concittadino.
«Ha fatto buon viaggio?... Mi dia la valigia... Ma no, me la dia!... Ha visto mio padre? Come sta? Se sapesse come sono felice che lei sia stato trasferito a Roma... No, no, Mariastella ci sta aspettando per la cena. Abbiamo tardato apposta.»
Non ci fu verso di far capire al brigadiere che era stanco e che avrebbe preferito andare subito a letto, dopo un bel bagno caldo. Fuori, sotto la pensilina della stazione, li aspettava una «pantera» della polizia. L'agente autista salutò militarmente il commissario, che gli porse la mano. Poi la rapida corsa attraverso la città, nel riverbero opaco delle luci, tra gli alti muri grigi dei palazzi e le auto sfreccianti nel caos. All'interno dei bar si scorgevano gli sprazzi azzurrognoli dei televisori accesi, con gruppi di persone che guardavano: gli italiani si stordivano con l'annuale insipida droga di Canzonissima¹. Per essere una metropoli, Roma gli appariva piuttosto provinciale. Non poté impedirsi di pensare al paese natale lasciato il giorno prima, ai parenti e agli amici, che a quell'ora o si trovavano anch'essi davanti ai televisori o facevano la solita partita a briscola al Caffè Roma.
Una malinconia sottile e irritante lo invase, mentre Corona gli parlava dei colleghi, del servizio e del complesso mondo di via San Vitale.
Quella notte dormì male nella camera dell'albergo trovatogli dal brigadiere Corona. C'era un gran movimento nei corridoi e qualcuno parlava ad alta voce in una stanza vicina; finché lui non poté fare a meno di protestare col portiere. Poi fu il silenzio, rotto spesso dal fragore delle motorette, dalle voci dei nottambuli che uscivano dai cinematografi. Nel dormiveglia avvertì l'assenza della moglie al suo fianco, e quella meno pungente di Tina e Carlo, i suoi ragazzi. La sua famiglia era rimasta in Sicilia.
L'indomani alle nove Sartori si presentò alla Questura centrale. Il questore lo accolse con viva cordialità, fumò con lui un paio di sigarette, mentre parlavano di figli e di stipendio. La voce del capo, chiaramente di origine siciliana, lo distolse dalle preoccupazioni immediate derivanti dal servizio.
«Vediamoci stasera, Sartori. Vuole? Andremo a cena insieme, così potremo parlare con più calma. Anch'io sono solo a Roma, momentaneamente.»
«Quali saranno le mie mansioni? Non ho idea di...»
«Uh, per questo c'è tempo! Ho qualcosa in mente per lei. Intanto, mi darà una mano nella Squadra mobile.»
Sartori uscì un po' deluso.
Nell'attraversare il cortile, sollevò gli occhi al cielo leggermente azzurro e trasse un profondo sospiro.
Si mise a gironzolare per la città, che vedeva per la terza o quarta volta e che gli era quasi sconosciuta. Passo passo, scese per via Nazionale, s'inoltrò nelle viuzze dei paraggi, fiutando gli odori delle drogherie. La gente camminava spedita, come stesse per perdere un appuntamento importante, senza urtarsi sui marciapiedi o nei passaggi pedonali, evitando di misura la fiumana di automobili, motorette, autobus e autocarri che si riversava da tutte le parti. Le parlate erano molteplici. Colse al volo il dialetto siciliano, tra due signori eleganti, uno dei quali stava mettendosi al volante di una lunga Mercedes bianca. Poi un gruppetto di negri lo sfiorò parlando in francese; una bella donna indiana gli passò davanti, avvolta in un sari multicolore. Le ragazze in minigonna erano una tentazione continua.
Era stordito.
Entrò in un ristorante; mangiò svogliatamente, seduto a un tavolo d'angolo, sbirciando una ragazza in minigonna seduta più in là.
Quando uscì, erano le due passate e piovigginava. La ragazza in minigonna lo sfiorò sulla soglia, gli sorrise come per chiedergli scusa e si allontanò ancheggiando. Di lei, Sartori ammirò soprattutto le belle gambe racchiuse in lunghi stivali a calza, di pelle nera.
Anche la vista di quella sconosciuta lo immalinconì. In momenti come quello ricordava con particolare amarezza di aver compiuto quarantacinque anni e di aver mancato tutte le occasioni di prestigio sognate da adolescente. Alto, snello, i capelli a spazzola brizzolati alle tempie, sempre compìto nel vestire (la sua unica debolezza, con una inclinazione particolare per le cravatte), sapeva di poter piacere alle donne. Ma spesso, quando le circostanze gli avrebbero offerto l'occasione di una scappatella, il mesto volto della moglie lo fermava alle soglie del piacere.
Un tassì lo portò alla Questura centrale.
Il brigadiere Corona, che lo stava aspettando, gli indicò l'ufficio che il questore gli aveva assegnato provvisoriamente. Si trattava di una stanza piuttosto squallida, con una finestra che s'affacciava sul cortile. Non c'era modo di scorgere il cielo; si vedevano soltanto gli automezzi della polizia posteggiati qua e là e l'andirivieni della gente nell'androne.
«Che gliene pare, dottore?» s'informò Corona.
«Bello schifo», mormorò Sartori.
Si sedettero a fumare.
Il brigadiere cominciò a parlare del loro paese, Partanna, e questo era un argomento che a lungo andare infastidiva Sartori. Ora come ora, non voleva pensare ad altro che al servizio, non perché fosse particolarmente zelante ma perché sentiva il bisogno di sfuggire alle preoccupazioni.
La porta si aprì per lasciar passare un uomo in borghese e due agenti in uniforme, che Corona gli presentò come il maresciallo Fantin e gli agenti Tortuoso e Mariani. La sua équipe, provvisoriamente, gli mandava a dire il capo; ed era proprio la provvisorietà della sua sistemazione che gli dava sui nervi.
Fantin non aveva l'aria molto sveglia, ma doveva sapere il fatto suo, se non altro perché aveva ventidue anni di servizio. Tortuoso, un calabrese alla seconda rafferma o giù di lì, sembrava il tipo del segugio serio e deciso. Dei tre nuovi arrivati, chi ispirò maggior fiducia al commissario fu Mariani. Nativo di Reggio Emilia, era giovane, simpatico e di modi gentili. Sartori avrebbe puntato su di lui, e raramente si sbagliava nelle prime impressioni.
Fecero portare del caffè dal piantone. Il corridoio davanti all'ufficio era ancora silenzioso. La gente stava facendo la siesta. Ma di lì a poco una «pantera» uscì dal cortile a sirena spiegata, interrompendo il maresciallo Fantin che stava illustrando al commissario quali fossero le esigenze della Squadra mobile. Con la sua parlata veneta, Fantin si faceva ascoltare con piacere.
Per qualche giorno non successe niente.
Nel frattempo, Sartori si fece accompagnare da Corona alla ricerca di un appartamento di almeno quattro camere. Ne visitò parecchi ma nessuno lo soddisfaceva.
«Lo vorrei in mezzo al verde», diceva, «possibilmente poco lontano dal centro, in modo che i ragazzi non debbano far troppa strada per andare a scuola...»
Per quell'anno Tina e Carlo avrebbero continuato a frequentare a Caltanissetta, dove erano ospiti dei nonni materni.
La domenica fu una giornata disastrosa, anche se un pallido sole autunnale faceva scintillare i vetri delle finestre.
Sartori rimase a letto, nell'alberghetto trovatogli dal brigadiere, fin quasi alle undici. Aveva rifiutato un invito a pranzo da Corona, anche se gli dispiaceva di rinunciare ai piatti siciliani di Mariastella. Ma in genere la cucina romana era di suo gusto; soltanto che, a lungo andare, sarebbe diventata una minaccia per la sua linea.
Uscì dopo mezzogiorno, con una lieve sensazione di sbandamento nel muoversi, e per un motivo che di solito si vergognava un po' a rivelare a qualcuno (ne aveva parlato alla moglie, una volta, nell'intimità); se lasciava passare due o tre giorni senza sacrificare a Venere, diventava irritabile e perdeva sangue dal naso.
Prima dell'una era già nel ristorante dove aveva visto la ragazza in minigonna e stivaloni. Ormai di lei sapeva molto. Sapeva che si chiamava Cristina Varecchia e che abitava in viale della Stazione Prenestina. Era una habitué del piccolo ristorante e, una volta che si era seduta al tavolo accanto a quello occupato dal commissario, questi aveva potuto leggere il nome e l'indirizzo su una busta posata sulla tovaglia.
Aveva scambiato anche qualche frase con lei, e ora ogni volta che s'incontravano si salutavano con un sorriso e un cenno del capo. La voce della ragazza era calda e bassa; lo sguardo, che lanciava quasi sempre di sbieco, aveva una luminosità allettante. Poteva avere al massimo trent'anni; vestita con eleganza un po' bizzarra e, anche se non poteva dirsi bellissima, era decisamente seducente.
Quel giorno, come aveva temuto, Cristina non c'era.
Era la prima domenica che passava a Roma e quindi non poteva conoscere le abitudini della ragazza. Probabilmente era andata fuori città.
Mangiò senza appetito dello stufato d'abbacchio, bevve due bicchieri di vino bianco dei Castelli e il caffè. Si concesse un whisky da Dagnino, che fece precedere da due cannoli alla siciliana. Poi si infilò in un cinema, dove per due ore si illuse di essere diventato uno sceriffo del West.
Prima di tornare in albergo, decise di passare dalla Questura centrale per dare un'occhiata ad alcune pratiche in corso, prive di vera importanza.
Quell'impulso doveva costargli caro in un prossimo futuro, era destinato a sconvolgergli l'esistenza. Ma Federico Sartori², commissario di Pubblica sicurezza, non poteva prevederlo. Tutta colpa di quella domenica solitaria nella grande baraonda della metropoli sconosciuta.
Attraversò il corridoio quasi deserto, salutato dai pochi agenti che lo incontrarono, chiese a uno dei piantoni di portargli un caffè ristretto, quindi si diresse verso il suo ufficio e aprì la porta.
Per una frazione di secondo ebbe l'impressione di aver sbagliato, di non trovarsi sulla soglia del suo laido ufficio presso la Questura centrale di Roma ma nell'anticamera del paradiso. Restò immobile, con la destra sul pomolo dell'uscio, come una statua di sale, a contemplare la visione che il caso (o forse uno dei suoi sogni di adolescente) gli aveva elargito. In quel momento, sua moglie era più lontana della luna (Fefè, mi pensi? Fefè, perché non scrivi più spesso?), e neppure il pensiero dei figli lo disturbava, ammesso che dei figli ragazzi possano impedire a un uomo nel pieno della sua maturità di ammirare una stupenda ragazza.
La visione era lì, sulla poltroncina traballante davanti alla scrivania: lunghe gambe accavallate, minuscola gonna che sembrava una panciera, pelliccia che incorniciava un corpo che difficilmente la fantasia di un pittore sarebbe riuscita a creare; la scollatura triangolare del maglione color canarino forse per sbaglio riusciva a coprire l'ombelico. C'erano poi gli occhi, dall'iride verde, che guardavano tutto e tutti con un'ingenuità disarmante, come per dire: «Vedete? Non faccio male a nessuno. Madre natura mi ha cucinata così!»; e quel visino magro, dagli zigomi alti e sporgenti (così piacevano a lui i volti delle donne), dove soltanto la bocca larga e sensuale, imbellettata di rosa per intonarsi con i lunghi capelli biondissimi, rivelava una certa maturità.
«Lei commissario?... Lei capo quaggiù?... Oh, io molto disperata, sir!... Mia amica sparita. Forse uccisa. Lei molto bella e italiani molto violenti...»
Straniera.
Bontà divina, non poteva essere che straniera! La ragazza tendeva le braccia verso di lui, come per attendere un contatto fisico.
Il commissario Sartori varcò la soglia come in trance.
2. La vichinga
La ragazza aveva un sex appeal da togliere il fiato. E da dieci minuti, da quando cioè si era sparsa la voce negli uffici vicini, piantoni, agenti e sottufficiali inventavano pretesti per entrare nella stanza e inebetirsi di fronte alla vichinga. Poi Sartori mise tutti alla porta, a eccezione del brigadiere Corona, che faceva da scrivano.
«Dica pure, signorina.»
Si chiamava Harriet Larsen; era nata in Svezia ventidue anni prima, precisamente a Linköping (con la dieresi sulla o, aveva precisato, e il brigadiere aveva segnato i due puntini con scrupolosa attenzione), nell'Östergötland³ (altra dieresi sulla prima o; il brigadiere avrebbe messo le dieresi dappertutto, pur di farle piacere).
«E allora, miss Larsen?»
Poiché Corona sollevò lo sguardo, stupito da quel miss, Sartori non poté fare a meno di arrossire.
«Oh, parli pure italiano!» esclamò la ragazza. «Io conosco benne suo linguo...»
Era arrivata in Italia da poco meno di un anno. Da Stoccolma, dove aveva incontrato un belo fusto italiano che l'aveva convinta a darsi al cinema, era venuta direttamente a Roma. Aveva tentato di farsi presentare a Fellini, ma dopo lunghe ricerche e faticose anticamere aveva desistito.
«Lei conosceva Fellini?» domandò Sartori.
«No», rispose la ragazza, «ma tutti dire grande regista e grande passione per bele svedesi...»
«Ah!»
«Io ammiro molto Fellini...»
«Sì, è un grande regista», ammise il commissario debolmente.
La ragazza scosse la testa negativamente.
«Oh, no!» esclamò con forza. «Solo grande bluff... Lui magnifico venditore di fumo.»
Naturalmente, dopo aver instaurato una stretta quanto effimera alleanza tra Campania e Svezia, il belo fusto se l'era squagliata. Ma Harriet non si era persa d'animo e si era dedicata all'arte dello spogliarello, passando da un night all'altro. Ora si esibiva al Granchio Azzurro, un locale di lusso nei paraggi di via Veneto.
Pochi giorni dopo il suo arrivo a Roma, la ragazza aveva fatto amicizia con un'«artista» del Granchio Azzurro, una certa Katia, il cui vero nome però era Caterina Mascinelli, di Pescara, con la quale aveva preso in affitto un appartamentino di tre stanze in via Nomentana.
Katia si era subito dimostrata un'amica sincera e Harriet le si era affezionata con quel calore di cui, checché se ne dica, sono capaci i nordici.
«Ebbene?» chiese il commissario, vedendo che la ragazza esitava.
Da sei giorni Katia era sparita e Harriet era molto preoccupata, perché l'amica non le aveva minimamente parlato di una partenza improvvisa. D'altronde, una congettura del genere era da scartare, dato che tutti gli effetti personali di Caterina Mascinelli si trovavano ancora nell'appartamento comune. Harriet aggiunse che il direttore del Granchio Azzurro era furibondo perché il «numero» di Katia costituiva una vera attrazione per il locale.
«Lei è convinta che alla sua amica sia accaduta una disgrazia?»
Harriet temeva di sì. Aveva fatto delle ricerche negli ospedali, ma senza risultato. Tra gli incidenti stradali di cui aveva avuto notizia dai giornali non aveva trovato nulla che si riferisse all'amica. La Millecento di Katia si trovava nel solito garage, in via Nomentana, dove la ragazza la teneva.
«La sua amica aveva una relazione fissa?»
Sì, l'aveva, anche se ciò non escludeva altre amicizie. Un certo Toto, non meglio identificato, le dimostrava un amore asfissiante. Harriet poteva solo dire in proposito che il giovane era romano e che lavorava alla Esso.
«Lo conosce?»
«Sì.»
«Può descrivermelo?»
Alto, biondo, elegante; portava gli occhiali e leggeva Playboy
, di cui teneva sempre una copia in tasca. Aveva chiesto più volte a Katia di sposarlo. Ogni sera, dopo la mezzanotte, faceva una scappata al Granchio Azzurro per vedere la ragazza del cuore.
«La sua amica come ha reagito alle proposte di matrimonio di questo Toto?»
«Oh, lei ridere! Niente volere sposarsi, Katia!...»
«E poi?»
«Niente. lo finito. Lei trovare mia amica, vero?»
I verdi occhi della vichinga si velarono di lacrime, mentre le sue mani si tendevano come per ricevere Katia in dono dal commissario.
«Faremo tutto il possibile», rispose Sartori. «Intanto, sarà bene che io dia un'occhiata alla camera occupata dalla sua amica. Ha una fotografia, qui o a casa?»
«Sì. A casa. Molte foto di Katia. Anche nuda...»
Sartori scambiò un'occhiata col brigadiere, che abbozzò un sorrisetto ebete.
«Brigadiere, viene con me?»
La ragazza si alzò, imitando il commissario. Era più alta di lui di almeno dieci centimetri. Quando riaccostò i lembi della pelliccia, una nuvola di penetrante profumo francese avvolse i due uomini.
3 Un caso oscuro
Il palazzo era grigio, di molti piani, con un androne cupo dove il sole non penetrava mai.
Harriet fece strada verso l'ascensore, sulla cui soglia attese i due funzionari, quasi impaziente.
«Forse Katia morta», disse, mentre la gabbia di metallo saliva verso il settimo piano.
«Che cosa glielo fa pensare?» domandò il commissario.
La ragazza si toccò la mammella sinistra. Era la prima volta che tali attributi femminili avevano dei presentimenti, pensò il commissario.
L'appartamento era arredato con molto buon gusto. Delle tre camere di cui si componeva, una era adibita a soggiorno-salotto; le altre due erano le camere da letto delle due ragazze.
Quella di Katia era piena di oggetti multicolori, dal copriletto ai tappeti, alle stampe affisse alle pareti. Sartori ne fu favorevolmente colpito.
«Permette, vero?»
Cominciò a frugare nei cassetti, poi passò all'armadio. Molti giornali a fumetti erano accatastati accanto al letto. I vestiti di Katia erano lo strumento di una esistenza votata alla gioia: oltre che numerosi e bizzarri, avevano una personalità che certo rifletteva quella della ragazza.
Corona si avvicinò al commissario tenendo in mano un grosso album di fotografie rivestito di marocchino rosso.
«Questa è lei», disse.
Harriet, che era rimasta trepidante e preoccupata sulla soglia della camera, s'intromise dicendo: «Sì, è Katia».
Sartori incominciò a far scorrere le fotografie, anche a beneficio degli altri due che gli stavano ai lati.