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Creatività Medica: l’atto poetico in terapia
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Creatività Medica: l’atto poetico in terapia
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Creatività Medica: l’atto poetico in terapia

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La nobile professione del medico, e quella del terapeuta in genere, negli ultimi decenni, ha cominciato a essere soffocata nel dedalo dei protocolli, delle statistiche e dei meandri burocratici, oscurando quegli aspetti fondamentali che, a suo tempo, avevano incendiato il cuore dell’individuo nella scelta a favore delle arti mediche. L’autore porta la propria esperienza di questi trent’anni di professione in cui ha raccolto, nelle confidenze dei colleghi, il desiderio di riscoprire l’eros, l’afflato poetico, la motivazione interiore nell’attività clinica. L’alternativa è spesso un senso di impotenza, di melanconia, di inaridimento che, col tempo, può allargarsi alla dimensione anche relazionale e affettiva. L’autore propone, come accadeva nella miglior tradizione, di riscoprire la sfera spirituale come sottofondo di ogni azione, in modo che questa si trasformi da attività meccanica ad azione consapevole. Gli stessi atti di tutti i giorni possono nuovamente rigenerare l’anima, se a guidarli è un atto di Creatività Medica.
LanguageItaliano
Release dateMar 29, 2018
ISBN9788863654585
Creatività Medica: l’atto poetico in terapia

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    Creatività Medica - Raffaele Fiore

    Disney)

    PREFAZIONE di Gino Caletti

    Un collega che più di ogni altro, anche tra i professori universitari che ho avuto, mi ha insegnato – e continua a farlo – a interpretare i meccanismi del pensiero e dell’anima è il dottor Raffaele Fiore, conosciuto oltre vent’anni fa. Con lui è nata una profonda e duratura amicizia, animata e rafforzata dalla stima che nutro nei suoi confronti. Medico capace, possiede una spiccata sensibilità nel riconoscere le manifestazioni umane sussurrate o urlate dall’anima e nell’indirizzare i soggetti verso la via da percorrere, in modo che, partendo da un basso livello di coscienza personale, si possa raggiungere la consapevolezza interiore necessaria a vivere meglio. Erano anni, forse decenni, che aspettavo di leggere un libro così. Perché è così speciale? Il libro è rivoluzionario.

    Mi sono spesso chiesto come faccia uno psichiatra o uno psicoterapeuta ad aiutare il paziente senza preventivamente valutare se il cervello di quel paziente, ovvero l’organo fisico vero e proprio che detiene la funzione cognitiva, sia quantomeno funzionante dal punto di vista biochimico. Mai ho sentito uno specialista del settore considerare in toto la situazione fisica del paziente prima di intervenire sulla sua mente.

    Raffaele Fiore con questo libro chiarisce concetti fondamentali che sfuggono completamente al lavoro psicoterapeutico tradizionale: Il corpo fisico è il mezzo privilegiato per raggiungere alti livelli di coscienza.

    Questa, senza dubbio, è una rivoluzione! Dall’approccio terapeutico stereotipato, che promuove libertà assoluta nella scelta della dieta del paziente psichiatrico, soprattutto se depresso, si giunge dunque alla formulazione di una dieta antinfiammatoria, come base sulla quale fondare il lavoro di trasformazione psicologica che coinvolge il pensiero, l’anima, la spiritualità.

    Un balzo in avanti notevole, che si rifà al vero significato di mens sana in corpore sano. Si tratta di un atto coraggioso di colui che, da terapeuta, non si rivolge al cervello solo come organo forzandolo a un funzionamento aprioristicamente stabilito da un metodo analitico, da una scuola di pensiero o da un trattamento farmacologico, ma diviene consapevole dell’importanza che sia la salute biochimica complessiva dell’organismo a determinarne le condizioni ideali di lavoro.

    Il lavoro del terapeuta così inteso, dunque, per potersi svolgere in modo efficace, prevede che il terapeuta stesso non cada nelle trappole che la vita di tutti i giorni ci riserva. Troppo spesso, infatti, i medici sono vittime dei medesimi errori che contestano ai loro pazienti. Quanti dietologi sono obesi? Quanti cardiologi cardiopatici? Quanti diabetologi diabetici? Quanti pneumologi fumano? Quanti oncologi malati di cancro? E quanti psicoterapeuti hanno difficoltà relazionali, comportamentali, psicologiche anche più gravi dei loro pazienti?

    Quello che Raffaele Fiore afferma con decisione, insomma, è che il terapeuta, per poter aiutare chi gli sta di fronte, deve conoscersi, deve aver compreso e, se non proprio risolto se stesso, almeno essere entrato in comunicazione con la parte più profonda di sé, lo Υν θι σαυτόν, il vitriol del pensiero esoterico: Il mondo infatti è ormai colmo, in quest’epoca, di persone che insegnano qualcosa che non hanno mai applicato nella propria quotidianità. […] Guarire non è solo una richiesta di silenzio e di verità, è soprattutto una richiesta di unità. Non esiste, quindi, una monarchia assolutista della mente su tutte le altre parti del corpo.

    Credo che il libro sia veramente un piacevole viaggio verso una profonda conoscenza delle dinamiche vere, reali e senza pregiudizio di ciò che affligge l’uomo come paziente e come terapeuta.

    Questo testo, con grande grazia, ma anche con piglio deciso, mette a nudo, correggendole, le falle della medicina contemporanea, anche di quella che, per converso, non bada mai, sbagliando, alle dinamiche della mente. L’errore usualmente commesso è bidirezionale: si interviene sulla funzione cognitiva non curandosi del resto del corpo oppure ci si preoccupa solo del corpo, ma non dell’aspetto cognitivo. L’uomo è corpo e anima: l’uno non vive senza l’altra e viceversa.

    Raffaele Fiore ci insegna che perfino questa consapevolezza non è sufficiente a espletare al meglio il ruolo del terapeuta moderno. Ci sono piani e livelli differenti che abbracciano l’anima, la spiritualità, la vera natura umana e solo un terapeuta attento, conoscitore di queste dinamiche, ben spiegate nel testo, sa mettere in atto la magia della trasformazione alchemica che potrà così attuarsi nel paziente.

    Ecco perché orbitare intorno a Raffaele Fiore è per me un’esperienza di crescita magistrale. La lettura di questo testo aiuta chiunque voglia finalmente raggiungere un livello di coscienza più profondo. Buon viaggio, dunque, alla scoperta del sé.

    Gino F. Caletti, co-autore del libro

    Le favole sull’alimentazione. Per mangiarti meglio

    PREFAZIONE di Raffaele Fiore

    In tutte le tradizioni di tutte le culture, ma soprattutto nella Quarta Via di Georges Ivanovič Gurdjieff, emerge chiaro che il vero lavoro dell’essere umano è di creare una coscienza auto-osservante, tale da poter coordinare o, nel migliore dei casi, di vedere le tre parti che lo compongono e cioè: il corpo fisico, la mente e le emozioni. Queste tre parti funzionano sempre meccanicamente: esse instaurano abitudini che, col lavoro giornaliero su noi stessi, potremmo chiaramente vedere. Questo lavoro, però, non vede mai la fine: di volta in volta, nel corso della vita, salirà il livello di presenza alla realtà, senza aver mai la sensazione d’aver concluso l’opera. L’agire meccanico è il prodotto della cultura alla quale apparteniamo, dell’educazione famigliare, della storia, delle richieste del mondo circostante, di tutto tranne che dell’individuo stesso. Quindi, come disse Sigmund Freud, l’io non è padrone in casa propria: crede di sapere chi è e cosa vuole, ma in realtà non è così. Esso, identificato proprio con tutte le attività meccaniche che svolge, vive in un costante sonno. Che allevi pecore o vinca il Nobel per la fisica, poco conta: la condizione ordinaria dell’uomo e della donna è il sonno. Tutti hanno insegnato la stessa cosa: il Buddha, Krishnamurti, Gurdjieff, Paramhansa Yogananda coi suoi maestri e, in capo a tutti, ammesso che si sappiano davvero leggere le pagine sublimi del Vangelo, Gesù Cristo.

    Il lavoro della vita è proprio solo questo: scoprire chi si è in realtà. Se ne deduce che l’autenticità e la volontà non sono un regalo della natura, ma il frutto del lavoro costante, quotidiano, senza interru-zioni, fatto sulla presenza, soprattutto al corpo fisico. Il Cristianesimo esoterico della prima ora e tutte le più autentiche vie di ricerca della verticalità, danno un’importanza totale al corpo fisico in quanto luogo sacro della ricerca.

    Chi entra nel mondo della sofferenza, sia come terapeuta che come malato, dovrebbe quotidianamente tenere presente questo tipo di lavoro, perché il dolore cresce laddove non c’è consapevolezza di sé. Non vorrei essere frainteso: la consapevolezza non agisce da antidolorifico, ma restituisce al dolore la propria dimensione di senso al dolore e, cioè, ne fa uno strumento di conoscenza di sé, lo trasforma in un utile compagno di viaggio. Il dolore è un amico (come traspare nella lingua ebraica), una bussola che ci permette di correggere la rotta del lungo viaggio della vita. Gli esempi più eclatanti si vedono proprio sul corpo fisico che, come diceva il Buddha, conosce la verità: cioè, conosce ogni tipo di verità, non solo quella metabolica o fisiologica, ma anche quella della nostra evoluzione, dei movimenti del cielo, degli elementi della natura che ci compongono, dei talenti che portiamo in dote alla nascita e di tutto ciò che ancora ignoriamo di noi. Il corpo fisico non mente mai, per cui è la porta privilegiata aperta sulla nostra verità, sul nostro equilibrio, sulla nostra salute, sui movimenti dell’anima e della spiritualità. Il corpo fisico è anche il solo mezzo per raggiungere alti livelli di coscienza.

    Leggere libri, crearsi una cultura scientifica o umanistica profonda, dibattere e confrontarsi sono ottimi strumenti per avviare il lavoro, ma se tutto questo non è accompagnato dall’esperienza corporea, allora diventa inconsistente, non ottiene il risultato sperato: cioè, non è capitalizzabile. Persino le terapie, allopatiche o naturali che siano, non producono il loro massimo effetto se non accompagnate da una costante attenzione alle modificazioni che avvengono nella struttura psicosomatica, di cui siamo dotati durante la loro azione. Delegare al medico o al farmaco tutto il lavoro della guarigione è un grave errore di valutazione. Il lavoro va fatto col medico e col farmaco, altrimenti assisteremo a una lunga e tormentosa serie di insuccessi.

    Altro elemento da rimuovere immediatamente dai fondamenti della cultura occidentale è la convinzione che esista una separazione tra mente e corpo, tra visibile e invisibile, tra pensiero e funzione somatica. Nonostante questo sia un concetto ribadito più volte a tutti i livelli della cultura in tutto il Novecento, sembra non essere entrato ancora negli strati più profondi dell’animo umano. Sulla carta, tutti lo hanno scritto milioni di volte, citando Cartesio (res cogitans e res extensa) da una parte e Jung (simboli della trasformazione) dall’altra, ma quanti hanno dedicato venti minuti al dì per farne esperienza tramite gli esercizi di un’arte sacra come lo Yoga, il Qi Gong o la meditazione?

    Col tempo, la serietà e la serialità della pratica producono un effetto straordinario sulla percezione del mondo, dell’evoluzione e, forse, dell’intero universo. Se leggiamo attentamente Rudolf Steiner, ci accorgiamo che tutta la storia che ci ha portato fino a qui, al contrario di quanto è scritto sui testi scolastici, si basa su premesse diametralmente opposte a quelle che ci propone il pensiero scientifico. La verità è che, nello stato di veglia reale, nei rari momenti di risveglio che regala la pratica meditativa, ci si accorge che la vita ordinaria ci appare esattamente al contrario di ciò che è. Questo terrorizza colui che sperimenta questa esperienza, ma, per contro, gli regala una consapevolezza alla quale non potrà più rinunciare per tutto il resto dei suoi giorni: cioè, una volta vista la struttura gerarchicamente sottile delle cose, sarà molto difficile negarne l’esistenza. Chiunque abbia incontrato un vero sciamano – e non un ciarlatano che frequenta i salotti televisivi – oppure un vero veggente o un grande mago, rimanendone ovviamente segnato, difficilmente potrà ignorare quell’esperienza per il resto della vita. Chi ha potuto vedere una guarigione inspiegabile, magari proprio su se stesso, non potrà dimenticarla mai. Quando vediamo e quindi accettiamo il miracoloso, siamo pronti a produrre un atto poetico e creativo.

    Quando cominceremo a domandarci se sia più corretto somministrare un rimedio – naturale o allopatico – alle dieci del mattino o alle sei di sera o se sia meglio darlo martedì e venerdì piuttosto che mercoledì e sabato, non saremo impazziti, ma solo entrati in una dimensione più allargata di coscienza, in cui la vista corta del pragmatismo ordinario sta lasciando il posto al gesto poetico. Allora non ci sembrerà folle mettere in relazione i disturbi della testa col segno dell’Ariete, quelli dell’addome con quello della Vergine e quelli del petto col segno del Cancro, perché sentiremo che quelle corrispondenze appartengono a una dimensione analogica che non ha mai abbandonato l’uomo e il suo destino, perlomeno dall’inizio delle origini della coscienza. Sentiremo profondamente vera la relazione tra lunarità e cervello e comprenderemo che, nonostante la grande fama di cui gode nella nostra epoca, quest’organo – tra le sbornie delle neuroscienze – non potrà mai governare da solo le nostre scelte, perché, come la luna, non produce luce propria; esso, per risplendere, necessiterà sempre di una solarità. Il cervello può soltanto riflettere e quello che fa il cervello, appunto, è

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