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Nessun respiro
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Ebook447 pages6 hours

Nessun respiro

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Thriller - romanzo (352 pagine) - Lo hanno sbattuto lontano. Solo, tra denti affilati, malelingue e amanti speranzose. Solo, con un pezzo di ferro al fianco. E la tristezza, perché qualsiasi cosa tu faccia, i cadaveri rimangono sempre cadaveri.


Fulvio Negri credeva sarebbe stato più semplice fare lo sbirro, più edificante. Ignorava le leggi del branco, le freddure della vita. Verso il fondo, indeciso se fare a pugni con sé stesso o con il mondo, sfiora per caso la donna con il lupo. Sarà persa per sempre, come tutte le cose che semplicemente non hanno spiegazione. Tanto vale accettarle.

Ecco il primo romanzo di una trilogia con un protagonista d'eccezione: Fulvio Negri.


Eduard Orselli è nato in Veneto nel 1982. Laureato in scienze politiche, da un decennio si occupa di attività investigative lavorando in una delle forze di polizia italiane.

Autore esordiente, è stato mosso dalla voglia di riportare in lettere le sensazioni che provano i professionisti durante le indagini condotte, mettendone a nudo i limiti e la reale umanità.

La trilogia su Fulvio Negri è il suo primo lavoro.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateApr 3, 2018
ISBN9788825405507
Nessun respiro

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    Nessun respiro - Eduard Orselli

    lavoro.

    Agli sbirri, quelli veri.

    Quelli che provano ancora

    ad aiutare la brava gente.

    Per l'immagine di copertina:

    Annegami di Margherita Martinelli (tecnica mista su tela, 2006)

    www.margheritamartinelli.it

    Uno

    – Merda.

    – Merda secca.

    Appena sveglio il mio spettro di vocaboli appariva limitato solo quanto i miei pensieri. Il risveglio non era mai stato il momento migliore, nelle mie giornate. Merda secca era un’espressione che non avrei mai usato, che non usavo mai, che non ho mai usato. Eppure la mia faccia esprimeva in maniera eloquente quell’unione di parole.

    Avevo aperto gli occhi svegliato dai vicini, che non conoscevo. Non ci avevo mai parlato, mai condiviso nulla che mi riguardasse. Li intuivo, sentendoli muoversi al risveglio nel palazzo: veloci, lenti, rumorosi. Tutti abitudinari, alla stessa ora ogni mattina, con gli stessi gesti ogni mattina. Con lo stesso passo cadenzato su e giù per le scale condominiali.

    A testa bassa, seduto sul bordo del letto, mi scompigliai i capelli ormai lunghi. E come sempre, aprendo lentamente gli occhi, controllai quanti me ne fossero rimasti in mano. Non ricordo con esattezza da quanto non li tagliassi, non li sistemassi.

    – Merda secca.

    Seduto sul water cominciai a ricordare tutto, un po’ alla volta, senza fretta. Un po’ mentre lavavo la faccia, un po’ mentre lavavo i denti, un po’ mentre mettevo la crema senza imbrattarmi la barba. Cercando di non imbrattarmi la barba.

    – Cazzo.

    Pensavo.

    – Cazzo.

    Mentre il microonde economico acquistato in sconto scaldava l’acqua nella tazza con l’orlo scheggiato. Un minuto e trenta di rumore costante, triste, da impiegato spacciato. Una bustina di the per qualche minuto, mezzo cucchiaino di zucchero.

    Sorseggiando l’intruglio guardai distrattamente l’orologio, più volte. E ogni volta dovetti riguardarlo, concentrandomi per leggere l’orario. Non che mi mancasse vista, ma per quella prima mezz’ora della giornata il cervello avrebbe avuto degli stadi obbligati da attraversare.

    – Merda.

    – Merda secca.

    – Cazzo.

    – Porca puttana.

    I primi due, completamenti inconsci. Il terzo, quello fallico, determinato dal ricordo del tratto di vita che stavo vivendo.

    Strano, ambiguo.

    In quei primi minuti della mia giornata non pensavo a nulla di concreto, non avevo alcun desiderio, nessuna insoddisfazione. Era come se le mie ambizioni e il mio orgoglio dovessero anch’essi ridestarsi.

    Infine emergeva classicamente la fase porca puttana. Quella che indicava il primo elemento oggettivo della giornata: ero in ritardo. Non in spaventoso ritardo, anzi, forse nemmeno in ritardo. Solo che per un semi ansioso, abituato dalla vita al rispetto delle regole, era importante cercare di essere puntuale. Il più possibile.

    Presi la pistola dal cassetto e chiusi dietro di me la porta dell’appartamento, lasciando le stanze ermeticamente chiuse e buie, sperando che nessun predatore urbano decidesse di entrarvi in mia assenza.

    Predatori. Anche io ero un predatore, ma la mia preda erano proprio i predatori. Ero uno sbirro, e a quel punto della mia vita ero uno sbirro ormai autentico.

    È importante precisare come l’autenticità di uno sbirro sia data essenzialmente dal suo essere stufo di fare lo sbirro, stufo di servire una società che egli stesso ha osservato nelle più macabre sfaccettature e che, senza dubbio, a quel punto disprezza. Una società che ai suoi occhi sta andando sempre più a puttane.

    Mi chiamo Fulvio Negri, e in quell’istante della mia vita ero da poco diventato uno sbirro autentico. Indossando i requisiti anzidetti mi ero perso, completamente.

    Un quarto d’ora di strada, nel traffico degli studenti scazzati con i pantaloni a mezzo culo fuori, degli impiegati con le radio cazzate sparate a manetta, dei commercianti con i tic nervosi e le macchine scaricate dalle tasse, degli anziani che non avevano un cazzo di niente da fare e dovevano riversarsi nelle strade con le loro macchine scassate e pulite, i loro cappelli distintamente indossati. E degli sbirri come me, con la macchina perennemente in riserva, i vestiti mal stirati, la pistola sulla schiena che lacera i lombi a ogni curva e la voglia compulsiva di litigare con ogni bastardo che, in pianificato ritardo, doveva sorpassare tutti gli automobilisti fermi in coda al semaforo rosso.

    Davanti al portone del palazzo abbassai la testa, come sempre, continuando a camminare. Mi sentivo fuori luogo in quel posto. Sembrava che tutti mi guardassero storto, considerandomi per qualche ragione uno stronzo o un incapace. Erano nove mesi che la vedevo in questo modo, ed erano dieci mesi che lavoravo lì, da quando, senza esitazioni, mi ci avevano sbattuto a riflettere sull’universo.

    Nove mesi. In cui avevo sempre pensato che pian piano sarebbe andato tutto a posto. Sempre, fino a quando ero diventato uno sbirro autentico e avevo cominciato a fregarmene. Non lo accettavo e nemmeno lo condividevo. Me ne fregavo e basta, incastonato in una specie di indifferente attesa. Forse in una ineluttabile perdita di speranza e di fiducia verso ciò che io stesso avevo scelto di essere.

    Apatia. Arrendersi per non arrendersi. Pensare che qualche tuono avrebbe abbattuto qualche albero che avrebbe deviato il corso del fiume che avrebbe cambiato in meglio il paesaggio. Ma nonostante i temporali mi avessero sommerso non era cambiato niente.

    Tanto valeva accettarlo.

    Due

    Il capo del reparto era Tamburini. Quando arrivai, quella mattina, era seduto alla scrivania con gli occhiali poggiati sul naso, chiuso dentro il completo mezza stagione grigio che indossava. Mi chiesi se l’avesse acquistato per una cerimonia dei suoi figli, quando andavano ancora di moda gli abiti di due taglie più grandi. Era un uomo capace, ma mi stava lo stesso sul cazzo. Lo rispettavo, perché sono sempre stato capace di stare al mio posto, ma non lo ritenevo di certo un capo modello.

    Non avrei voluto diventare come lui, da grande.

    Quando mi vide passare mi salutò con un buongiorno Fulvio, gentile quanto distratto. Quei saluti che vengono fatti volentieri ma a costo zero. Ricambiai, proseguendo a testa bassa verso il mio ufficio.

    L’odore di fumo stantio era terribile. Chiunque avrebbe distinto gli uffici dei fumatori. Era assurdo come proprio nel nostro contesto, nell’universo degli incaricati di far rispettare la legge, fosse consueto fumare appollaiati sulle scrivanie.

    Il collega con il quale dividevo l’ufficio era davanti al computer, seduto diritto, sguardo fisso sullo schermo e mento rivolto verso l’alto. Era Antonio detto Tonino, un cinquantenne che aveva dedicato la sua esistenza al lavoro e alla sua personale interpretazione dello stesso. Non si era mai sposato, nessun figlio. Nessuna compagna stabile. Aveva girato l’Italia, lavorando con diversi incarichi. Da qualche anno era in quel reparto, e ci stava comodo. Seguire le indagini, per uno scapolone come lui, era facile: orari interminabili, una giusta mole di lavoro, la possibilità di avere quasi sempre qualche collega con cui dividere i suoi pasti solitari. E a cui raccontare le sue esperienze. In quei mesi di convivenza lavorativa ne avevo sentite una decina, reiterate e raccontate a ripetizione con coerenza, e non carenza, di particolari.

    Tonino non era una cattiva persona, ma bisogna fare una precisazione a riguardo. O meglio, bisogna precisare la sua collocazione all’interno della struttura. All’interno del branco.

    Branco: gruppo di mammiferi della stessa specie che si riunisce spontaneamente condividendo un comportamento omogeneo pur con compiti sostanzialmente diversi. Verticistico, chiuso, imperativamente ordinato da regole in continua evoluzione e da pareri sempre variabili, connessi strettamente al parere del capo branco, del cane Alfa.

    Il cane Alfa non ricopriva la figura del capo ufficiale. L’amministrazione non gli aveva dato i gradi del capo, l’ufficio del capo, le responsabilità del capo, lo stipendio del capo. L’amministrazione gli aveva dato una opportunità, quella di vendere sé stesso, o forse di pubblicizzare sé stesso. E a un certo punto, il gruppo di uomini era diventato un branco. Che tacitamente, solo a volte esplicitamente, seguiva una linea tracciata dalle pisciate del cane Alfa: Roberto.

    Da quello che avevo capito Roberto aveva si una lunga storia dettata dalla sua egemonia e dalla sua truffaldina astuzia, ma sembrava che in passato, oltre alle chiacchiere, avesse dato reale dimostrazione della sua bravura. Quando era arrivato presso quel reparto, ormai molti anni prima, si era scontrato con solerzia con tutti gli altri lupi, uno alla volta. Aveva vinto? Aveva perso? Non era importante. L’effetto era stato assimilato dal branco nel lungo periodo. Dal mio arrivo avevo a poco a poco appreso come a dettare le regole nel nostro branco fosse lui. Poco importava se la scritta comandante fosse affissa fuori dall’ufficio di Tamburini.

    Il detto dice che nel paese dei ciechi, il ciclope è re. Ma le cose non vanno esattamente così, non sempre.

    Il branco presente era eterogeneo, composto da un’amalgama di persone intelligenti e capaci, che tuttavia esternavano il lato peggiore del proprio carattere per poter sopravvivere in maniera simil-dignitosa all’interno del gruppo. Perché? Perché la prima legge del branco è che a comandare è il più forte, e che ogni elemento può e deve mettere in discussione gli altri elementi servendosi di questo aspetto. Il branco è fedele a sé stesso ma i suoi elementi, in maniera viscerale, sono in continua competizione.

    Gli umani, a differenza dei lupi, hanno acuito svariate maniere per affrontare gli altri.

    La più arcaica, e poco in uso tra i bipedi istruiti, è quella di affrontare l’avversario direttamente. Dirgli in faccia quello che si pensa. Sempre, senza mezzi termini. Anche davanti a tutti. Vince il più duro, ma soprattutto quello che ha più onore.

    L’evoluzione cinica è destabilizzare l’avversario. Decantare con il mondo le proprie doti, sminuendo a ogni occasione l’altro, puntualizzando e narrando a tutti i suoi errori, ovviamente ingigantendoli. Ridurre la sua stima e l’idea che gli altri hanno di lui. Cercare di alzare la considerazione che gli altri hanno del protagonista.

    L’evoluzione povera è quella dettata dall’orgoglio. Fingere di essere umili e disponibili con ogni persona. Compreso con l’avversario. Poi, con tutti, comportarsi come già detto. Puntualizzare e raccontare a tutti i suoi errori. Aggiungendo però dettagli privati, anche delicati, biechi. Oltre a ciò, proporre a quelli che si fanno prendere dalla storia di arrivare a un’esclusione mirata, fingendo che sia giusto.

    Altre figure ricorrenti sono il lecchino e il falso indifferente, che parla poco, si astiene dal dare giudizi ma finisce condizionato dalle chiacchiere degli altri o, ancora peggio, temendo di venire a sua volta escluso si adatta alla situazione.

    Sembra che la società lo chiami mobbing. Ma in un contesto come quello in cui lavoravo con quegli uomini, ciò non poteva esistere. Perché prima di essere diventati parte di un branco, eravamo tutti diventati dei lupi. Quello che facevamo, che dovevamo fare, era nettamente diverso da quanto un uomo medio avrebbe fatto in tutti i suoi giorni da lavoratore.

    Quando il branco attacca, opera, le cazzate scompaiono. Emergono denti affilati e artigli precisi. Gente con le palle che fa quello che deve fare in maniera solerte, disposti tutti a farsi male, anche a rimanerci, pur di arrivare all’obiettivo. Perché ai rischi ci si pensa prima, ma una volta accettati si va fino in fondo.

    Tonino era un falso indifferente. Inutile dire che, quale ultimo arrivato, il lupo da escludere ero proprio io.

    Non era sempre stato così. Appena giunto ero stato accolto in maniera cordiale e amichevole da tutti e, senza nemmeno accorgermene, ero entrato a far parte del branco velocemente. La cosa fondamentale, che purtroppo non avevo capito, era come nell’armonia del branco nessuna variazione fosse tollerabile, nessuna disapprovazione, nessuna ideologia contraria. Ogni minimo cenno di andare contro corrente era intollerabile. E il problema stava proprio qui: non accorgendomi di essere entrato a far parte del branco non ne avevo compreso le leggi, né le pene previste per la violazione delle stesse.

    Così, un giorno, chi mi era sembrato più amico, aveva cominciato a farmi delle osservazioni, dicendomi che avrei dovuto imparare bene alcune cose, che dovevo guardare gli altri e assimilare. Ma nella mia assenza di malizia, da giovane sbirro, non avevo capito che era un modo velato per invitarmi a fare come volevano gli altri adattandomi ai loro segnali. Avevo pensato fosse solo un consiglio, e tutto sommato penso di averlo anche seguito. Ma non fu sufficiente, perché essendo una persona abbastanza intelligente, seppur poco gestibile, ero entrato nel giro delle competitive osservazioni da branco.

    Il lecchino aveva cominciato a parlare di me al capo, quello vero, e a dipingermi negativamente con gli altri, in continuazione. Gli altri, seguendo la scia, rincaravano giornalmente la dose.

    Da lì era andato tutto a puttane. Denti stretti e tensioni continue. Non me ne accorsi nemmeno, ma in breve diventai l’elemento fuori posto. Il bersaglio della silenziosa guerra fredda.

    Qualche mese era trascorso così, e da persona sensibile ero scivolato in un’esasperazione che, scontro dopo scontro, era andata amplificandosi. A quel punto, nonostante la mia razionalità, avevo iniziato a ripararmi nel mio orgoglio, riempiendo la mia mente di intenzioni belligeranti, affilando giorno dopo giorno la mia stessa natura. Non volevo diventare il cane Alfa. Volevo essere un lupo solitario, ma prima volevo mangiare tutti gli altri lupi.

    I giorni erano passati in un continuo logorio. Ma ero un duro, andavo avanti. Anche se in quel posto mi ci avevano sbattuto dovevo trovare il modo di uscirne vincitore. Soprattutto perché in quel momento non c’era la minima possibilità di cambiare aria.

    Fulvio Negri, l’escluso.

    A nessuno sembrava piacere quello che facevo. E se non facevo nulla tutti erano pronti a osservare come mi fossi astenuto dal fare qualcosa.

    Puoi fare come preferisci, tanto rimarrai fuori dal giro: era per me un assunto indelebile, un pensiero ricorrente. Momenti in cui mi chiedevo se c’ero mai entrato nel giro. Mai entrato in cosa poi? A fare parte di cosa? Cosa c’era, cosa esisteva lì? Domande ne avevo parecchie. Ma nessuno mi avrebbe risposto.

    Umilmente stremato da me stesso e dai miei pensieri mi facevo forza, vedendo come i colleghi tra loro non si volessero bene, come per loro non vi fosse niente oltre a quel branco che credevano necessario per essere produttivi. Ero fuori dal giro, dal giro di gente che mentiva pur di apparire politicamente corretta. Gente con una collezione di facce da sfoggiare a seconda dell’esigenza.

    Eppure c’era molto da imparare. Perché, anche se umanamente erano terribili e cinici, nel lavoro ci sapevano fare. Nessuna disattenzione, nessuna forzatura. Tutto era ben fatto e seguito fino in fondo.

    Era una giornata come tante altre, in cui avrei sorriso e parlato con tutti. In cui avrei fatto il mio lavoro esponendolo tacitamente al giudizio degli altri.

    Era compreso da tutti che non volevo appartenere al loro branco e nell’aria c’erano dei cambiamenti inevitabili: ancora non lo sapevo ma, con la mia personalità e il mio carattere distruttivo, avevo destabilizzato il normale andamento delle cose.

    a uno a uno, quella mattina, erano arrivati tutti. Il capo ci chiamò in ufficio per una breve riunione: era in corso un’attività di indagine sui furti in abitazione.

    Quel giorno ero in coppia con Alessio, un ragazzo molto giovane e sveglio, simpatico e chiacchierone. Purtroppo, oltre a queste doti, nella parabola dei talenti questo collega sarebbe stato notato per la lingua lunga e l’arte adulatoria. Il lecchino. Un breve summit, qualche accordo sui compiti da svolgere. Manette, manganello, e in marcia. Verso gli obiettivi della giornata.

    Fare lo sbirro non è esattamente come si vede nei film, forse solo in parte. Nei film trascurano la parte in cui si va in bagno, in cui si chiama l’idraulico per la caldaia da certificare. In cui ci si lamenta delle tasse o della benzina che aumenta.

    Quella mattina avevamo parlato per cinque minuti del programma della giornata. Per sette minuti dell’ultimo ennesimo scandalo di inciucio tra politico e mignotta. Per quattro minuti dell’ultimo calciatore acquistato dal Milan. Solo dopo aver accettato unanimemente la decisione della società di calcio eravamo partiti. Anche in questo ero l’escluso, visto che di gossip e di calcio non me ne importava assolutamente nulla.

    Tre

    Un’indagine è simile a una ricerca, di quelle che si facevano alle medie usando l’enciclopedia Conoscere, venduta come mezza inculata da una specie di rappresentante porta a porta e costata mezzo milione di Lire. Solo che, per un’indagine, oltre a leggere il prezioso volume bisogna andare a verificare come stiano realmente le cose.

    Vi sono fasi ben precise che, a livello teorico, vanno rispettate e seguite. Queste fasi sono scritte nei libri studiati dagli appartenenti alle forze di polizia. Sono scritte nei libri sui serial killer americani. Narrate nei manuali di criminologia. Descritte nelle trasmissioni del cazzo sui drammatici casi di cronaca.

    La realtà è un po’ diversa.

    Per dirla in breve, o meglio, per dare una iniziale idea di ciò che è un’indagine bisogna partire con poche parole.

    Accade un fatto che prevede una violazione di una norma, più o meno grave. Dal furto di una bicicletta all’omicidio. Qualcuno denuncia il fatto, o comunque ne mette al corrente una delle forze di polizia. Raccolta l’informazione, in base alla gravità della cosa, verrà iniziato un lavoro mirato a scoprire i responsabili dell’atto. Come? Il responsabile dell’attività di polizia giudiziaria, l’ispettore, il maresciallo, l’investigatore, inizierà una valutazione degli elementi raccolti, informando l’autorità giudiziaria sull’accaduto e su quanto scoperto. Se vi hanno rubato una bicicletta la cosa avrà un’attenzione certa, ma certamente inferiore a quella che verrebbe posta nel caso vi avessero sgozzato, depezzato e sparso davanti una scuola elementare. Se vi rubano la bicicletta in un paese di settecento abitanti, qualcuno potrebbe venire scoperto e indagato. Se ve la rubano a Roma, o a Milano, o a Napoli, probabilmente no. Questo per premettere che nessuno potrebbe dedicare settimane, mesi, anni a indagare sul furto di una bicicletta, facendolo invece per un brutale assassinio. In quel caso si mettono sotto i telefoni, si assoldano tecnici e medici. Raccolte delle prove in merito e raggiunta l’identificazione del colpevole gli investigatori inviano il tutto alla magistratura che, una volta valutata questa specie di ricerca, emetterà un provvedimento da eseguire, come la carcerazione, l’arresto, o un sacco di altre possibilità previste dai codici in vigore. Solo successivamente l’autorità giudiziaria andrà a giudicare, durante un processo, sulla effettiva colpevolezza degli indagati.

    Così è come, a grandi linee, vanno le cose nel nostro paese. Le considerazioni sull’efficacia, sui tempi e su tutto il considerabile non servono a molto. È così e basta. Il lavoro di chi, giorno dopo giorno, rincorre i cattivi sulle strade dello stivale si limita a quella ricerca. Anche se dire si limita è riduttivo.

    Senza pensare al brutale omicidio ci sono molti altri fenomeni che vengono seguiti, dall’infinito spaccio di droga, alle bande che depredano le abitazioni, le rapine, le estorsioni, la prostituzione. E tutto il resto.

    A quel punto erano una decina di anni che facevo quel lavoro, ma ero approdato nell’universo degli investigatori solo da quattro. Avevo girato mezza Italia, visto molte realtà differenti. Come era consono e abituale per chi fa questo tipo di vita, l’amministrazione sembrava divertirsi a creare delle linee immaginarie tra un punto e un altro della carta geografica Italiana, facendoci scivolare sopra le carriere dei prescelti. Siciliani in Piemonte, Piemontesi in Calabria, Veneti in Sardegna, e così via, nell’immenso gioco probabilistico. Dopo circa otto anni di pellegrinaggi ero riuscito a ritornare nei paraggi di casa, a poche decine di chilometri, come un guerriero rientrato dopo anni di avventure e disavventure. Ero estremamente soddisfatto di essere riuscito a riavvicinarmi alla mia famiglia, ai miei affetti e alle mie origini.

    Ma c’è sempre un ma.

    Un anno dopo mi ero trovato a guardarmi allo specchio, pensando di aver combinato un bel guaio. Sapendo di aver combinato un bel guaio. Una di quelle cose assurde, dubbiosamente certe. E quel giorno stesso l’amministrazione mi aveva mandato una bella lettera, con scritte le parole trasferimento immediato, seguite dai miei dati e dal luogo di destinazione, dove in quel momento mi trovavo. C’era scritto Fulvio Negri, vai a rompere il cazzo da un’altra parte. Almeno, era questo che avevo letto in quella lettera. Quelle righe, ridotte a un ricordo sbiadito, non erano il motivo dell’ennesimo spostamento.

    Ero io il motivo dell’ennesimo spostamento. Io e il mio carattere. Io e la mia incapacità di regolarmi.

    In macchina, con Alessio, parlavamo di una marea di cazzate. In un turno normale, che doveva essere di sei ore ma che normalmente si prolungava sempre, Alessio era in grado di commentare il comportamento di tutti i restanti membri del reparto, intercalando l’analisi del soggetto in questione dicendo che all’inizio non ci aveva fatto caso ma che… seguito da qualcosa di deprecabile. Un gioco bambinesco. Se Alessio avesse sprecato metà della capacità osservativa per farsi i cazzi suoi e lavorare sarebbe stato il numero uno.

    Silenzioso guardavo fuori dal finestrino del mio lato, trattenendomi dall’esternare i miei pensieri, certo che sarebbero stati velocemente resi di pubblico dominio. La pistola mi spaccava il fianco, compressa tra le maniglie dell’amore e la sponda avvolgente del sedile. Nella mano sinistra tenevo la radio, che gracchiava in continuazione. Con la destra appuntavo, in un corsivo incomprensibile, quanto necessario per il previsto resoconto.

    Tra i capi-equipaggio le comunicazioni erano costanti:

    – Vettura bersaglio in arrivo da via Verdi direzione centro città. Due soggetti.

    – Vettura ferma.

    – Siamo troppo scoperti, avanti un altro equipaggio al prossimo bivio.

    – Equipaggio due ha agganciato. Segue direzione Viale Garibaldi. Due vetture più bersaglio.

    E così via, a volte per ore. Che si ripetevano nei giorni, nelle settimane e, nelle indagini più complesse, nei mesi. Stavamo pedinando la macchina pulita con l’intenzione di scovare quella con cui facevano i furti. Si trattava di una BMW molto potente con cui, già in una occasione, erano riusciti a sfuggire a Carabinieri e Polizia. Del resto a quei ragazzacci non importava un granché: passavano da un comune all’altro, una zona residenziale dopo l’altra. Appena vedevano un’abitazione accessibile si avvicinavano, uno rimaneva in macchina spostandosi nelle vicinanze per non dare nell’occhio, gli altri tre sfondavano un vetro ed entravano. Qualche istante dopo ne uscivano e velocemente si davano alla fuga, diretti verso un altro caseggiato da violentare. Avanti così, per ore, solitamente nei tardi pomeriggi autunnali e invernali, approfittando dell’assenza delle persone in casa e del buio precoce.

    Tutti quelli che hanno provato un’esperienza di questo tipo sanno quanto possa dare fastidio, quanto possa turbare la serenità personale. Ne avevo vista di gente derubata, affranta più dall’idea di aver avuto la visita che dall’ammanco subito.

    Questa banda era forte. Si trattava di cinque ragazzi, poco più che ventenni, di origine albanese. Erano mesi che ci davano dentro e non erano mai stati beccati. Certo, qualche cazzata l’avevano fatta anche loro, qualche traccia in giro era rimasta, assi nella manica degli investigatori da gettare nel tavolo da gioco a fine partita, una volta arrestati. Oltre a questo c’erano le chiacchiere, le confidenze che altri criminali o gente con contatti nell’ambito criminale lasciava andare all’udito di qualche sbirro.

    Dopo quasi un mese di indagini eravamo riusciti a individuare le abitazioni dove vivevano e la cascina utilizzata come deposito per parte della refurtiva. Inoltre, intercettando le telefonate, avevamo capito a chi vendevano il materiale rubato, il ricettatore, e il compro-oro a cui mollavano collane e bracciali. Infine avevamo compreso come gli stessi cinque interpretassero la loro esistenza in maniera assolutamente imprenditoriale, trafficando modiche quantità di eroina e cocaina, sebbene sembrava consumassero più roba di quella che vendevano.

    Dei grandi furboni.

    Durante l’ultima settimana era stato possibile seguirli nelle loro visite a domicilio e comprendere al meglio il loro modus operandi, ove con questo termine si intendono tutte le operazioni poste in essere dai malviventi per portare a termine l’azione criminosa. Una persona normale si chiederebbe perché, avendoli visti in azione, non si è sventato il furto in atto permettendo invece a quei maledetti di fare i loro comodi. Si, si dovrebbe fare così. Ma dopo aver appurato che, oltre ai furti, vi erano altri reati perseguibili, era auspicabile prendere due piccioni con una fava, anzi, cinque piccioni con una fava. Dopo di loro, sarebbero finiti nella rete i fornitori degli stupefacenti, il ricettatore e il gestore del compro-oro, tutti soggetti sotto controllo. Mancava poco. Tutti speravamo mancasse poco. Eppure tutti sapevamo che il mondo non sarebbe cambiato, che dopo di loro ce ne sarebbero stati altri. E altri ancora.

    Di certo si sarebbero sempre dovuti battere con noi.

    La gente lavora dalla mattina alla sera, rientra a casa giusto per una cena sfigata e per dormire, per prepararsi ad affrontare un’altra giornata di lavoro. I tempi agresti in cui a casa c’era sempre qualcuno, i tempi delle famiglie allargate, sembrano essere finiti da un pezzo. L’era attuale decreta che tutto debba essere ridotto e minimale, proporzionale, ecologico. Un figlio solo, allevato dai nonni. I genitori a lavorare a manetta, per pagare la televisione da cinquanta pollici, grande quanto un’intera parete dell’appartamentino che ogni mese porta via metà degli introiti della famiglia. Per pagare la macchina station wagon diesel. I vestiti firmati ma non troppo. Le vacanze.

    La gente lavora dalla mattina alla sera. E alla sera rientra e scopre che qualche bastardo gli è entrato in casa. L’oro, quel poco che c’era, è sparito. La televisione anche. Lo stereo, il tablet nuovo, il computer. Hanno lasciato solo le bollette, i bastardi. Una telefonata a Polizia o Carabinieri, che arrivano e danno un’occhiata veloce e se ne vanno, dopo aver spiegato in che modo fare denuncia. Dopo aver detto che nella stessa sera hanno passato un’altra decina di case e non sanno nemmeno loro da che parte prendere.

    La gente lavora dalla mattina alla sera, e si incazza. Non sa che a quella banda non interessa nulla di tutto ciò. A quei giovanotti agili che si sentono padroni del mondo. Sono convinti di diventare dei pezzi grossi, dei delinquenti da temere. Tuttavia, a differenza della malavita che abbiamo esportato dal bel paese, fanno fatica a diventare grandi. La televisione e tutto il resto lo rivenderanno subito, e la sera dopo daranno tregua all’area residenziale, impegnati a sputtanarsi ciò che hanno intascato spendendolo sui video-poker, in cocaina o accompagnandosi a donne gestite da qualche magnaccia che conoscono. La mattina seguente, ancora ubriachi, si guarderanno in tasca, e dei soldi che avevano fatto non sarà rimasto niente. Mentre rincaseranno per andare a dormire la gente andrà a lavorare. Perché il resto della gente lavora dalla mattina alla sera.

    Quattro

    Trascorsa una giornata di caccia essere a casa era un sollievo. Da solo, con davanti un piatto prefabbricato da supermercato, uno di quelli che bastano pochi minuti nel microonde. Un piatto adatto alla gente in carriera, a quelli incapaci di far da mangiare, adatto anche agli sbirri.

    A volte mi guardavo allo specchio incazzato. Non volevo vedere se fossi bello o brutto, volevo solo guardarmi negli occhi e affrontarmi, obbligarmi a ragionare. Mi sentivo inopportuno, incastrato in una situazione di squilibrio irreversibile. L’ultimo anno mi aveva indurito, incattivito, come un lupo in gabbia. Era successo tutto in fretta, senza che potessi nemmeno dire la mia. Anche se forse avevo poco da dire.

    Nel processo cognitivo però, dopo un’iniziale fase in cui avevo passato il mio tempo a bestemmiare, ero riuscito a dedicarmi a un’esplorazione profonda del mio essere. Si sa, certe cose si riesce a farle solo quando si sta male, quando si è al limite.

    Quando si gratta il fondo.

    Grattavo il fondo da un anno, o almeno pensavo che lo stridio dei miei pensieri fosse quel tanto decantato fondo del barile. Il lavoro, che era sempre stato fonte di orgoglio e di impegno, aveva mostrato la sua facciata intransigente e cruda. Perché la vita non è il proprio lavoro, nemmeno per uno sbirro. Soprattutto per uno sbirro, che per fare bene quello che fa generalmente invecchia da solo, dopo un divorzio e un sacco di rospi ingoiati, dopo anni buttati a inseguire i peggiori bastardi. Inutilmente, visto che spesso di tutto il lavoro fatto non frega granché a nessuno. Almeno un cazzo di divorzio lo avevo evitato.

    Mi ero svegliato una mattina, sudato, immerso in uno strano senso di inadeguatezza. Avvolto nell’esclusione e nel fegato grosso che mi ero fatto. Mi ero chiesto spesso se non fossi proprio io, in fondo, la causa di quella situazione, ma nulla mi faceva propendere verso questa possibilità.

    Quella famosa mattina mi ero accorto di non riconoscermi, di avere perso la gioia di vivere che mi aveva sempre contraddistinto. La gioia che avevo provato nei primi anni di carriera, quando ero ansioso di alzarmi e indossare la divisa.

    Mi guardavo allo specchio, mentre le domande mi scivolavano in faccia come l’acqua su una foglia. Quando avevo perso il contatto con me stesso? Quando avevo smesso di sognare? Ero cresciuto convinto che sarebbe andata come in Miami Vice, come in Starsky ed Hutch, con un collega solerte e fidato che non mi avrebbe mollato mai, con cui condividere giornate interminabili di lavoro e di divertimento. E invece mi trovavo a dover stare attento a come parlavo, a come agivo. Sempre sotto osservazione.

    Ero lì, solo a tavola, a guardare distrattamente la televisione, con il filetto di merluzzo impanato e le crocchette di patate che sparivano ingurgitate da un nervoso appetito. Nella testa i pensieri frullavano contorti. Strascichi della giornata lavorativa con relativi sapori e dissapori, le spese infami da affrontare e qualche donna.

    Già, le donne.

    Volente o nolente, ero uno sbirro single abbandonato a sé stesso. Pensai distrattamente al sesso, in particolare al fatto che era passata qualche settimana dall’ultima volta. Ero stato inghiottito dall’indagine, trascurando completamente i rapporti umani.

    Quali rapporti umani poi? Testimonianze cogenti del degrado sociale, dove era plausibile conoscere le persone sui social network, ma dove dal vivo tutti si facevano i cazzi propri. Dove attaccare bottone era una prassi sconveniente e obsoleta, da pervertiti, che se un ragazzo chiedeva a una ragazza di conoscersi si beccava un ceffone, una spruzzata di spray urticante negli occhi, ginocchiata nelle palle e denuncia per molestie. Picchi di individualismo mai visti, tutta gente seria e cupa, immersa negli aperitivi, nei digestivi e nelle serate esclusive dei locali di tendenza, incatenati a una vita schematizzata dagli orari di lavoro standard, dalla moda, dai saldi e dalle mille abitudini dettate dalla massa.

    Fortunatamente la vita mi aveva concesso carisma, forse anche fascino, e venivo spesso notato dalle donne con cui avevo occasione di relazionarmi. Il mio unico limite era l’integrità, che mi faceva apparire sempre ermetico e disinteressato: in realtà di interesse ne avevo sempre, ma l’orgoglio frenava con decisione la mia brama, trattenendomi dall’espormi e mettermi in gioco, abituato alle numerose volte in cui non era stato necessario fare la prima mossa, o alle volte in cui facendola mi ero beccato un due di picche.

    Le cose erano cambiate negli ultimi tempi. Per prima cosa ero stato ficcato in un contesto in

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