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Zetafobia
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Zetafobia

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Zombie - romanzo (280 pagine) - Non è il sud degli Stati Uniti, non è il Messico: è la provincia di Torino. L'apocalisse zombie questa volta è proprio sotto casa sua


I furti negli appartamenti. La crisi economica. La scarsa affidabilità dei conti bancari. E ora anche una nuova epidemia: lui ribatte colpo su colpo, cercando di proteggere sé stesso e la sua famiglia come può. Ormai vive dentro un bunker, ha armi e provviste per resistere anche a lungo. Lo definirebbero un fanatico, forse anche uno psicopatico.

Ma quando viene il momento, quando la nuova epidemia si rivela qualcosa di molto più grave di quanto si pensasse, lui è l'unico davvero pronto. E anche così vede i sorci verdi. Perché sembra facile quando l'apocalisse zombie la vedi in un film, nelle grandi pianure degli Stati Uniti. Ma quando ce l'hai in casa, alla periferia di Torino, ti accorgi che sono mille le cose che possono andare storte.


Gualtiero Ferrari nasce a Torino nel 1970. Sposato, con un figlio quattordicenne, cresce e vive in questa splendida città, salvo trasferirsi alcuni anni all’estero, per motivi di studio e di lavoro. Parla fluentemente l’inglese, il francese e quel minimo di tedesco necessario a ordinare del cibo caldo e una birra fresca. Di formazione economico-scientifica, più che umanistica, si è avvicinato alla lettura nel corso dell’adolescenza e si è rifugiato nella scrittura, ormai adulto, durante un difficile periodo personale. Attualmente lavora presso un’azienda di meccanica di precisione, Zetafobia è il suo primo romanzo.

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateApr 17, 2018
ISBN9788825405637
Zetafobia

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    Zetafobia - Gualtiero Ferrari

    romanzo.

    Prologo

    – Uccidimi! – ringhia.

    Esito.

    – Spara, coglione! – insiste.

    Lo stomaco brucia, quasi avessi bevuto l’acido esausto della batteria di un camion.

    Il conato è così fulmineo che a stento ributto la bile in gola.

    Non sono un assassino a sangue freddo, penso puntandogli la Beretta M9 dritta in faccia.

    Mi toglie dall’imbarazzo: snuda i denti e attacca.

    Sono troppo lento, oppure è lui troppo veloce.

    Sia quel che sia, non ho il tempo di reagire.

    Le zanne affondano nella carne, sino all’osso.

    Urlo, ma dalla bocca esce un rantolo soffocato.

    Mi sveglio, sudato fradicio, e apro gli occhi accanto a mia moglie.

    Lei dorme tranquilla, mentre io sto tremando come una foglia.

    Scivolo fuori dal tepore del piumone e vado a pisciare col cuore che martella nel petto.

    Sento i passi di mio figlio correre in corridoio, quello che separa le nostre stanze.

    Nel silenzio della notte i rumori del mio incubo devono averlo svegliato.

    Un borbottio infastidito mi avverte che s’è infilato nel lettone; qualche istante dopo lo raggiungo.

    Sotto le coperte percepisco qualcosa di denso, viscido e caldo.

    Un forte odore metallico mi invade le narici.

    Ma che cazzo?!

    Accendo la luce, e incredulo, guardo la mia mano ricoperta di sangue.

    I due mostri, che una volta erano la mia famiglia, mi si scagliano addosso.

    D’istinto scatto all’indietro, sbattendo il cranio contro la testiera del letto.

    Questa volta il dolore mi sveglia davvero.

    Venerdì 13 febbraio 06:49

    L’immagine riflessa nello specchio è un vero schifo.

    Fatico a riconoscermi, eppure convivo con me stesso da quando sono nato: dovrei sapere come sono fatto.

    Quello lì sono davvero io?

    I capelli arruffati. La barba incolta. Le occhiaie, scure e profonde, mettono in risalto il viso gonfio, quasi deforme.

    Fossi mia moglie, non avrei sposato un uomo brutto come me.

    Grazie a Dio non sono lei, non riuscirei a sopportarmi.

    La bocca impastata stimola le papille gustative inviando al mio povero cervello, ancora addormentato, un saporaccio che ricorda il mix esplosivo di colatura d’alici e cioccolato fondente. In una parola: disgustoso.

    Il catarro, che durante la notte ha sedimentato nei polmoni e nelle cavità nasali, ostruendole, mi obbliga a respirare a fatica. Devo dar retta a mio figlio e considerare l’idea di smettere di fumare.

    Esamino le mensole alla ricerca d’un fazzolettino, che non trovo.

    Sono costretto a ripiegare su qualche strappo di carta igienica.

    Soffio il naso una, due, tre volte. Poi, come ogni maschio degno di questo nome, controllo il risultato dei miei sforzi.

    Con un ultimo colpo di tosse, libero l’apparato respiratorio dal muco, sputandone un grumo verde nel lavandino.

    Faccio quasi ribrezzo. Solo quasi, però.

    Lo sapevo che non dovevo guardare quel maledetto film, penso accendendo la prima d’una lunga serie di sigarette.

    Sin da bambino, quando lo vidi per la prima volta, ne rimasi traumatizzato.

    Dovetti dormire per settimane nel lettone con i miei genitori. Poi, altre ancora, in una branda di fortuna accanto a loro. Occorsero mesi per riprendermi abbastanza da non immaginare più quei mostri cannibali, nascosti tra le ombre della cameretta.

    Chi gliel’ha fatto fare a George Romero di girare Zombi?

    E chi l’ha fatto fare, a me, di rivederlo dopo trent’anni?

    Certo, adesso sono adulto, ma il terrore dell’infanzia è ancora scolpito, indelebile, nella mia mente.

    Il solo pensiero mi provoca ansia; come se ne avessi bisogno.

    – È un classico del genere horror – aveva dichiarato un collega davanti alla macchinetta del caffè.

    – Smettila – era intervenuto un altro, anche lui in pausa – È un filmetto da guardare la notte di Halloween.

    Alla fine, ci sono cascato, e questi sono i risultati: una notte in bianco, smembrata tra incubi e insonnia.

    Proprio non li tollero gli zombie.

    Terminate le abluzioni mattutine mi vesto, giusto per scoprire che i pantaloni si sono ristretti per l’ennesima volta. Non prendo nemmeno in considerazione l’ipotesi di essere ingrassato, perciò decido d’inviare una colorita lettera di reclamo ai produttori del capo di vestiario.

    Attraversata la porta del bagno, l’idea della lamentela viene sostituita da un’inoppugnabile verità: sono un rottame umano.

    Sceso in garage, salgo in macchina e appena illumino il cruscotto mi accorgo di essere in riserva.

    Degno inizio di una giornata, che, ne sono certo, sarà schifosa come le precedenti.

    Che ci posso fare? A ognuno la sua croce: io sono diversamente-ottimista.

    Il display digitale m’informa della data odierna, ammonendomi che domani sarà San Valentino.

    Prendo l’appunto mentale di portare Lucrezia, mia moglie, fuori a cena.

    Mi conosco e so che non me lo ricorderò, così memorizzo una nota sul cellulare e imposto il promemoria automatico per stare tranquillo. Decideremo insieme se portare anche Sebastiano, nostro figlio undicenne, oppure preferire una cenetta romantica.

    Risvegli difficili a parte, devo ammetterlo, sono un uomo fortunato.

    Ho una splendida famiglia, un buon lavoro, e sono in discreta forma fisica. Sulla salute mentale invece, ci sarebbe parecchio da discutere.

    Esco dalla rimessa in retromarcia, attento a non urtare i lati in cemento della rampa d’uscita. Sintonizzo la radio sul notiziario mattutino, così da essere informato sulle ultime notizie prima di arrivare in ufficio, pronto ad affrontare un’altra giornata di duro lavoro.

    Allontanandomi da casa, scorgo dei nuovi cartelli VENDESI su immobili che ieri ne erano privi. Grazie al cielo ho estinto il mutuo l’anno scorso, altrimenti sarebbero stati dolori per le finanze familiari, e con ogni probabilità, un annuncio simile farebbe sfoggio di sé anche sul nostro portoncino d’ingresso.

    Alla faccia dei cliché sulla media borghesia, abitiamo in una graziosa villetta d’un paesello un tempo rurale, nella prima cintura a nord-est di Torino, non distanti dall’autostrada che collega la città a Milano. Avendo acquistato il fabbricato giusto prima dell’inizio della bolla immobiliare, il prezzo era ragionevole, e nel giro di pochissimi anni, il valore è raddoppiato. O, per meglio dire, era raddoppiato. Oggi non si acquista più nulla che non sia indispensabile.

    Lungo il tragitto passo di fronte a diverse abitazioni, che, di recente, sono state bersaglio di furti in appartamento. Alcuni compiuti addirittura durante le ore diurne. Il protrarsi nel tempo di tali reati, ha alimentato non poco la mia ansia, soprattutto quando mi trovavo all’estero per lavoro, e lasciavo moglie e figlio soli per qualche giorno. Di recente ho ritrovato la tranquillità, dotando l’abitazione di un moderno sistema d’allarme, oltre a una serie di barriere fisiche degne di Fort Knox.

    Ora che la sicurezza domestica non mi turba più, un nuovo tarlo sta iniziando a farsi strada, subdolo e insistente.

    Sono trascorsi diversi mesi dal fallimento della Lehman Brothers’, e invece di migliorare, la situazione mondiale sembra peggiorare col trascorrere delle settimane. L’azienda per cui lavoro come dirigente, con funzioni di progettista tecnico-commerciale, non è un’eccezione, ma ci stiamo difendendo con le unghie e con i denti.

    L’esplosione della crisi dei mutui sub-prime ha causato il fallimento di numerose banche Americane, seguite a ruota da diversi altri Istituti Europei. Non sono un esperto d’alta finanza, anche se mi piacerebbe sapere cosa c’è di così finanziariamente elevato nei casini che gli esperti manager bancari sono riusciti a combinare, tuttavia non sono nemmeno stupido, e mi domando cosa succerebbe se il sistema creditizio mondiale implodesse.

    Tutti i nostri risparmi, e non solo quelli, sono numeri sullo schermo di un computer. Dati registrati su un supporto magnetico. Pixel raggruppati secondo la consuetudine corrente, e nulla più. Se, per un qualsiasi motivo, i server dove sono archiviate tali informazioni partissero per le vacanze, l’intero patrimonio digitale lì custodito resterebbe incastrato per chissà quanto tempo.

    Una soluzione potrebbe consistere nel prelevare una grossa somma di denaro contante, così se il mondo andasse in vacca, potrei comprare da mangiare per la mia famiglia.

    Ottima soluzione.

    Ma anche no!

    Senza le banche a garantire la fruibilità delle banconote, chi mai accetterebbe del denaro contante come pagamento?

    Okay, allora ripieghiamo sul piano B: oro fisico in lingotti o monete. È stato la valuta di scambio sin dall’alba dei tempi, e lo sarà sino alla fine della civiltà umana. Ecco la soluzione, semplice ed efficace. Forse.

    Purtroppo, il tarlo bastardo che scava dentro il mio cranio non allenta la presa, e l’ombra del dubbio rimane incollata a qualche neurone.

    L’interruzione pubblicitaria, col suo jingle assurdo e rumoroso, mi riscuote dai miei pensieri, facendomi concentrare sulla voce della giornalista che mi aggiorna sulle ultime novità: – Secondo fonti del Ministero della Sanità un focolaio di H5N1, nota al pubblico come influenza aviaria, sarebbe stato identificato in un piccolo comune nei pressi della capitale. Il virus è caratterizzato da un’alta patogenicità; di norma l’infezione interessa soggetti a diretto contatto con pollame vivo, in condizioni igieniche precarie, o non appropriate.

    Fermo al semaforo non posso evitare di riflettere come le rogne, a volte, ce le andiamo cercare. Nemmeno il tempo di terminare il pensiero, che la conduttrice radiofonica riprende.

    La malattia, ribattezzata da un’autorevole rivista scientifica: Nasty Beast – Brutta Bestia – si presenta con un tasso di mortalità piuttosto elevato, ben oltre il cinquanta percento, circostanza finora mai verificatasi per alcun altro virus aviario noto.

    Lascio scappare un fischio.

    Un tale livello di decessi dev’essere simile a quello dell’influenza spagnola, che, agli inizi del Novecento, fece milioni di vittime in tutta Europa. Considerando i progressi della scienza medica degli ultimi cent’anni questo piccoletto è davvero una gran Brutta Bestia.

    I più eminenti virologi ed epidemiologi mondiali concordano con l’OMS, l'Organizzazione Mondiale della Sanità, ritenendo che, nel caso l’H5N1 dovesse mutare, acquisendo la capacità di replicarsi con successo negli esseri umani, il virus diventerebbe uno dei migliori candidati, se non il miglior candidato in assoluto, per una nuova pandemia influenzale nell’arco di tre, cinque anni.

    La parola pandemia mi rimbomba nella testa generando un focolaio d’ansia: come ci si difende dal contagio?

    Il Ministero della Sanità tiene a precisare che sono state ultimate le procedure preliminari per l’acquisto dei vaccini necessari a una profilassi su scala nazionale – termina placida la giornalista.

    Raggiunta la ditta dove lavoro, apro il cancello, entro nel cortile e posteggio.

    Evito l’ingresso principale, preferendo a quest’ultimo un’uscita secondaria vicino a dove ho parcheggiato. Salgo le scale interne sino a raggiungere il mio ufficio, accendo il computer, dopodiché mi dirigo all’Area Relax per il caffè mattutino. Sorseggio il liquido scuro, caldo e aromatico, leggendo le prime pagine dei quotidiani sul cellulare.

    Anche oggi l’OCSE ha rivisto al ribasso il PIL mondiale. Le Borse internazionali hanno fatto l’ennesimo tonfo. Due Banche sono fallite, nonostante avessero passato gli stress-test solo poche settimane fa, e un attentato ha causato diversi morti in una zona di guerra di cui nessuno ricorda il nome.

    Nuovi focolai di H5N1, l’influenza aviaria, compaiono in Italia. Ingrandisco il trafiletto e leggo il pezzo per intero. In sostanza l’articolo ripercorre quanto avevo già appreso in radio, venendo in ufficio. L’unica nota aggiuntiva è che i focolai sono una decina, distribuiti lungo tutta la penisola.

    Come da copione, i Ministri dei vari paesi colpiti, minimizzano il problema, promettendo massicci investimenti di denaro pubblico per l’acquisto dei medicinali necessari, ovvero pacchi di soldi alle multinazionali del farmaco, e fondi neri ai politici compiacenti.

    Inutile nascondersi dietro un dito: tutto il mondo è paese.

    Mi domando se sia il caso di comperare delle azioni del segmento farmaceutico; ma, sentendomi un bastardo, cancello l’idea di lucrare sulla pelle della gente, e mi metto al lavoro.

    Prima tappa della giornata: il laboratorio metallografico dov’è appena stata consegnata la nuova stampante 3D con tecnologia DMLS, Direct Metal Laser Sintering, ovvero un macchinario laser per la sinterizzazione diretta dei metalli. Questo gioiellino permette di costruire oggetti tridimensionali, utilizzando come materia prima della finissima polvere metallica.

    Il pregio di questa tecnologia è che consente di creare strati di materiale nell’ordine dei 20 micron: 0,02 millimetri di spessore. Una vera bellezza. Non vedo l’ora di poter iniziare a progettare componenti meccanici, per poi vederli costruiti sotto i miei occhi nel giro di qualche minuto.

    Recupero il manuale delle istruzioni, un tomo da settecentocinquanta pagine, e il disco d’installazione dei driver, completo del firmware necessario all’utilizzo. Da poco ho installato il Remote Desktop, in modo da potermi collegare al computer aziendale da ogni apparecchio elettronico che possiedo, cellulare compreso. Così, se nel cuore della notte avessi voglia di creare qualche nuovo prodotto, posso farlo ovunque io mi trovi.

    Lo ammetto, per queste cose sono un vero nerd.

    Trascorro le ore successive tra clienti che strillano, ma non pagano, e fornitori che non consegnano, ma che vogliono alzare i prezzi. Nulla di nuovo. Ciononostante, sono felice: ho capito i principi alla base della progettazione tridimensionale, oltre che all’utilizzo del nuovo macchinario.

    La sera torno a casa, stanco, con gli occhi gonfi dal leggere caratteri talmente minuti che avrei voluto usare una lente d’ingrandimento.

    Lungo la strada chiamo mia moglie per sapere se le serve qualcosa. Grazie al cielo declina l’offerta, non avrei sopportato la fermata in un sovraffollato minimarket. Poi, conscio che non otterrò risposta, pongo la domanda di rito, e chiedo cosa vorrebbe mangiare nostro figlio. Non ne ha idea.

    Perfetto. Mi fermo a prendere le sigarette e per cena ci arrangiamo.

    Quindici minuti più tardi arrivo a destinazione.

    La casa dove abitiamo è piuttosto grande, e si sviluppa su tre livelli: l’interrato, suddiviso tra tavernetta e garage con tre comodi posti auto; il pianterreno, dove trascorriamo la maggior parte del tempo; e la mansarda, declassata a deposito di cianfrusaglie ormai da anni. La costruzione è posta al centro dell’ampio giardino, delimitato da un muro di cinta in cemento armato, e sormontato da una recinzione metallica. La fitta siepe, che si snoda lungo tutto il perimetro, garantisce la privacy di cui abbiamo bisogno.

    Il Governo Italiano, di concerto con la Comunità Europea, ha lanciato una campagna di sovvenzioni a fondo perduto per gli impianti domestici che sfruttano fonti d’energia rinnovabile. Grazie al cospicuo bonus fiscale, ho dotato il mio immobile di una caldaia a condensazione collegata a collettori solari, per ridurre al minimo il consumo di gas, e di un impianto fotovoltaico con batterie di accumulo per avere elettricità gratis anche di notte. Considerando il camino a pellet e il pozzo, credo di possedere l’abitazione più ecocompatibile della provincia, se non dell’intera regione.

    Attivato lo scanner dell’iride, apro la porta d’acciaio che divide la rimessa dal corridoio, ed entro in casa. Tolgo il cappotto, sfilo le scarpe e indosso un paio di vecchie e comode pantofole. Proseguo sino in fondo, attraverso il portoncino blindato che accede alla scala, lo richiudo alle mie spalle e salgo.

    Sebastiano mi ha sentito arrivare, e al grido di: – Papà… – mi si getta al collo appena compaio in salone.

    Il mese prossimo compirà undici anni, ed è già piuttosto alto per la sua età. Invidio il suo fisico asciutto, e invidio ancor di più che possa mangiare come un maiale all’ingrasso senza gonfiarsi, come invece capita a me.

    Gli voglio un bene dell’anima, e mi somiglia a tal punto, che fatico a riconoscere le sue foto dalle mie a questa età.

    Entro in cucina dove trovo Lucrezia indaffarata a pulire la piastra dei fornelli. Mi avvicino di soppiatto, e le stampo un bacio sulla guancia, abbracciandola, mentre lei continua imperterrita nell’opera di bonifica. Ammetto di essere un po’ alienato, ma la mia dolce metà ha di certo un disturbo ossessivo-compulsivo ritualizzato alla pulizia di qualsiasi superficie piana, curva o angolare: tutto deve brillare. Sempre.

    Questo modo di essere, seppur parte integrante della sua personalità, si è acutizzato negli ultimi mesi. In particolare da quando ha perso il lavoro, a causa del fallimento dell’azienda nella quale era impiegata in qualità di assistente post-vendita.

    Immagino che il sacro fuoco che le arde dentro, e la spinge a eliminare ogni microscopica particella di sporco, serva a compensare almeno in parte il vuoto dovuto all’eccesso di tempo libero. È sempre stata una donna attiva, dai mille interessi e carica d’un energia contagiosa. Questo suo ridimensionamento personale un po’ mi preoccupa. Vorrei poterla aiutare, ma non saprei come. Di recente, con l’arrivo del nuovo anno, è emerso un lato nascosto del suo carattere: quello dolce e zuccheroso. Sforna una torta dietro l’altra, per la gioia della mia gola, e calvario del mio girovita.

    A guardarci siamo una coppia anomala: io sono alto e robusto, per non dire grasso; mentre lei è di statura media e magra. È una gran bella donna, al contrario mio, che nella migliore delle ipotesi, posso essere definito interessante o affascinante, per chi ha il gusto dell’orrido, ma di certo non bello.

    – Stasera vorrei parlarti dopo che il bambino è andato a letto – annuncio con fare guardingo.

    Lucrezia si gira e con un sorriso sornione domanda: – Sei riuscito a partorire qualche altra idea assurda?.

    Il mio sguardo corre alla sua bocca, dove un dente un po’ storto fa capolino dal labbro superiore. È uno dei suoi segni particolari, un suo tratto distintivo. Lei cerca di nasconderlo quando sorride, ma la realtà è che, nel farlo, quel minuscolo difetto le conferisce un non-so-ché di adorabile.

    Lo riconosco: il suo sorriso imperfetto, eppure caldo e rassicurante, è uno dei motivi per cui mi sono innamorato di lei. Anzi, a dirla tutta, credo sia stato proprio quel dettaglio a far scattare il colpo di fulmine, e conoscerla meglio è servito solo a confermare ciò che il cuore aveva intuito sin dal primo istante.

    – No, in realtà niente di che – mi schernisco – Però pensavo… lascia stare, ne parliamo dopo. Vado a cambiarmi – dico avviandomi verso il bagno.

    – Ti ho lasciato la tuta pulita sul letto, mettiti quella – grida.

    Mio figlio si scolla dalla televisione e si getta all’inseguimento.

    Scene di vita quotidiana.

    Terminata la cena, guardata un po’ di TV, e messo a riposo il piccolo assatanato, possiamo rilassarci sul divano.

    Ho il controllo del telecomando, e salto da un canale all’altro cercando un programma che non sia la replica, della replica, della replica. Tentativo inutile.

    Mia moglie sta usando il tablet, immagino stia aggiornando il profilo di qualche social network, o facendo shopping virtuale; pratica, quest’ultima, che non ho mai capito, impossibilitato nella comprensione dal cromosoma Y che alberga nel mio DNA.

    – Dimmi – esordisce – Quale sarebbe il colpo di genio?.

    Con estrema lentezza, e molta cautela, accendo una sigaretta esasperando ogni movimento per conferire teatralità alla dichiarazione. Inspiro a fondo e percepisco la nicotina fluire nel sangue. Termino la performance esalando una nuvola di fumo azzurrognolo.

    Le lancio un’occhiata furtiva.

    È stata brava.

    Ha lasciato cadere la frase senza alzare gli occhi dallo schermo, come se nulla fosse.

    Non ha visto la mia pantomima o, se l’ha notata, non ha scalfito le sue difese.

    – Beh, pensavo… – inizio a spiegare – Hai sentito le notizie oggi?.

    – Quelle sull’aviaria? – domanda.

    – No. In realtà mi riferivo all’assetto economico mondiale – aspiro un’altra boccata per comperarmi il tempo necessario a studiare la sua reazione.

    – Le cose stanno andando parecchio male – aggiungo dopo aver prodotto l’ennesima nuvoletta – Quindi mi chiedevo se non fosse il caso di fare un po’ di scorte: cibo, medicinali, soldi….

    Ho sganciato la bomba, e ora mi tocca attendere la contromossa.

    Un altro paio di pennellate sullo schermo, poi posa il tablet sul tavolino da caffè.

    Mi guarda negli occhi: – C’è qualcosa che mi devi dire? – domanda seria.

    – Nulla di cui preoccuparsi. Però, se le banche saltassero in aria e chiudessero i rubinetti dei bancomat, potrebbe diventare difficile fare la spesa – paranoia personale a parte, è una possibilità concreta. In assenza di contanti e senza la possibilità di usare carte di credito, comprare un barattolo di olive potrebbe diventare una missione impossibile.

    Di solito, quando faccio queste sparate, chi mi conosce bene non ci fa caso, mentre, chi non mi conosce, pensa che sia pazzo.

    Mia moglie non ci fa caso, pensando che sia pazzo.

    In periodi normali io stesso mi considererei squilibrato, ma eventi di questo genere si sono già verificati, seppur su scala ridotta. Basti pensare al default dell’Argentina quando si sganciò dalla parità col Dollaro, o alle code davanti agli sportelli della Countrywide Financial negli Stati Uniti e Northern Rock nel Regno Unito del 2007.

    Scatenare il panico a livello globale, con i moderni mezzi di comunicazione di massa, è davvero facile.

    La osservo incapace d’interpretarne l’espressione.

    Si allunga per prendere una sigaretta: – Credevo pensassi all’influenza – afferma con leggerezza.

    – In effetti, lo considero un bonus: due piccioni con una fava – dichiaro stampandomi un sorriso ebete sulla faccia.

    – Cretino – esclama senza aggiungere altro.

    Okay, ha colto l’allusione tra i piccioni e l’aviaria.

    – Comunque è una buona idea – ammette – E avere un po’ di scorte extra non fa male.

    Ha ceduto. Sorrido, e scorgo una vena di panico nei suoi occhi.

    – Sì, ma niente di eccessivo, mi raccomando – s’affretta ad aggiungere – Solo poche cosette per tirare avanti qualche giorno.

    – Certo – la rassicuro – Stai tranquilla.

    Continuo a sorridere.

    Mi lancia un’occhiataccia consapevole che esagererò, come sempre. Come successe per le finestre di casa: partimmo dall’idea di cambiare gli infissi per installarne di nuovi, con una serratura di sicurezza, e finimmo con vetri antiproiettile e ante che pesano un quintale l’una.

    – Domani butto giù una lista – le comunico con fare rassicurante – Nulla di troppo complesso, solo qualche genere di primissima necessità.

    Vinta la battaglia mi alzo, la bacio e mi dirigo verso la stanza da letto.

    Appena arrivato alla porta che separa la zona giorno da quella notte, una frase m’incolla i piedi al pavimento.

    – Oggi ho parlato con gli insegnanti di tuo figlio – esclama Lucrezia.

    Me lo sentivo: ha ceduto troppo presto, ed io sono caduto in trappola come un principiante.

    Mi trascino indietro, sino al divano, e mi risiedo accedendo una sigaretta.

    – Dimmi.

    – Sono preoccupati – riprende – Dicono che Sebastiano è troppo introverso, ha difficoltà di socializzazione.

    – Quindi? – la sollecito immaginando fin troppo bene dove voglia andare a parare.

    – Pensano che un colloquio informale con lo psicologo della scuola potrebbe fargli bene – comunica con voce atona.

    Sa che sono contrario.

    – Non è introverso, ma timido – ribatto – E non ha alcuna difficoltà di socializzazione, è selettivo nelle amicizie.

    Mi fissa diritto negli occhi, in silenzio.

    È una discussione che abbiamo già affrontato mille volte in passato, e sono sempre stato irremovibile.

    Mio figlio non ha nulla che non va.

    È una questione di carattere.

    Io, alla sua età, ero più chiuso di lui.

    Mio padre, nonché suo nonno, era, ed è ancora, il più burbero dei tre.

    L’asocialità scorre impetuosa nelle nostre vene, e c’è ben poco che si possa fare a riguardo.

    Questa volta però, è diverso.

    Lucrezia mi è venuta incontro su una richiesta che non condivide, ma che sa essere importante per me.

    Questo è importante per lei, e capisco che la molla che la spinge è l’amore per nostro figlio.

    – Okay – acconsento – Ma se iniziano a parlare di pillole, o cose del genere, cambia scuola.

    Sorride felice, e io mi sciolgo, come sempre.

    La bacio per la seconda volta, accantono la discussione in un angolo remoto della mia mente, e vado a letto.

    Il mio cervello è regredito alla questione precedente, e sta già frullando sul potenziale elenco: solo poche cose, giusto in caso di problemi seri. Lo ripeto diverse volte, quasi fosse un mantra, ma alla fine cedo, e ammetto che mi sto prendendo per il culo: sarà una lista biblica.

    Con questo pensiero scivolo in un sonno agitato.

    Mi sveglio poco dopo le tre del mattino.

    Mia moglie respira piano, addormentata al mio fianco.

    Mi alzo, vado in bagno, fumo una sigaretta e ne esco vestito.

    Giunto in sala accendo il computer e apro il browser di navigazione.

    Mezzora dopo ho trovato un sito che spiega in dettaglio i fabbisogni nutrizionali giornalieri. Incrocio i dati con quelli raccolti nella pagina della Croce Rossa, in una sottosezione per la gestione delle emergenze umanitarie. Sommo i due elenchi, e ottengo una prima lista che trasferisco su un foglio di calcolo.

    Elimino tutto ciò che è deperibile, quasi nulla, lasciando soltanto alimenti a lunga conservazione.

    Moltiplico le singole voci per trecentosessantacinque et voilà: ecco la lista della spesa per sopravvivere un anno in tre persone.

    Latte in polvere duecentocinquanta litri

    Carne in scatola venti chili

    Tonno in scatola trenta chili

    Uovo liofilizzato un chilo

    Legumi in scatola trenta chili

    Pasta quaranta chili

    Riso quaranta chili

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