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Ribelli a Pisan City
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Ribelli a Pisan City

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About this ebook

Un gruppo di ragazzi villeggiano in un paesino, alle falde dell'Etna. Tra amori, sogni e rivolte. Un affresco originale e poetico di una generazione.
LanguageItaliano
PublisherSalvoGrimaldi
Release dateApr 12, 2018
ISBN9788828304876
Ribelli a Pisan City

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    Ribelli a Pisan City - Salvo Grimaldi

    BIOGRAFIA

    FRONTESPIZIO

    SALVO GRIMALDI

    RIBELLI

    A

    PISAN CITY

    ROMANZO

    PREFAZIONE

    PREFAZIONE

    Una storia fresca e accattivante dalla scrittura piacevolmente scorrevole, quella di Ribelli a Pisan City, opera prima di Salvo Grimaldi che, già al suo esordio, ha ricevuto il premio internazionale Il Gabbiano.

    Attraverso un uso della lingua mai banale per lessico e strutture, pur senza divenire mai stucchevolmente artificioso, il romanzo apre con le sue vicende e le sue riflessioni uno squarcio, finalmente non pruriginoso, come da tempo di moda nei romanzi di adolescenti o spacciati per tali, nel mondo giovanile della fine degli anni ’60.

    Si potrebbe chiamare Pisan City, magari per farlo sembrare più decente, questo piccolo centro dove ragazzi come Mel, Chigo, Senta, Tinto, Sakil e altri si ritrovano ogni estate a villeggiare. Un luogo che è poi la sintesi di tutti i luoghi in cui gli adolescenti si incontrano, discutono, ballano, concepiscono idee e ideologie, litigano e si innamorano, confrontandosi fra loro e imparando maldestramente a muoversi nella esistenza complicata di adulti che li attende.

    Lui, l’io narrante, che è poi con evidenza l’Autore, protagonista indiscusso e ragazzo fra ragazzi, al contrario dei suoi coetanei, è privo di quelle certezze che età, educazione e tradizione hanno imposto ai più e persino i granitici personaggi dell’Iliade va a ridisegnare, alla luce della sua logica serrata e delle sue personali emozioni. I pensieri volano alti, nella contemplazione del paesaggio a cui si dedica in una solitudine che gli urge per riflettere e decifrare la vita, dibattendosi fra l’acuta razionalità con cui analizza se stesso e il mondo e un imprescindibile anelito alla poesia. Contempla i campi e si rende conto di come la retorica del contadino che lavora felice la terra sia legata a un mito, perché anche i contadini, come tutti gli altri, faticano con lo scopo di guadagnare e arricchirsi, come i camaleonti di città, ma la loro avidità si disperdeva fra pulviscoli di stelle e riflessi solari.

    Ecco: già nell’incipit di questa opera prima di Grimaldi, ideata e scritta proprio all’età dei suoi personaggi, c’è in nuce tutto il senso non solo del racconto, ma dell’intera produzione di questo Artista a tutto tondo, che negli anni successivi alla pubblicazione di Ribelli a Pisan City, ha spaziato con successo nelle diverse Arti, dal fumetto alla poesia, dalla pittura al teatro. Tutte le arti Grimaldi ha indagato, percorso, sperimentato, e in tutte ha osservato la natura e il mondo generato dagli esseri umani, e questi stessi e i loro sentimenti, con uno sguardo di volta in volta da impietoso scienziato, da disilluso filosofo, o da appassionato poeta. Spesso uno sguardo che li sintetizzava tutti insieme, dolente o vitale che fosse.

    Non sa ancora, il protagonista di questa storia, cosa ne sarà di lui, ma di un’unica cosa è ben certo: non appartiene, anima e corpo, al branco, agli schemi, alle routine. Non è uno stanziale, da piatta vita qualunque, da timbrodicartellino-mutuo-bimbidaportareascuola, no. Lui fuggirà dalla banalità del quotidiano, anche se ancora non sa come, né verso cosa. La sua fuga dal grigiore forse avrà la traiettoria di una freccia…di un missile…o di un boomerang…E poi in ogni caso, le orme di partenza rimarrebbero sempre qui, nel luogo della separazione, perché tutto quello che sembra importante in realtà è stupido…tremendamente stupido e inutile. Per il giovane protagonista del romanzo, così come per il Grimaldi ormai adulto, ormai uomo, ormai Artista, non hanno vero valore le rassicuranti mete a cui aspira la stragrande maggioranza dell’umanità: si sentiva chiamato ad altro, e ad altro si è orientato, ed altro è stato. Ma essere altro ha un prezzo: è difficile combaciare con uno come lui, che girava sempre in tondo e che, per hobby, collezionava album completamente bianchi fatti di spazi vuoti e di cose ferme e perdute.

    Appartiene al genere dei cosiddetti romanzi di formazione, questa opera prima di Grimaldi? Non mi pare. Non del tutto, almeno. Generalmente avrebbe dovuto seguire uno schema ben definito, col giovane protagonista che si lascia alle spalle la situazione rassicurante dell’infanzia per entrare nella dimensione conflittuale con l’ambiente in cui si muove, mettendone in discussione le regole morali, affrontando l’opposizione ai clichè e a chi li rappresenta, fino a compiere un processo di formazione che lo condurrà, acquistando autoconsapevolezza, ad emanciparsi dai condizionamenti familiari e sociali, a progettare il futuro in maniera autonoma e, quindi, ad assurgere ad un nuovo equilibrio. Ma qua il protagonista possiede già piena coscienza di sé, di ciò che vuole, o meglio, di quello che non vuole: perché non gli piace, perché non lo rappresenta, perché gli va stretto. Ha scelto di spaziare lo sguardo dall’alto della torretta, anche se sa già che lassù potrà farlo soltanto in solitudine. E’ il prezzo che paga per essere chi è, il suo spazio deserto ebbro di colori. Ma, come dice lui, la solitudine non lo spaventa e non lo ucciderà, alla faccia di Hegel.

    Aurora Anna Grasso

    INCIPIT 1

    " NASCO CON LA VOGLIA DI VIVERE.

    NON SONO CERTO CHE VIVRO’.

    MORIRO’ CON LA VOGLIA DI RINASCERE".

    Un ribelle

    CAPITOLO I

    CAPITOLO I

    La villeggiatura. Più di tre estati trascorse in un paesino. Potrei chiamarlo Pisan City per renderlo più decente. Uno di quei posti che dopo aver tirato un consuntivo, ti fanno credere che qualcuno ti ha fregato, ma non ti fanno capire chi. Ti fanno credere che tutto è avvenuto così come doveva. E’ come se non potesse esistere nient’altro al di fuori di ciò che è stato. Di quei posti che non ti toccano, che non ti fanno meditare o forse ti fanno meditare male. Vivono in quel breve spazio di tempo che ci sei dentro.

    Gli ingenui libri di fiabe o di avventure avrebbero valore se subito dopo, non ci si dovesse sbattere sopra, per esigenza di cose, un trattato di filosofia. Dal lato scenografico, Pisan City non era scassato. Oggi conosco posti di gran lunga migliori, magari visti con la lente di ingrandimento, su qualche rotocalco di moda. Ma allora mi accontentavo.

    Nei pomeriggi, io me ne stavo quasi sempre seduto nella torretta, luogo con sedile di pietra che dominava i vigneti circostanti. Sentivo spesso il bisogno di isolarmi e, alla faccia di Hegel, non morivo affatto. Guardavo la campagna e i contadini che lavoravano. Ma le sensazioni bucoliche andavano a farsi benedire, perché sentivo che pochi lavoravano la terra con amore e con dedizione. In realtà tendevano anche loro ad arricchirsi come i camaleonti di città. Forse lavoravano in un più stretto raggio e la loro avidità si disperdeva tra pulviscoli di stelle e riflessi solari, ma voglio dire, che la genuinità, la semplicità, non l’ho trovata neanche lì. Per fortuna c’erano molte altre cose che mi allettavano e mi piacevano da morire: l’odore di terra bagnata dopo una breve sfuriata piovana; quel balsamo che si sprigionava dalle balle di fieno delle stalle, mescolandosi con l’aroma della nepitella e del gelsomino; e infine l’acre sentore dell’uva pigiata sui ballatoi pietrosi dei palmenti.

    Avevo un libro tra le mani ed esattamente l’Iliade. Era la milionesima volta che lo leggevo. Lo facevo con rinnovato interesse, perché speravo di cambiare idea sull’importanza contenutistica dei personaggi. Tentavo così di entrare nella concezione comune. Nemmeno allora però ero arrivato allo scopo. Ero spesso alla ricerca di una giusta focalizzazione delle cose, ma tutto mi appariva svisato, alterato da piccoli particolari senza apparente importanza. Cercavo un elemento esterno equilibratore, ma scoprivo con allarmante frequenza, che quell’elemento si trovava anch’esso sull’orlo di un abisso. Cicli di vita si concludevano fulminei e mi lasciavano incompiuto. I ricordi avevano nomi e date che servivano poco utilmente, ad arginare le rapide. Sino a quel momento, le persone e le cose che mi erano state attorno, avevano soltanto fatto finta di partire. Alcuni erano stati giganti, altri puntini insignificanti. Per questo, ogni notte, sognavo la via di mezzo. Quella che mi avrebbe consentito giuste dimensioni e visioni nitide, ben delineate. Il buio, gli occhi socchiusi, o certi intuiti portati in trionfo mi avevano fatto scoprire l’approssimazione. Ma neppure quella era la via di mezzo che stavo cercando. L’approssimazione era soltanto una macchia scura che se ne stava ferma sui miei orizzonti e che io avrei potuto interpretare secondo i miei capricci momentanei.

    Mel, un ragazzo che faceva parte della mia comitiva, mi capitò all’improvviso tra i piedi.

    Che leggi? – disse strofinandosi il naso.

    Gli mostrai, senza rispondere, l’intesta-zione del libro.

    E’ una mania la tua.

    Che ci vuoi fare! – dissi con noncuranza.

    Cambiato parere almeno?

    Sui personaggi?

    Già.

    Per niente.

    Il mio scopo era quello di attizzare il fuoco. Mi piacevano i colloqui. Nella mia mente estrosa era l’anticonformismo che si batteva contro la tradizione. E proprio questo mi entusiasmava.

    Non capisco perché Achille ti stia così sulle scatole – disse Mel aizzandomi contro la sua ira critica.

    La montatura dei suoi occhiali era dorata e luccicava al sole, emettendo bagliori da spiritello malefico.

    Achille è il Nembo Kid della situazione. Nient’altro che questo.

    Tutti l’hanno sempre giudicato un perso-naggio completo, dotato di umanità e colmo di spiritualità.

    Le sue frasi erano spesso infarcite con un mucchio di grosse parole che, secondo lui conferivano più ascendente al contesto del discorso.

    Dunque, secondo te, faceva il bullo, perché godeva del privilegio dell’invulnerabilità? – disse Mel, i cui capelli reduci da uno shampoo senza asciugatoio distavano tre metri dal suolo.

    Proprio così. Toltogli questo, sarebbe diventato uno come gli altri. Forse anche peggio. Anche il suo dolore è superumano e perciò inaccettabile.

    Quindi, per te, è un grave errore metterlo ad un livello di primo piano?

    Credo proprio di si.

    Non salvi proprio niente di lui? – disse Mel disfatto, nel tentativo di salvargli almeno il tallone.

    Proprio niente – replicai duro e deciso – non mi sono mai piaciute le persone che si trovano in vantaggio rispetto agli altri e non per merito personale. Corrono il rischio della distanza e la distanza spesso porta troppo lontano… dove non arriva mai nessuno.

    E di Ettore, che ne pensi? – riprese Mel, sperando di consolarsi.

    Il terzo grado procedeva. La tradizione si stava eccitando.

    Quello, poi, è un imbecille totale.

    Mi morsicai una pipita, attorno all’unghia dell’indice.

    Questa è grossa!

    Era schifato dalla mia tracotanza.

    Calma, adesso ti spiego perché.

    Non c’è niente da spiegare.

    Non essere prevenuto. Non ci guadagno niente a far crollare un mito.

    Sto solo cercando di salvaguardare la tua reputazione di ragazzo di buon senso. La mia non è una mentalità di intellettuale salottiero, ma bisogna inchinarsi davanti all’evidenza.

    Che evidenza?

    Vedi… quando un èlite accademica specifi-camente esperta, ritiene che…

    Senti Mel… vuoi ascoltare comunque il mio misero parere sull’argomento, o preferisci non insozzarti le orecchie? Dillo chiaro.

    Su, esponi, ma non puoi pretendere che io diventi un seguace della tua…

    Non lo pretendo…

    Forza dunque!

    Cerchiamo di analizzare bene la situa-zione… Ettore lascia la sua famiglia, per andare a battersi con quel gradasso corazzato, certo matematicamente di perdere e di morire. Ecco il punto! Un uomo è un eroe, quando nell’affrontare una situazione, ne soppesa il pericolo, il rischio, e si butta a capofitto, con coraggio, soltanto perché c’è l’ignoto del finale. E’ su questo dubbio, sul come andrà a finire…, su intimi calcoli probabilistici…, che si accentra l’effettivo coraggio, l’effettiva essenza dell’eroismo umano. Ragion per cui, uno che si va a battere senza possibilità di scampo, è un suicida pazzo.

    Mel mi guardò stralunato. Come se non meritassi neppure la sua commiserazione.

    La gente spesso confonde i valori che son dentro di noi e li mischia a regole e principi che esorbitano la ragione, il senso, e che quindi sono da collocare piuttosto al di fuori di noi.

    Mi fermai. Avevo la gola secca. Per non far la figura del demolitore di eroi, confessai a Mel, che Ulisse invece mi andava a genio.

    Come mai? – disse lui sfottente – Ti piacciono i furbi?

    Ti sbagli. Ulisse non era un dritto.

    Stavolta la controparte mi affibbiò una occhiata di sufficienza.

    Lascia che ti spieghi.

    Mi alzai e mi diressi verso il paese. Mel mi seguì trotterellando.

    …Per me Ulisse era soltanto un campionario di disgrazie, tipo Paperino… insomma erano la forza degli eventi, il trovarsi in determinate situazioni, in apparenza senza via di uscita, che gli facevano scaturire, per legge di sopravvivenza, quelle risorse che non sono prerogative esclusive dei furbi, ma di tutti gli uomini…

    Vuoi dire – mi interruppe Mel – che un uomo più sfortuna ha addosso, più si ribella alla sorte, …più diventa attivo…

    Esatto! – confermai con voce scattante – è una reazione logica, una molla spontanea. Dietro Ulisse, dietro ogni sua trovata, sta un motivo imprescindibile, un anelito importan-tissimo, che si chiama urgente mezzo per realizzarsi. Le sue scappatoie sono fittizie. Un esempio… la trovatina esteriore, in atto, del cavallo di Troia, è sua, ma il vero suggerimento che ci sta dietro, …la furbizia, …è determinata inconsciamente da tutti i guerrieri greci… è da attribuire a tutti come fatto comune.

    Mel non osò più ribattere. In realtà non gli mancavano gli argomenti per confutare la mia tesi, ma si era già penetrati nel nostro covo, e la vista delle pulzelle in tenuta estiva riempiva di ardore il bellicoso pazzoide.

    Nel vano di ingresso alcuni erano impegnati in una cruenta partita di poker. Tre ragazze nella stanza attigua, si allenavano a ballare l’hully gully.

    L’ameno luogo di riunioni mondane, dove di solito ce la spassavamo consisteva infatti, in due fetide stanze rettangolari. Le camere erano arredate secondo i più moderni principi funzionali. C’erano un divano scassato con le molle aguzze che rendevano il sedere a prova di proiettile; un tavolotto rustico; un paio di sedie sgangherate; un comodino con sopra un giradischi che, riusciva a dare effetti sonori imprevedibili, tipo stereo con cartuccia quadripolare e testina magnetica ad alto livello.

    Senta, la mia prima ragazza, se ne stava seduta in disparte in un angolo. La sua nobiltà è andata aumentando col tempo. Allora ne aveva soltanto qualche briciola. Per il resto masticava una vita di attese, infarcita di noia e di distacchi e che si distendeva elastica come il chewing-gum insalivato dalle sue labbra. Mi ci misi accanto. I nostri incontri stagionali erano ridicoli e il nostro rapporto totalmente privo di amore. In fondo lo sapevamo.

    A che pensi? - mi chiese stordita.

    A noi due.

    Non andiamo bene vero?

    No… non c’è amore.

    E allora?

    Niente.

    Cosa pensi di fare?

    O me ne andrò in una sperduta grotta del Tibet o mi farò un mucchio di amanti tipo Casanova. Nel primo caso ti manderò una cartolina con l’effigie di uno Yeti; nel secondo ti farò avere un diario completo delle varie imprese, magari corredato da un completo reportage fotografico.

    Rise. Il palloncino che involontariamente aveva formato con

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