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L'imperfezione del male: Trilogia di San Pietroburgo
L'imperfezione del male: Trilogia di San Pietroburgo
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Ebook285 pages3 hours

L'imperfezione del male: Trilogia di San Pietroburgo

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Grande attesa per il primo volume di una trilogia tra thriller e noir che, dopo la Russia, vuole catturare il lettore italiano ed europeo.
Nel cuore di San Pietroburgo, un omicidio inspiegabile all’interno di una palestra. Una ritualità insolita e una lista di sospettati che si addensa intorno ai collaboratori più stretti di Sergej, l’oligarca ucciso, proprietario dei centri fitness. A Sasha Reggiani, un italo-russo con un passato nei Servizi italiani, istruttore del centro sportivo, e all’investigatore Gribanov, della Omicidi di San Pietroburgo, il compito di sbrogliare la complicata matassa. Implacabile come una mannaia, su tutte le persone che ruotavano nella vita di Sergej, si abbatte la scure della giustizia, ma nessuno sembra aver messo in atto un delitto incomprensibile e dalle modalità insolite. Tutti hanno un motivo per voler morto il proprio capo ma, nei fatti, gli alibi reggono e non ci sono prove schiaccianti. Anche Sasha, uomo dal passato tormentato e dalla vita sentimentale devastante, potrebbe essere l’assassino, ma Gribanov ritiene pi. vantaggioso usare il “mezzo sangue” per le sue ottime capacità. investigative, e farlo diventare un valido alleato. In una San Pietroburgo lunare e oscura, tra mille colpi di scena, la vita intima dei due protagonisti si dispiega e si approfondisce al ritmo della vicenda, fino all’inevitabile finale.
LanguageItaliano
Release dateApr 16, 2018
ISBN9788868812515
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    L'imperfezione del male - Fabio Clemente

    sfacciata.

    1

    Il gatto, per quanto massiccio, era a pelo corto ma questo non regalò nessuna serenità all’investigatore Gribanov. L’animale lo soppesava con gli occhi a mezz’asta e per un attimo sembrò che volesse saltargli addosso. Gribanov iniziò a starnutire a prescindere dallo scatto del felino. L’allergia è una cosa seria ed erano del tutto inutili le precauzioni della moglie che gli consigliava di portarsi appresso un antistaminico. L’investigatore, prima di riprendere fiato dall’ultimo scossone, con il corpo tremante per i singulti insidiosi, si guardò un’altra volta intorno e si chiese come fosse possibile che in una catena di palestre così prestigiosa, la guardiola dell’uomo delle pulizie, barra factotum, fosse tanto disastrata. I muri scrostati di un verde ospedaliero, i poster con le donne nude ammiccanti, la puzza dell’ultimo piatto divorato in un angolo e il pavimento sporco, con una patina di grasso che nemmeno nel peggior self-service della città avrebbe trovato. Ma la cosa più imbarazzante era proprio l’uomo delle pulizie, barra factotum. Un povero ritardato che lo guardava con le labbra spalancate, in un sorriso a mezza bocca che creava più che altro pietà.

    Avrà avuto sì e no venticinque anni Antoniy, e seguitava a tenersi la testa fra le mani, rialzandola solo per guardare l’investigatore.

    «Non è possibile. Era un uomo buono, il migliore che Antoniy conosceva». Lo ripeteva come in una litania. Poi, rapido, si pulì il moccio dal naso e con una manata cacciò il gatto che sostava sopra di lui, per rialzarsi.

    «Via Murzik! Vai a mangiare i croccantini».

    Allora mise un piede in fallo e con la mano sporca di moccio e peli di gatto afferrò rovinosamente quella dell’investigatore, che per poco non si ritrovò a urlare. Invece, con savoir-faire, aiutò il ragazzo a non cadere sul pavimento unto e, in un insolito passo di danza, lo liquidò. «Antoniy, puoi andare, per me è tutto».

    «Grazie investigatore, anche lei è un uomo buono». E si dileguò mentre Gribanov riprese a starnutire. Dieci, al momento, gli starnuti, ma sarebbero diventati presto il doppio se fossero andati avanti di quel passo.

    L’investigatore chiamò il sergente Morozov e gli chiese di andare in farmacia. Al diavolo Ljuda, un uomo sa curarsi anche da solo.

    Aleksej Olenev era senza capelli come Gribanov e, come lui, aveva il vezzo di lisciarsi la testa come se un gran ciuffo gli spiovesse sulla fronte. Gribanov lo guardò a lungo prima che proferisse parola e, notando quel gesto, ebbe un momento di autoconsapevolezza che gli impedì di spianarsi la pelata. Il medico legale, prendendosi un bel respiro, iniziò a parlare.

    «Non è stato il bilanciere a rompergli l’arteria vertebrale. Ci metto una mano sul fuoco se un’emorragia subaracnoidea non gli ha invaso lo spazio tra cranio e cervello. Secondo me prima gli hanno spezzato il collo, poi ci hanno fatto cadere il bilanciere sopra».

    Si prese una pausa mentre Gribanov pendeva dalle sue labbra. «Se ne sarebbe accorto anche un bambino. Una cosa è certa: chiunque sia stato, conosce piuttosto bene l’anatomia o perlomeno come spezzare il collo di un uomo e interrompere il suo cammino in questa valle di lacrime».

    L’investigatore era talmente abituato all’ironia macabra di Aleksej che grattandosi la testa, di lisciarsela nemmeno a pensarci, andò di getto. «Una messa in scena. Perché?».

    Il medico sorrise: «Già è tanto se riesco a capire come operano questi pazzi. Non sono pagato per mettermi nella loro testa».

    Gribanov non era soddisfatto. «Avrei immaginato un gruppo di caucasici, al limite qualcuno che tuteli gli interessi dei successori di Ded Kashan qui a San Pietroburgo… Che ne so, lo avrebbero aspettato sotto casa o in un ristorante del centro, un colpo di pistola e via…».

    «È stato qualcuno che lo conosceva, che poteva entrare senza problemi».

    «Non c’era nessun altro. La security è da escludere, Antoniy aveva il suo giorno di riposo ed è andato al cinema a rivedere per la quinta volta Star Wars. I guardaspalle Sergej li teneva fuori perché non voleva nessuno intorno quando si allenava».

    «Te lo vedi uno che si torce il collo da solo?».

    Gribanov avrebbe voluto urlare «Cazzo!», invece posò una mano sulla spalla del medico e disse: «Andiamo a pranzo, mi è venuta voglia di una gribnoy sup» [¹] .

    Aleksej calcò un berretto troppo stretto per la sua testa e prima di seguirlo si fece sfuggire: «Non sarà un episodio isolato. Ci sarà un’altra vittima».

    Gribanov scosse la testa. Il solo pensiero aumentava esponenzialmente il suo malumore. Fecero per uscire quando il sergente Morozov si presentò di corsa sbarrando loro il passo.

    Gribanov si ricordò subito dell’antistaminico. «Grazie Mo rozov. Quanto ti devo?» e allungò una mano per prendere il medicinale.

    Morozov, roteando gli occhi bovini, fece l’espressione imbarazzata di quando era costretto a contraddire il capo. «Non sono uscito… Sul telefonino della vittima è segnato un appuntamento in palestra per questa notte».

    I morsi della fame non andavano d’accordo con la curiosità che lo divorava. «Con chi cazzo doveva vedersi in palestra di notte?». Gribanov aveva ripreso il suo abituale assetto da mastino e quella preda non se la sarebbe fatta sfuggire.

    Morozov rispose candido: «Sasha Reggiani».

    L’investigatore aveva sentito quel nome, ma non riuscì subito a collegarlo a un volto umano. Di lì a non molto gli sarebbe stato tutto più chiaro.

    2

    Il blues è un’arte sincera, il blues-rock un po’ puttana. Questo pensò Sasha, mentre Vladimir faceva letteralmente a pezzi Little Wing di Hendrix. La voce solista di un gruppo è una cosa importante, perlomeno quanto la chitarra solista. Per questo Sasha aveva più umilmente optato per una dignitosa chitarra ritmica. Scegliere il nuovo cantante di una band che, per quanto amatoriale, si esibiva con regolarità nei locali poco areati del Pravda Beer richiedeva un certo rigore. Le prove avvenivano come sempre nelle cantine di Sasha, che lui stesso aveva riadattato, con i cartoni delle uova e tanto sudore. Si era comprato anche un piccolo mixer e tutta la strumentazione necessaria, compresa una batteria con double bass drum che ben pochi si avventuravano a suonare e un Hammond del ’72, che di tanto in tanto regalava note vintage e momenti di autentico groove.

    Mentre Vladimir continuava a distruggere Hendrix e gli altri del gruppo ci davano dentro, Sasha versò il caffè appena uscito da una moka che si era fatto arrivare dall’Italia. Si trovava nel piccolo cucinino ricavato in uno spazio attiguo al set, quando cominciò a pensare con quali parole liquidare il povero cantante. Le vene del ragazzo erano tese nello sforzo e il rosso che colorava il suo viso lo rendeva ancor più encomiabile, ma la mannaia della giustizia si sarebbe comunque abbattuta su di lui. «Ok, ti ringrazio per l’impegno ma Hendrix è un’altra cosa». Tutto qua, semplice e pulito, non ci voleva molto e avanti un altro. Questo gli avrebbe detto. Non si poteva distruggere la musica senza conseguenze.

    Sasha si voltò con la tazza fumante in mano, pronto a condividere il prezioso liquido nero con gli altri, che le ali dell’imperituro Jimi ebbero l’ultimo sussulto. E il pezzo finì. Ci fu un attimo di silenzio. Vladimir si asciugò con l’avambraccio la fronte imperlata di sudore e i quattro, allontanate le mani dagli strumenti, tirarono un sospiro di sollievo, scambiandosi sguardi vuoti. Sasha non perse tempo e attaccò. «Vladimir, ce l’hai messa tutta…». Al giovane brillarono per un attimo gli occhi quando l’entusiasmo sul suo volto si spense come era apparso. Il telefonino di Sasha iniziò a trillare insistente, nonostante il poco campo.

    Sasha con un gesto della mano si scusò con tutti i presenti. Non conosceva quel numero e non aspettava telefonate, anche se in cuor suo sapeva che aver mancato l’appuntamento con Sergej sarebbe stato fonte di noie non trascurabili. «Sì?». La voce dall’altra parte era quella di un agente che non ammetteva repliche, doveva presentarsi al Comando. Sergej era morto e lui avrebbe dovuto vedersi con quell’uomo proprio nelle ore in cui veniva assassinato. Un’auto lo attendeva già fuori dalla sua abitazione. La voce dell’agente riattaccò brusca.

    Daniel, la chitarra solista, gli chiese: «Che c’è? Che è successo?».

    Sasha rispose perentorio: «L’ondata di merda perfetta».

    Gli altri della band e l’aspirante cantante rimasero lì a chiedersi cosa gli avessero detto, mentre Sasha pensò che in fondo c’è un sistema di giustizia molto preciso che sovrasta gli uomini e ne regola il destino. La mannaia si era spostata pesantemente da Vladimir a lui. E in questo caso la morte di Sergej era molto più decisiva della pessima esecuzione di un brano di Jimi Hendrix.

    Ritrovarsi su ponte Liteyny alle sette del mattino, con il freddo che appanna l’auto della polizia perché il riscaldamento si è rotto e un traffico che costringe a passo d’uomo, non era esattamente ciò che Sasha si aspettava da quel venerdì mattina. Il suo giorno libero era santificato alla notte di prove e una possibile dormita fino a tardi. Che poi ormai il tardi erano diventate massimo le nove e mezzo del mattino. Sasha aveva provato tutti i tipi di sonnifero e ansiolitico in commercio ma, quando aveva l’opportunità di dormire non riusciva più a farlo. Nei giorni feriali invece crollava. Un tipo di stress a cui nessun medico aveva trovato una risposta convincente. I sabati e le domeniche di Sasha erano dedicati all’insonnia o quasi. Fame di vita forse? Lui stesso aveva rinunciato a darsi una spiegazione.

    In una macchina che si accostava a quella della polizia, un bimbetto di dieci anni circa si mise a fissarlo con i suoi grandi occhi azzurri da felino. Sasha, senza un vero perché, fece altrettanto. Poi passò a una linguaccia e a un paio di corna. Il bimbo spalancò le fessure azzurre fino ad accennare un sorriso poco convinto.

    L’agente accanto a Sasha, che era rimasto in silenzio da quando erano saliti in macchina, riprese vita: «Ho sentito dire che Kristovsky Island sta perdendo il suo appeal, come mai ha scelto di rimanere lì?».

    Sasha non rispose. Poi, quando ebbe la certezza che il tipo stava ancora lì ad attendere una reazione, lo guardò sorridendo: «L’aria è ancora decente e la notte si dorme tranquilli.

    Lei perché continua a fare il suo mestiere?».

    L’agente preferì voltare la testa dall’altra parte e non rivolgergli più la parola. Improvvisamente il traffico iniziò a muoversi e rapidamente tutti i veicoli ripresero un’andatura pressoché regolare. L’uomo alla guida e il suo collega sbuffarono quasi in contemporanea, imprecando con gioia. Sasha guardò un’altra volta dal finestrino. Le auto si liberavano da quella paralisi con veloci accelerate.

    Il bimbo gli fece ciao con la mano, mentre la macchina del padre superava con un piccolo scatto quella federale.

    3

    La pesante struttura in cemento si confondeva con il cielo plumbeo che quella mattina non accennava a schiarire. Il Bolshoi Dom era un ex casermone costruttivista che non tradiva le aspettative di chi era in cerca di un passato mai del tutto archiviato. Grigio, enorme, desolato, nonostante fosse poco lontano da altri palazzi del centro; le stesse splendide architetture che rendevano San Pietroburgo un gioiello dell’umanità.

    Trasudava paura la Grande Casa, come veniva chiamata, punizioni esemplari e rispetto. La sensazione era che una volta entrati lì dentro difficilmente se ne sarebbe usciti. Avviluppati dalle mura, dall’imponenza delle arcate e da tutti coloro che vi lavoravano senza sosta. Uomini, agenti circondati da un’aura leggendaria e per niente tranquillizzante. Sasha si chiese perché fosse stato condotto nel luogo meno adatto per un semplice omicidio; la sede dell’FSB. Deputata per crimini contro lo Stato o per la lotta alle organizzazioni mafiose. Tutto molto vicino alla vita di Sergej, ma anche infinitamente lontano dalla sua. Continuò a fare qualche congettura fino a quando venne fatto accomodare in una grande stanza, senza passare per gli uffici più affollati, con l’attenzione che si conviene a chi è una quasi celebrità nella Russia post-capitalista. Non gli rimaneva che attendere in mezzo a bandiere, ritratti di personalità politiche, presidenti dell’organizzazione e un busto di Dzerzhinsky, fondatore della Polizia Federale del Popolo. Sembrava che guardasse in direzione di Sasha e, nonostante l’aria di uomo di altri tempi, che ci fosse qualcosa di confidenziale in quegli occhi lontani. Un consiglio implicito; coltivare la pazienza e la giusta rassegnazione. Aspettare per sapere perché. Perché era stato convocato e cosa volessero da lui.

    Sasha si lasciò andare su una sedia. Chiuse gli occhi e sospirò. E in quel tempo di minima sospensione, sentì un rumore di passi e una porta che si apriva. Gribanov apparve.

    Pelata, basette e uno starnuto d’ingresso che divenne biglietto da visita. L’allergia al gatto, anche senza gatti, continuava.

    L’investigatore si era fatto delle idee su questo mezzo italiano divenuto astro nascente del fitness nelle palestre di mezza Russia. Una piccola rockstar del cazzo che sicuramente se la credeva più di chiunque altro. Era così difficile dire a un gruppetto di donne di mezza età con qualche chilo di troppo cosa fare e come farlo?

    Gribanov, che veniva rapito troppo spesso da pensieri molesti, cacciò via le ultime considerazioni e si concentrò sul suo ospite. A vederlo così, con la barba sfatta, i capelli arruffati, l’orecchino e un paio di Nike che avevano fatto la Guerra di Crimea, nessuno avrebbe creduto a tutto quel successo, ma a un secondo sguardo sentì un brivido corrergli lungo la schiena.

    Gli sembrò che lo stesso puma che aveva visto una notte insonne sul National Geographic lo stesse aspettando su quella sedia. Minimi movimenti da animale a sangue freddo, pronto a scattare e a divorare la preda che gli stava di fronte. Non aveva dubbi, la preda in quel caso era lui e quella bestia lenta e inesorabile stava solo aspettando il momento giusto.

    Un grosso felino col sangue dell’iguana che non staccava mai gli occhi dai suoi.

    Non fu una bella sensazione e Gribanov, per dare un taglio all’eccesso di immaginazione, usò la tattica più antica del mondo: farsi sotto.

    «Buongiorno Reggiani, spero di non averla fatta attendere troppo». E si allungò per stringergli la mano.

    Sasha accennò lo stesso gesto ma le due mani non si toccarono mai.

    L’investigatore proseguì: «Investigatore Gribanov». Uno starnuto arrivò assassino. «Mi deve scusare, l’allergia mi ammazza. Ha gatti per caso?».

    L’investigatore andò a posizionarsi dietro una pesante scrivania. Sasha rimase immobile di fronte a lui: «No».

    Gribanov accese un grande Bolìvar Emperador, che estrasse con noncuranza da una tasca. Un’abitudine tutta sua, visto che al Comando il divieto era assoluto e gli altri erano per lo più impegnati con le sigarette o al massimo con quelle elettroniche.

    L’investigatore sentenziò: «Prendersi cura di qualcuno è un atto d’amore che migliora la qualità della vita di chi lo fa».

    Sasha assentì poco interessato.

    Gribanov spense l’accendino e iniziò a tirare ampie boccate. «Le dà fastidio?».

    Sasha, allungando i piedi davanti a sé, si prese un tempo: «Sì».

    L’investigatore non si fece cogliere impreparato: «Purtroppo mi funziona meglio di un antistaminico. Tre tiri e tutto si sblocca».

    Sasha non fece una piega.

    Gribanov, la cui altezza lasciava a desiderare, si sporse verso quell’uomo per il quale provava già una semi intolleranza. Il sospetto era che di lì a poco si sarebbe trasformata in allergia.

    «Veniamo a noi. Lei sa che Sergej Trushin è stato trovato assassinato nella sua palestra in circostanze improbabili…».

    «È la prima cosa che i suoi uomini mi hanno detto».

    «E sa anche che lei ieri notte doveva vedersi con Sergej alle due del mattino; strano orario peraltro».

    «Sergej sapeva che soffro d’insonnia nei giorni di riposo».

    «Vuol farmi credere che solo quando è libero non riesce a dormire?».

    «È così».

    «Non deve essere piacevole».

    «Meglio dell’allergia?».

    «Quando la sorte si accanisce trova sempre il modo migliore».

    «Sono tra i sospettati?».

    «Mi risolverebbe parecchi problemi, ma nessuno l’ha vista entrare in palestra e parlando con i suoi… musicisti…».

    A Gribanov, che aveva nelle orecchie Alla Pugacheva e il suo Milione di rose scarlatte, il rock non andava proprio giù – cacofonia occidentale –, ma questi erano pensieri che non aveva più senso fare. La sua era una testa passatista e reazionaria e doveva rimanerne al corrente soltanto lui.

    Sasha approfittò di quell’attimo di ruminazione mentale per inserirsi. «Musicisti, ispettore. Suonano che è un piacere».

    «Immagino. Insomma i suoi uomini, mi passi il termine, testimoniano che è stato tutta la serata a provare… C’era anche un ragazzo nuovo, Vladimir Tarakanov, anche lui dice lo stesso».

    «Sono inattaccabile».

    «Fino a prova contraria».

    «Perché sono qui?».

    «Abbiamo raccolto informazioni, Reggiani. Non ci sono soltanto fitness e rock nella sua vita».

    Sasha bucò con lo sguardo l’investigatore. Cosa vuoi da me, impiegato senza futuro?.

    «I servizi segreti in Italia sono o non sono stati la sua seconda casa per un lungo periodo?».

    «Se le rispondessi di no non sarei credibile. Le dico solo, e allora?».

    «Poi ha mollato e si è aperto una piccola agenzia investigativa a livello familiare, lavorava con lei anche suo fratello…».

    «Quindi?».

    «Perché non ha raggiunto il suo amico Sergej l’altra notte?».

    «Gli avevo detto che avevo da fare e che sarebbe stato molto difficile».

    «Sasha non mancare, è importante. Un appello che non ammette repliche. Perché ha deciso di evitare quell’incontro?».

    «Era un periodo in cui le nostre vedute erano molto divergenti».

    «Può accennarmi qualcosa? O preferisce che lo scopra io… magari aggravando la sua posizione?».

    «La Essefitness sta vivendo un momento di difficoltà e secondo me le scelte di Sergej non andavano nel verso giusto». «Può essere più chiaro?».

    «Non ci si rinnovava più. Da circa un anno aveva smesso di investire in pubblicità. Una scelta suicida per come la penso io».

    «Lei non gli ha nemmeno risposto».

    «Quando suono stacco tutto».

    Gribanov si lisciò la pelata senza ritegno, fino a grattarsela. Un’evidente bugia, il telefono per loro aveva squillato al primo colpo. Poi spense il sigaro e respirò profondamente. Guardò Sasha e riprese.

    «Non ho motivi per non crederle».

    «Abbiamo finito?».

    Gribanov si alzò in piedi e si avvicinò a Sasha. «Chi ce l’aveva così tanto con quell’uomo?».

    «Non lo so».

    L’investigatore, rivelando un’agilità fuori del comune, si alzò e si inchinò sulle ginocchia, all’altezza della sedia di Sasha.

    «Voglio farle una proposta». Sasha rimase impassibile. «Collabori con noi. Conosceva bene Sergej, i suoi traffici, le persone che lo amavano e quelle che lo detestavano. Il suo punto di vista ci sarebbe molto utile, Reggiani. Ci aiuti e noi saremo sempre dalla sua parte».

    «Non ne so più di un qualsiasi altro impiegato. Sergej, se voleva, poteva essere quanto mai ermetico».

    Piccolo italiano presuntuoso e reticente. Tanto prima o poi parlerai, pensò Gribanov. «Le chiediamo di buttare un occhio in palestra, di osservare tutto ciò che si muove e riferirci».

    «Quanto tempo ho per pensarci?».

    «Non c’è tempo. Non siamo in Italia».

    Il silenzio che piombò nella stanza fu così assoluto che si poteva sentire il fruscio della polvere sui

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