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Il commissario Richard. Tre inchieste vol. 4
Il commissario Richard. Tre inchieste vol. 4
Il commissario Richard. Tre inchieste vol. 4
Ebook554 pages7 hours

Il commissario Richard. Tre inchieste vol. 4

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About this ebook

Per Andrea Camilleri, suo estimatore, Ezio D’Errico è un artista “dotato di una genialità rinascimentale”. E certamente unico, più volte imitato, è il suo indimenticabile commissario Richard, che con De Vincenzi è tra i personaggi più originali della storia del giallo italiano (e anche dei “mitici” gialli Mondadori). In questo libro sono raccolte tre indagini del Commissario nato dalla penna di D'Errico: Il caso Jefferson, L'ospite inatteso e Un grido nella nebbia. Introduzione di Loris Rambelli.
LanguageItaliano
Release dateApr 18, 2018
ISBN9788893041218
Il commissario Richard. Tre inchieste vol. 4

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    Il commissario Richard. Tre inchieste vol. 4 - Ezio D'Errico

    2018

    L'AFFARE JEFFERSON

    PARTE PRIMA

    I. Al ladro! Al ladro!

    Nella stanzetta immersa nell'ombra, il silenzio era assoluto, e i rumori provenienti dal di fuori rendevano quel silenzio tangibile appunto perché ne segnavano i limiti.

    Lo stesso avveniva per la luce che trapelando dalle fessure tagliava l'ombra in zone meno opache, e dal modo come brillava il pomo d'ottone del letto o il bordo di maiolica del catino, si capiva che fuori da un pezzo era giorno chiaro, e che l'oscurità della camera era una specie di prolungamento di un genere di vita tutto differente da quello degli altri.

    Allorché un raggio di sole filtrando attraverso un buco dell'imposta decrepita segnò un piccolo disco non più grande di uno scudo sulla coperta a righe gialle, il dormiente ebbe una lieve contrazione di ripulsa.

    Come tutte le mattine, anche nel sonno egli sentiva che il nemico era entrato, e il suo corpo logoro si difendeva contraendosi come un mollusco nel guscio.

    Intanto il dischetto di luce aveva incominciato a muoversi lentamente come un riflettore in miniatura, risalendo dalla coperta al lenzuolo sudicio, su su fino al viso di cui illuminò prima uno zigomo, poi la radice del naso, poi l'occhio sinistro.

    L'uomo fece una smorfia e girò il capo, ma il raggio implacabile lo seguì esplorandogli un orecchio peloso, poi la tempia brizzolata e finalmente gli dardeggiò l'altra palpebra.

    Nello stesso istante fu bussato all'uscio e la voce rauca dell'affittacamere gridò: — Signor Jefferson il latte!

    Si udì il tinnire del secchiello posato sul pianerottolo e il ciabattare dei passi che si allontanavano.

    Il dormiente brontolò qualche cosa di indistinto, poi si grattò furiosamente una guancia sbadigliando.

    Un ultimo tentativo di riprendere sonno gli fu vietato dal piagnucolare di un bimbo che nella stanza accanto chiedeva con insistenza qualche cosa. Allora l'uomo si alzò, infilò le pantofole e andò a socchiudere la porta di quel tanto che bastava per infilare nello spiraglio un braccio magro.

    Nel ritirare il secchiello si accorse che sul recipiente c'era una cartolina illustrata e allora richiusa la porta arrancò verso la finestra e ne aprì le imposte.

    La luce invase spietatamente la camera la cui tappezzeria sbrindellata mostrava in più parti l'intonaco, e la camicia dell'uomo balzò come una macchia diafana di contro il pavimento grigiastro.

    Letta la cartolina, che d'altronde portava solo poche parole, l'uomo la buttò in un cassetto e incominciò a vestirsi.

    Andando alla catinella, dette un'occhiata alla propria immagine riflessa nello specchio rotto e indugiò a esaminarsi come si guarda un estraneo.

    Un corpo misero, la testa incassata nelle spalle, dei cernecchi grigi che lasciavano scoperta la sommità del cranio e si arruffavano sul collo, una barbetta a punta...

    Quando ebbe terminato la sommaria toletta, fece il gesto di accendere la spiritiera, poi alzando le spalle con una mossa stanca desistette da questa idea, e portato il secchiello alle labbra bevve il latte freddo asciugandosi poi i baffi col dorso di una mano.

    All'uscita, la padrona di casa dalla cucina gli domandò: — Se viene quel vostro amico, che cosa gli devo dire?

    — Non verrà — rispose l'uomo senza degnarla di uno sguardo, e infilata la porta incominciò a discendere lentamente i gradini corrosi.

    Quando fu in istrada dette un'occhiata al cielo dove si sfilacciavano delle nuvole biancastre, poi risalì fino all'angolo della via a guardare dentro un bar che aveva l'orologio proprio dirimpetto all'ingresso.

    Il quadrante segnava le undici e l'uomo parve soddisfatto. Svoltò per un vicolo dove c'erano dei negozi di erbaggi e delle trattorie di infimo ordine, da questo passò in un altro dove si allineavano delle botteghe artigiane.

    Dallo stambugio di un tornitore giungeva un fruscio roco accompagnato dal pulviscolo biondo della segatura che turbinava nella zona colpita dal sole. In fondo a un cortile qualcuno batteva sull'incudine.

    L'uomo, che sembrava praticissimo dei luoghi, a forza di giravolte sbucò in rue Boissonade, voltò all'angolo del boulevard Raspail e si diresse verso l'imboccatura della metropolitana. A place d'Italie cambiò treno e proseguì fino alla gare d'Orléans. Sul piazzale della stazione si fermò come disorientato battendo gli occhi forse per il riverbero dell'asfalto, e allora un individuo magro correttamente vestito di nero, gli mosse incontro brontolando a mo' di saluto: — Vi riuscisse una volta sola di essere puntuale...

    — Se andaste a letto alle cinque del mattino come sono costretto a fare io...

    Poi non dissero più nulla e proseguirono affiancati verso una birreria che faceva angolo col quai d'Austerlitz.

    Quando furono seduti a un tavolo e il cameriere ebbe servito due bock e delle patate fritte, l'uomo col pizzetto brontolò:

    — Che cosa si dice al castello?

    L'altro alzò le spalle con un gesto annoiato come se avesse ritenuto oziosa la domanda.

    — Pensiamo piuttosto a quello che si deve fare...

    — Per me sono pronto, avete portato...?

    — L'ho in tasca.

    — No?

    — Se vi dico di sì...

    I due parlottarono ancora per qualche minuto, poi il magro vestito di nero, tolse un piccolo involto da una borsa in pelle come quelle che portano gli avvocati, e lo dette all'altro che dopo di aver osservato il pacchetto con una specie di curiosità arguta se lo mise in tasca.

    — Quando partite? — chiese ancora l'uomo magro.

    — Non so... anche subito...

    — Meglio domani.

    — Domani è domenica...

    — Appunto... il principale starà fuori tutto il giorno — poi come se un dubbio lo avesse sfiorato aggiunse: — Siamo intesi che voi non venite da Parigi ma da molto più lontano... per esempio da Marsiglia o addirittura dall'estero...

    — Va bene, vuol dire che arriverò con una valigia... non importa se sarà vuota.

    In quell'istante un giovanotto biondo che dal marciapiedi opposto aveva osservato la scena, si allontanò in direzione del fiume dove un tassì lo attendeva e vi salì ordinando tuttavia al conducente di non muoversi...

    Il commissario Richard col corpo affondato nella sua vecchia poltrona di cuoio, e un enorme scialle di lana sulle ginocchia dormiva e sognava.

    Sognava d'essere in un bosco pieno di uccelletti che cinguettavano, mentre un cavallo vestito da spaccalegna batteva gli zoccoli su di un tronco abbattuto.

    Poi quei colpi diventarono così veementi che egli si destò di soprassalto.

    Il cinguettio degli uccelletti calò di tono fondendosi in un ronzio dovuto al chinino e all'aspirina di cui da una settimana il commissario faceva largo uso, la visione del cavallo vestito da spaccalegna dileguò insieme col ricordo di un vecchio cartone animato di Disney al quale forse il sogno si era inspirato, e soltanto i colpi restarono netti, precisi, inequivocabili, veri colpi di zoccolo battuti contro un legno sonoro.

    Il poliziotto si alzò sbadigliando e andò ad aprire.

    Sulla soglia si inquadrò la sagoma bonaria e un tantino grottesca della sorella Geneviève che aveva le braccia ingombre di pacchi, di bottiglie, di giornali.

    — Scusa se ti ho disturbato... ma ho dimenticato la chiave, e quel dannato elettricista non è ancora venuto ad aggiustare il campanello... gli ho già telefonato tre volte... ti eri addormentato, è vero?

    — No, no... sognavo...

    — Lo vedi dunque... e come ti senti? Vuoi che ti prepari del latte caldo col miele?

    — Ah, no eh... basta! Me ne hai già rifilato di sbobbe da questa mattina...

    — Ma lo sai pure che con queste forme influenzali ci vuol molto liquido... anche il dottor Milton...

    — Al diavolo anche lui! Prima veniva due volte al giorno, adesso non si fa più vedere...

    — Ma se ha telefonato mezz'ora fa...

    — Mezz'ora fa?

    — Ma sì, prima che io andassi a far la spesa.

    — E perché non me lo hai detto?

    — Perché ti eri appisolato e non ho voluto svegliarti.

    — Male, malissimo... se andavo al telefono io, glie ne dicevo quattro!

    — Ma perché?

    — Perché, perché... ti pare modo questo? Mi ha fatto ingoiare un mucchio di intrugli... lui le chiama specialità... e io sono ogni giorno più invalido.

    — Ma, caro, sono quattro giorni che ringraziando Iddio non hai più febbre, e questo non lo dobbiamo forse al dottor Milton e alle sue medicine?

    — Belle porcherie... intanto non faccio che trascinarmi da una poltrona all'altra e dormire come una talpa... con dei sogni stupidi poi... figurati che quando sei arrivata tu, credevo che fosse un cavallo...

    — Grazie tante.

    — Ma no, cosa c'entra... è a causa dei calci che davi alla porta.

    Intanto Geneviève che aveva scaricato tutte le impedimenta sul tavolo della saletta da pranzo, faceva la spola fra questa e la cucina, distribuendo le vettovaglie per ordine gerarchico... i fagiolini nella rete metallica... le scatolette di conserva nell'armadio, lo zucchero nel barattolo di vetro... Arrivata alla fine, alzò le braccia al cielo con un gesto di comica disperazione: — oh, povera me... la lettera!

    — Che lettera?

    — Ho dimenticato di darti la lettera che ho trovato in portineria... bisogna proprio che non abbia più la testa a posto... già, quando sei ammalato non capisco più niente!

    — Chi è che mi scrive?

    — Non saprei, guarda un po' tu...

    Il convalescente prese la lettera, e dando un'occhiata al timbro brontolò: — St. Quentin... chi diavolo può essere?

    In quel momento fu bussato all'uscio e al commissario giunse dall'anticamera la voce di Geneviève.

    — Oh, buon giorno dottor Milton! Si parlava proprio di voi un momento fa...

    — Buon giorno signorina Geneviève, come sta l'illustre infermo?

    — Ah, siete voi Milton? Venite, venite... ve lo dò io l'illustre infermo... badate che ne ho abbastanza, ne ho fin sopra i capelli!

    — Che cosa è successo? — esclamò giovialmente il dottore entrando insieme con una ventata fresca che sapeva vagamente di acqua di colonia.

    — È successo che finirò per prendere tutti i vostri medicinali e tutti questi scialli, per farne un fagotto e buttarli dalla finestra. Sono stanco di russare su di una poltrona con le orecchie rintronate dalle vostre droghe.

    — Be' vediamo un po' — e così dicendo il dottor Milton prendeva una sedia e mettendovisi a cavalcioni afferrava il polso del suo vecchio amico.

    — ... là... là... là... benissimo, farete benissimo!

    — Benissimo che cosa?

    — A buttare via le mie medicine e fino a un certo punto anche gli scialli di vostra sorella... oggi è una vera giornata di primavera e potete andare a fare due passi.

    — Ma anche ieri ho fatto due passi e poi mia sorella mi ha scaraventato un'altra volta in poltrona.

    — Ebbene, oggi fatene quattro... otto... insomma moltiplicate i vostri passi e soprattutto prendete dell'aria, anzi se la cosa fosse possibile, vi consiglierei addirittura di cambiar aria.

    — Cambiar aria? — interruppe spaventata la zitellona — non me lo farete partire adesso...

    — Perché no? Non un viaggio lungo, beninteso, ma poche ore di treno che domani lo portassero lontano da Parigi sarebbero il tocca e sana... Nelle convalescenze di forme influenzali la medicina moderna prescrive aria e moto per disintossicare i centri infetti.

    — Salvo poi fra qualche anno a prescrivere il contrario — brontolò Richard che brancicava in tutte le tasche alla ricerca degli occhiali.

    — Naturalmente, anche la medicina ha le sue mode... e che per questo?... Che cosa cercate, le sigarette?

    — Ma no, cerco gli occhiali per leggere questa dannata lettera che viene da St. Quentin dove non conosco nessuno... be' leggetemela voi Milton se non vi dispiace...

    — Come credete... E il dottore lesse: «Caro Richard, immagino la faccia da tricheco che farai leggendo questa lettera...» Milton s'interruppe per mormorare: — Devo andare avanti?

    — Ma sì, ma sì... intanto potrete constatare che non ho per niente una faccia da tricheco... e poi andate un po' a vedere la firma di quell'idiota.

    «Il tuo affezionato vecchio amico Dulac...»

    — Ah... Dulac... di' Geneviève, pensa un po' chi mi scrive... quel bestione di Dulac... ma che diavolo fa a St. Quentin? Dovete sapere Milton che si tratta di un vecchio commissario a riposo... eravamo ispettori insieme più di trent'anni fa... be' andate avanti.., sentiamo che cosa vuole...

    — Dunque... dov'ero rimasto... ah... «la faccia di tricheco che farai leggendo questa lettera... sono proprio il tuo vecchio Dulac che ha lasciato definitivamente Compiègne, e approfittando di una piccola eredità, ha acquistato una bicocca a St. Quentin, ai margini della foresta...»

    — Hai sentito Geneviève? Dulac è diventato proprietario... che fortuna che ha sempre avuto quel vecchio cammello... Scusate, Milton, andate avanti...

    — Dunque... «ai margini della foresta dove mi concedo delle scorpacciate di fragole e vado a caccia di conigli selvatici dei quali il mio fucile fa una vera ecatombe...»

    — Bum! Esagerato... scusate Milton, andate avanti.

    Milton andò avanti fra un'interruzione e l'altra per quattro fitte pagine, e alla fine fu lui stesso che si interruppe per esclamare: — Ora viene il buono... sentite questa... «Dopo tutto quello che ti ho detto, spero che non avrai difficoltà ad accogliere il mio invito e venire a passare qualche giorno nel mio quasi castello... Coi migliori ossequi per la signorina Geneviève anche da parte di mia moglie, ti stringo forte la mano. Il tuo vecchio Dulac, etc., etc...».

    Seguì un silenzio durante il quale Geneviève che era comparsa con un vassoio su cui fumavano le chicchere del caffè, e il commissario che aveva finalmente ritrovato gli occhiali e se li era messi a cavalcioni sul naso, si guardarono perplessi.

    — Che c'è? — chiese Milton — vi spaventa una gita a St. Quentin?

    — Non è questo — brontolò Richard — è che avevo promesso a Blereau di rientrare in servizio al massimo fra tre o quattro giorni...

    — E chi è Blereau?

    — Il commissario Blereau dell'Investigativa, che da dieci giorni mi sostituisce... quel poveretto deve reggere il suo ufficio più il mio...

    — Oh, se non è che per questo — troncò Geneviève — sono la prima io a dirti di partire subito... quante volte hai sostituito tu gli altri... ti ricordi quello che è successo all'epoca di Lafitte? E il mese di ferie che hai perduto per Launoy?

    — Che c'entra, quelli erano casi di forza maggiore, si trattava di colleghi ammalati...

    — E tu non sei forse ammalato?

    — Ma se vado a mangiar le fragole e a cacciar conigli...

    — Intanto adesso la caccia non è aperta — interruppe Milton conciliante — e poi voi siete ancora ammalato, o meglio intossicato, e sono io vostro medico curante che vi ordino, dico vi ordino, di assentarvi per almeno tre giorni da Parigi e andare a respirare l'aria balsamica di St. Quentin...

    Ci furono ancora delle proteste (sempre più deboli) da parte di Richard e finalmente la partenza fu decisa per l'indomani domenica delle Palme.

    L'indomani la giornata si presentò sotto il segno dell'incertezza, del contrattempo e dell'equivoco.

    Mattinata nuvolosa con vento di levante... dubbi di Geneviève sull'opportunità del viaggio, e ostinazione di Richard che incominciò a tirar giù dall'armadio la sua valigia di fibra.

    Vana ricerca della chiave della medesima, e prorompere da parte del commissario in una serie di quelle esclamazioni che egli chiama energiche e la sorella qualifica turpi. Tentativo di arrangiar le cose con una cinghia e proteste sdegnate di Richard.

    — Non viaggerò mai con una valigia da emigrante!

    — Non capisco perché una valigia legata con una cinghia debba essere da emigrante.

    — Questione di sensibilità

    — Ma dove vuoi che ti vada a pescare un'altra valigia di questo formato!

    — Basterebbe uscire e comperarne una nuova...

    — Bravo ! Ti dimentichi che è domenica...

    Il battibecco si prolunga fino alla prima colazione, dopo la quale Geneviève ha un'idea luminosa.

    — Perché non prendi la valigia della zia Eulalie?

    La valigia che porta questo appellativo ha una storia e lo si vede da molte cose, però possiede una chiave e una serratura a scatto che costituiscono il legittimo orgoglio della povera zia. Inoltre è una valigia che sembra piccola ma può contenere un intero corredo.

    Attorno alla valigia della zia Eulalie si accende un'altra discussione questa volta d'ordine tecnico-estetico.

    — Sembra un oggetto da museo.

    — Ma è praticissima... e poi è in vera pelle, pelle di una volta!

    — Già, perché una volta i buoi nascevano con un'altra pelle!

    A colazione l'ultima contrarietà arriva per telefono. L'ufficio Dame Patronesse avverte Geneviève che è di turno dalle 14 alle 17 all'Ambulatorio rionale dei bambini poveri.

    — Capita una volta ogni tre mesi, e deve capitare proprio oggi! Così non ti posso accompagnare alla stazione!

    — Be', non te la prendere... si tratta di un viaggio così breve...

    — Ma non è il fatto in sé... è la coincidenza che fa dispetto.

    Come Dio vuole il commissario Richard alle ore 15,30 ossia con buoni 40 minuti di anticipo sull'ora di partenza, giunge alla Gare du Nord e va a sedere nella prima sala d'aspetto che gli si para davanti, mettendo la valigia sull'enorme tavolo di quercia che sta al centro della sala.

    Geneviève prima di andarsi ad occupare dei bambini poveri del rione, è riuscita a rifilargli ancora dell'aspirina e del chinino, oltre a del latte caldo e del cognac.

    Tutta questa roba, insieme col sole di primavera, gli mette addosso una specie di languore tiepido e fa sì che il commissario seduto sul divano di velluto abbia la sensazione di sprofondare lentamente in un pozzo sonoro, dove ci sono dei fischi di treni in manovra, dei colpi che potrebbero essere fucilate ai conigli, e l'eco di una canzonetta fastidiosa sincronizzata col battito delle tempia fino all'infinito. La sua mano grassoccia si alza ogni tanto a respingere la tesa del cappelluccio a fungo che scivola sempre più indietro sul cocuzzolo, e un ragazzetto che biascica un biscotto a due passi dal dormiente si diverte un mondo a veder spuntare sempre più convesso e lucido l'enorme cranio di Richard, rugiadoso di sudore come un cocomero messo in ghiaccio.

    A un tratto il guardiasala lancia con voce stentorea: — Per Compiègne... Cambrai... Lille... in vettura!

    Allora dagli abissi dell'inconscio il dormiente risale di colpo a galla balzando verso la valigia che non è più sola sul tavolo di quercia, perché sullo stesso piano ne è spuntata una fungaia.

    L'afferra, si precipita verso l'uscita cercando in tutte le tasche il biglietto, ma quando sta per varcare la soglia un'altra voce più acuta di quella del guardiasala si eleva lanciando il drammatico grido: — Al ladro! Al ladro!

    Chi ha gridato è un individuo piccolo con una barbetta a punta e una sdruscita palandrana sulle spalle.

    L'ometto si lancia sulle orme del commissario, Io raggiunge e tenta di strappargli la valigia. In un baleno Richard è attorniato da una folla minacciosa, un gendarme gli sventola una mano ossuta davanti al naso esclamando in tono beffardo: — Alto là amico... per questa volta t'è andata male!

    Il commissario, che nell'atto stesso in cui l'uomo dalla barbetta glie l'ha strappata di mano si è accorto che la valigia non è quella della zia Eulalia, barbuglia delle scuse, ma alla frase del gendarme scatta diventando cremisi: — Voi tenete le mani a posto e non fate dello spirito idiota! — poi tenta di ritornare al tavolo dove ha già visto il suo bagaglio, ma la folla lo stringe sempre più, e allora è costretto a spiegarsi, a declinare le generalità con la qualifica di funzionario.

    Naturalmente subito l'equivoco si spiega e il gendarme è il primo a profondersi in scuse, ma Richard è furibondo per lo stupido incidente, e quando riesce ad arrampicarsi nel suo scompartimento di prima classe ha già mandato al diavolo Dulac e i suoi conigli.

    Con la coda dell'occhio vede l'uomo dalla barbetta salire corrucciato in un vagone di seconda, tenendo la valigia a due mani come per tema che qualcuno possa ancora attentare a quel tesoro.

    «Va là... che anche tu hai un bel capolavoro di valigia, imbecille» pensa Richard mettendo sulla reticella la sua. Il treno si muove lentamente uscendo dal buio fumoso della tettoia e sussulta sulla rete degli scambi mentre i bracci di segnalazione con gesti anchilosati alzano i dischi verdi di via libera.

    Le quinte grige dei casamenti di rue Stephenson zebrano il convoglio a strisce alternate di luce di ombra. Al cavalcavia di Poissonières fanno ressa le file di operai in bicicletta che si avviano alla periferia, poi la velocità aumenta e il paesaggio squallido della banlieue occupa l'orizzonte col mare rugginoso dei suoi rottami pavesati di stracci, con le sue tettoie di lamiera ondulata, coi suoi comignoli di fortuna ancorati col fil di ferro.

    Una cortina di vapori giallastri impedisce al sole di mostrarsi e dal cielo scende una luce falsa che fa male agli occhi. Il commissario tira le tendine, si toglie il cappello, e approfittando di essere solo si mette di traverso slacciandosi anche il colletto.

    A St. Denis già sonnecchia, e quando il convoglio abborda la gran curva di Creil contornando il bosco omonimo e l'incantevole riviera costituita dall'incrocio del Therain coi suoi affluenti, il vecchio Richard russa, insensibile al tramonto sanguigno che indora le colline dell'Oise.

    Russa, ma il suo sonno non è tranquillo. Un po' per l'incidente della stazione, un po' per i residuati della febbre (che avesse ragione Milton quando parlava di fenomeni post-influenzali a carico del sistema nervoso?) il commissario Richard dormendo si agita come in preda ad un incubo.

    Vorrebbe svegliarsi, ma il torpore che lo inchioda sul sedile di velluto glie lo impedisce; sogna, ma capisce di sognare, e l'ansito del suo respiro affannoso si confonde con l'ansito del convoglio.

    Non ha un'idea chiara del tempo, ma sente che la giornata è finita, anche perché un senso di frescura sul collo lo avverte che dal finestrino entra la brezza della sera.

    Egli non sa che il treno sta per giungere a Compiègne, ma anche se fosse sveglio il crepuscolo gli impedirebbe di vedere il celebre castello che Luigi XIV ha edificato e Napoleone restaurato, la cui massa imponente si profila già fra gli alberi.

    La lotta fra l'uomo che vuole risvegliarsi e il suo corpo che non ci riesce, dura un minuto e un'eternità, finché al momento in cui lo spasimo giunge al suo parossismo, uno stridio lacerante di freni e un brusco sussulto scuotono il convoglio, mentre una specie di contrazione dolorosa percorre le giunture metalliche del treno.

    Negli scompartimenti i viaggiatori sbatacchiano come marionette uno contro l'altro. Il commissario Richard ruzzola addirittura sul pavimento e subito si rialza bestemmiando.

    Un attimo di silenzio profondo ha tenuto dietro a quel brusco scossone, poi si ode un trillo di fischietto che sembra stranamente infantile.

    Altro silenzio angoscioso.

    Una voce lontana interroga...

    Nel crepuscolo nebbioso passano ombre veloci e un rumore di ghiaia smossa indica che qualcuno del personale viaggiante è sceso sulla scarpata.

    Il commissario esce nel corridoio e coglie a volo un lembo di frase: ... tirato il campanello d'allarme...

    Si lancia in direzione della motrice (neanche lui sa bene il perché) e la sua corsa è ostacolata da altri passeggeri che si affollano fra uno sbatacchiare di portiere.

    A un certo punto la ressa blocca il budello del corridoio e Richard è costretto a urlare: — Polizia! Largo!

    In uno scompartimento di seconda classe, giace riverso un uomo, e una striscia di sangue che scende dalla tempia gli riga lo zigomo e si aggruma fra i peli della barbetta.

    Un corpo misero, una testa incassata nelle spalle, dei cernecchi grigi che lasciano scoperta la sommità del cranio e si arruffano sul collo...

    Le sue braccia stringono convulse la celebre valigia che evidentemente l'aggressore non è riuscito a strappargli. Lo sportello spalancato indica la via seguita dall'assassino nella fuga.

    Un cartello pubblicitario con il marchio di una famosa acqua minerale penzola semi-strappato dalla reticella, e quel particolare banale diventa altamente drammatico e documenta la lotta che si deve essere svolta nel breve spazio dove è entrata la morte.

    II. L'uomo piovuto dal cielo

    II commissario Richard incominciò col far sgombrare lo scompartimento da tutti gli estranei che vi si erano accalcati, e dopo di aver messo un ferroviere di guardia all'ingresso del corridoio interpellò il capo-treno.

    — È possibile ispezionare la linea con delle lanterne? Può darsi che il nostro tipo si sia rotto le ossa...

    — Non è possibile neanche star fermi un minuto di più, commissario... sono le 18,47 e fra cinque minuti ci arriva alle spalle il 275 B.

    — Non possiamo fermarlo con i segnali di via ingombra?

    — Sì, ma blocchiamo a Compiègne il rapido che viene da Lille... Avessimo almeno passato la biforcazione di Terry, ma siamo sotto bivio e quindi dalla parte del torto... dobbiamo partire subito... a Compiègne potete far staccare il vagone...

    — Sta bene, partiamo... avvertite i viaggiatori che a Compiègne questo vagone deve essere libero e che si preparino in tempo al trasbordo.

    Si udirono dei tonfi di sportelli battuti con violenza, dei trilli di fischietto, delle brevi frasi simili a ordini, poi il convoglio si mosse lentamente e nello scompartimento tragico restò solo Richard in muto colloquio col cadavere.

    Scomparsa ogni traccia di sonnolenza e di debolezza, il corpo massiccio del commissario aveva assunto l'aspetto dei giorni migliori, e i piccoli occhi mobilissimi già inventariavano tutto quello che c'era nello scompartimento.

    Quando fu certo di non poter dimenticare più nessun particolare della scena come gli si era presentata al primo momento, tolse non senza qualche difficoltà la valigia dalle mani rattrappite del cadavere e la posò sul sedile vicino a lui.

    La leggerezza estrema di quella scatola di fibra, gli ricordò l'analoga sensazione provata al momento in cui, alla Gare du Nord, l'aveva tolta di sul tavolo.

    Se l'uomo dalla barbetta non avesse suscitato quel baccano, il commissario dopo pochi passi si sarebbe accorto di aver sbagliato, se non altro per la differenza di peso, e se ciò non era avvenuto immediatamente lo si doveva al torpore e al malessere del quale era stato in preda.

    Ora per esempio la lievità di quell'oggetto gli si era subito palesata, e tuttavia senza l'incidente della Gare du Nord avrebbe potuto pensare che la valigia fosse stata alleggerita prima o dopo l'aggressione.

    Poiché frugando il cadavere aveva rinvenuto un mazzetto di chiavi, fu tentato di aprirla, ma rimandò l'operazione perché un'irresistibile abitudine professionale lo spingeva a cercar l'arma. Insinuò una mano fra i cuscini e lo schienale, si inginocchiò per terra, e finalmente sotto il sedile, proprio fra i due elementi del termosifone, trovò quello che cercava. Una rivoltella a tamburo cui mancava un proiettile.

    — Si può vedere il controllore? — chiese al ferroviere messo di guardia nel corridoio.

    — Arriva in questo momento.

    Infatti di lì a poco comparve un omone baffuto, con la pinza in mano e un paio di occhiali in bilico sulla punta del naso.

    — Buona sera commissario... eccone uno al quale è inutile chiedere il biglietto...

    — È il primo controllo che fate?

    — Il primo... Di solito si incomincia a Compiègne o un poco prima...

    — Volete darmi il vostro numero?

    — Eccolo commissario — e in così dire l'uomo mostrò il risvolto della giacca.

    Richard prese nota del numero del controllore e anche di quello dell'altro ferroviere.

    — È per rendere più facile il ritrovamento degli altri impiegati quando sarà il momento degli interrogatori — spiegò a titolo di giustificazione, e il controllore annuì col capo.

    Poi si udì il fracasso degli scambi, e davanti al finestrino passarono le scatole luminose delle cabine mentre il treno mandava un fischio che parve un lungo guaito.

    — Siamo a Compiègne?

    — Proprio così, commissario.

    Dopo pochi minuti, il capo-stazione in persona, che doveva essere stato avvertito dal personale viaggiante, gesticolava con le sue braccia corte sul tratto di marciapiede antistante il vagone del delitto, impartendo gli ordini per l'istradamento su di un binario morto.

    Il commissario Richard che era già disceso, mise l'unico agente trovato sotto la tettoia di piantone al cadavere, e si recò alla cabina telefonica dove, riuscito ad avere con insperata facilità la comunicazione col dottor Georges Milton, lo pregò di venir subito a Compiègne.

    Requisì anche due gendarmi di servizio cui aggregò un ferroviere munito di lanterna, e spedì la pattuglia lungo la linea.

    Ultimate queste incombenze si asciugò il sudore, e volse gli sguardi lungo le pensiline alla ricerca di qualche altra cosa che gli mancava, qualche cosa che il suo stomaco reclamava imperiosamente.

    Quando gli riuscì di trovare l'omino bianco-vestito col carretto delle vettovaglie, acquistò alla rinfusa dei panini imbottiti, delle bottigliette di birra, delle tavolette di cioccolata, e si avviò masticando verso il deposito delle locomotive dove era stato mandato il vagone della morte.

    Passando davanti a una cabina di comando, sentì gridare:

    — Il 135 sosta a Saint Quentin, il B 270 riguadagna due minuti e incrocerà a Compiègne... libera la sesta... sì... libera la sesta...!

    Un uomo con la cuffia, parlottava dentro un ricevitore di forma speciale come se facesse delle confidenze a un imbuto, e si capiva che il ritardo dovuto al distacco del vagone si era ripercosso su decine di treni lungo centinaia di chilometri di linea, e tutto l'alveare dei telefoni ronzava nell'affannoso incrocio di ordini che sarebbero serviti a diluire senza incidenti la contrazione di quei tali minuti fino a renderli innocui, disperdendoli lungo l'immenso sistema nervoso delle rotaie.

    Il commissario masticava e sorrideva pensando alla faccia che avrebbe fatto Geneviève se l'avesse visto, e ai brodini coi quali da due settimane la zitellona lo aveva alimentato.

    Sorrideva anche perché sentiva di essere ritornato l'Émile Richard che egli aveva sempre conosciuto, un omone che al momento opportuno si libera con una spallata di tutti i mali piccoli e grossi, ed entra in lizza come se avesse sempre vent'anni. Intanto fingeva di ascoltare il piccolo capo-stazione che gli spiegava con un lusso inutile di particolari, il perché aveva instradato il vagone sul 7° anziché sul 6° binario, annuiva, sempre sorridendo e masticando a un ispettore sbucato chissà di dove che gli preannunziava l'arrivo di due agenti chiesti al commissariato di Compiègne per tener lontani i curiosi, e intorno a lui era uno sfarfallare di lumi rossi e verdi, un soffiare di vapore, un echeggiare di fischi lontani e vicini...

    Un campanello sperduto nell'ombra trillava a intermittenza, e nelle cabine di blocco che scintillavano all'estremità delle gabbie metalliche, si vedevano gli scambisti davanti ai quadri di segnalazione volgere incuriositi la testa verso l'insolito andirivieni, che di lassù doveva sembrare un viavai di formiche affaccendate lungo le pensiline.

    Poi fu l'incrocio dei binari morti, coi treni merci segnati da sigle in gesso, e le muraglie di carbone spruzzate a calce.

    — Per di qua, commissario... no, più a sinistra... come vi ho detto non è stato possibile fruire della piattaforma girevole e allora...

    A mano a mano che avanzavano, il gruppetto si andava assottigliando, finché giunti al luogo dove era stato confinato il lugubre vagone, erano rimasti in quattro: Richard, il capo-stazione, un frenatore con la lanterna, e l'ispettore sbucato chissà di dove.

    Il capo-stazione fu il primo ad accomiatarsi dopo un inchino diplomatico e l'assicurazione che egli era sempre pronto a facilitare il compito del signor commissario per tutto ciò che potevano essere disposizioni d'ordine interno; il ferroviere lo seguì facendo ballonzolare il suo lume, mentre l'ispettore fu il più duro a mollare. Voleva rendersi utile in qualunque modo, ed era visibile l'emozione che lo possedeva per aver potuto finalmente veder da vicino il celebre commissario parigino del quale chissà quante volte aveva sentito parlare.

    Richard gli offrì un panino, una bottiglietta di birra e una sigaretta. Lo stesso fece con l'agente rimasto di piantone sul treno, poi dopo di essersi assicurato che nello scompartimento c'era luce in abbondanza perché il vagone era stato allacciato dal provvido capo-stazione alla linea elettrica, pregò i due poliziotti di lasciarlo solo.

    — Tutto quello che potete fare per me è il servizio di collegamento... questa notte arriverà da Parigi un certo dottor Georges Milton, accompagnatelo qui. Lo stesso farete coi due gendarmi che ho mandato lungo la linea appena avranno fatto ritorno... appuntamento qui... no, grazie, non ho bisogno d'altro, grazie... arrivederci ragazzi...

    E con un cenno amichevole di saluto, il commissario salì nello scompartimento dove giaceva l'uomo dalla barbetta a punta, chiuse lo sportello, abbassò le tendine, e finalmente restò solo a tu per tu col cadavere.

    Tutto intorno il silenzio era profondo e non si udiva che il fruscio liquido di una fontanella che piangeva chissà dove nel buio.

    Allora, con la delicatezza di un innamorato che apre la sua prima lettera d'amore, trasse di tasca il mazzetto di chiavi trovato nelle tasche del morto, e aprì la valigia.

    A prima vista gli sembrò del tutto vuota... ma no... in fondo c'era qualche cosa... una specie di straccetto nero, uno straccetto di lana...

    Il commissario prese quello strano piccolo indumento e lo voltò e rivoltò sotto la lampada.

    Era un berretto basco, uno di quei berretti che le donne sferrettano con della lana blu durante le lunghe sere invernali.

    Il berretto appariva vecchio, stinto, e a guardarlo bene aveva da una parte un foro che sembrava quello prodotto da un colpo d'arma da fuoco sparato a bruciapelo.

    Nell'interno c'erano anche delle macchie nerastre.

    Il commissario sedette di fronte al morto come volesse interrogarlo e i suoi occhi si spostavano alternativamente dal cadavere al vecchio berretto di lana.

    La valigia non conteneva altro.

    Era per la salvaguardia di quel misero straccetto che l'uomo aveva sollevato un putiferio alla gare du Nord... era per rubare quel palmo di lana sporco che un altro uomo non aveva esitato a uccidere...

    Nel vasto silenzio che gravava all'intorno, si acuiva la sensibilità di Richard teso a scrutare il viso del cadavere.

    Le mani del poliziotto voltavano e rivoltavano il berretto di lana come se da tutto quel silenzio e da tutto quell'orrore una risposta avesse dovuto finalmente giungergli, ma i suoi occhi si perdevano nel vuoto di quella logora valigia spalancata che mostrava la fodera, le sue mani continuavano a palpare lo straccio di lana che ne aveva cavato fuori, e i suoi nervi tesi non riuscivano a captare null'altro se non il fruscio liquido della fontanella che piangeva, chissà dove nel buio.

    Quando il dottor Georges Milton giunse alla stazione di Compiègne, il quadrante luminoso sotto la pensilina centrale segnava la mezzanotte meno un quarto.

    Il medico perito della Sûreté, che da tanti anni collaborava col commissario Richard, si diresse all'ufficio di Polizia, ma prima ancora di varcarne la soglia un giovanotto bruno e tarchiato che sembrava attendere sul marciapiede gli si fece incontro interpellandolo concitatamente.

    — Siete voi il dottor Milton?

    — Come lo sapete?

    — Ricordo la vostra fotografia sui giornali all'epoca dell'affare Cabanel...¹ l'uomo ucciso davanti al telefono...

    — Ah, capisco... il commissario Richard mi attende?

    — Sì, dottore... al deposito locomotive... abbiamo un affare molto importante.

    Milton capì tutto il valore di quell'«abbiamo» e sorrise.

    Giunti davanti al vagone del delitto, l'ispettore con un cenno d'intesa si arrampicò fino al vetro di uno sportello e bussò con discrezione.

    Si udirono scorrere le tendine, il vetro si abbassò, e il testone di Richard apparve nell'inquadratura del finestrino.

    — Oh, Milton... siete qua... bravo... siete davvero un gran medico!

    — Perché?

    — Perché mi avevate predetto che cambiamento d'aria mi avrebbe fatto bene; non potevate essere miglior profeta.

    L'ispettore, dopo di aver ceduto il passo al medico, si inerpicò a sua volta nello scompartimento, e vedendo che il commissario lo guardava burbero si affrettò a balbettare: — Ho già avvertito il mio collega Morris di accompagnare qui i gendarmi quando rientreranno dal servizio...

    — Va bene, allora restate — brontolò il commissario rabbonito. Poi a temperare la gioia che traspariva dal viso del subalterno, aggiunse: — Però non toccate assolutamente nulla e non venitemi fra i piedi.

    Subito dopo metteva Milton al corrente di quanto era avvenuto con particolare riguardo alle circostanze nelle quali si era presumibilmente svolto il delitto.

    Il medico si curvò sul cadavere, esaminò con visibile curiosità il berretto di lana trovato nella valigia, e lesse a mezza voce sulla carta d'identità che il poliziotto gli tendeva: «Michel Jefferson».

    — È un inglese naturalizzato francese — spiegò Richard allineando sul sedile le altre carte rinvenute nelle tasche dell'ucciso, poi aggiunse: — Il portafogli contiene soltanto cinquanta franchi e il biglietto per Lille.

    Milton, che si era rimesso ad esaminare il cadavere, si tolse di tasca un astuccio di cuoio, ne trasse una pinzetta e borbottò: — Il proiettile non deve essere entrato in profondità data la localizzazione.

    Infatti dopo due o tre tentativi, il dottore mostrò con un sorriso di soddisfazione un piccolo pezzetto di piombo ammaccato, porgendolo al commissario fra le punte zigrinate della pinzetta d'argento. Richard cavò di tasca la pistola a rotazione rinvenuta sotto il sedile, ne rovesciò il tamburo e paragonò i proiettili con quello estratto da Milton.

    Nessun dubbio era possibile; il proiettile che aveva ucciso Michel Jefferson era di calibro notevolmente inferiore a quelli contenuti dalla pistola.

    Il commissario si guardò intorno corrugando le sopracciglia cespugliose, e dopo di aver ispezionato cogli occhietti grifagni le spalliere dei sedili, bofonchiò: — Ecco qua... Infatti vicino alla leva del caldo e freddo, il velluto dello schienale che stava di fronte al cadavere mostrava un piccolo foro. Estraetemi quest'altro dentino, Milton!

    Il dottore introdusse nel foro la sua magica pinza, e dopo di aver sfrugacchiato con estrema delicatezza, estrasse un altro proiettile.

    — Questo sì, è della stessa razza — esclamò Richard quando lo ebbe esaminato.

    — Allora l'assassino ha portato

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