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Nelle braccia del carnefice
Nelle braccia del carnefice
Nelle braccia del carnefice
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Nelle braccia del carnefice

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About this ebook

Daniela è una vittima di stalking. Dopo un anno di violenze fisiche e psicologiche subite da Michele, il suo compagno, ha trovato la forza di lasciarlo, ma lui non si rassegna. Daniela ha paura di uscire, teme per la sua incolumità e deicide di rivolgersi al Centro Antiviolenza di Napoli, dove intraprende un percorso psicologico che metterà a fuoco i suoi meccanismi interiori, quelle dinamiche contorte e inconsapevoli che le hanno permesso di attirare, sin da bambina, uomini violenti. Daniela diventerà così una donna nuova e incontrerà Beniamino, un uomo dolce e affidabile, da lui imparerà il rispetto, la fiducia e la comprensione reciproci.

Lungo il sentiero introspettivo della protagonista ci si incammina anche nel percorso istituzionale, un vero e proprio labirinto, che lo Stato ha predisposto a tutela delle vittime: i Centri Antiviolenza, i presidi ospedalieri dedicati, la Procura della Repubblica, le Forze dell’Ordine. La suddivisione dei compiti, i tempi, le falle e i difficili raccordi mettono in luce quanta strada c’è ancora da fare per assicurare tempestività ed efficacia nell’arginare un problema vasto, preoccupante, spesso dall’epilogo tragico, come la violenza di genere.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateMay 3, 2018
ISBN9788892687868
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    Nelle braccia del carnefice - Francesca Scamarcio

    carnefice

    PRIMO CAPITOLO

    Finalmente è arrivata Teresa, Teresa Improta.

    La dottoressa De Gregorio verrà più tardi, ora la faccio entrare da un collega per il referto, metto a posto queste cartelle e sono subito da lei.

    Resto impalata come una scema, le mani infilate a pugno nelle tasche del cappotto, le ho sussurrato solo un grazie. È più di mezz’ora che l’aspetto, immaginando come potesse essere, niente di preciso ma me la figuravo diversa. Avrei scommesso che fosse alta e invece è così bassa che, vista da dietro, potresti scambiarla per una bambina. Gli occhi sono belli allungati, quasi dello stesso verde del camice che indossa, i capelli neri e ricci sono trattenuti sulla nuca da un debole fermaglio, credo che si sia sganciato, tra poco finirà a terra. Al Centro Antiviolenza ieri si sono raccomandati tanto di chiedere di lei e di precisarle che mi mandavano loro. La ragazza dell’accoglienza mi aveva segnato il nome su un pezzetto di carta che per l’ansia ho trasformato in una pallina, ora la sto spingendo forte nel fondo della tasca, le dita della mano destra all’improvviso si sono accanite sulla cucitura. Avevo capito che al pronto soccorso Teresa contasse molto, invece ha l’aria di chi rispetta i ruoli e non se ne riconosce uno preciso.

    Scompare in fondo al corridoio insieme al rumore degli zoccoli bianchi traforati.

    Ecco che torna, i capelli li ha sistemati meglio. Mi fa segno di seguirla. Arriviamo in una casupola di alluminio anodizzato e vetri opachi che è verso l’ingresso, dentro c’è un uomo alto e calvo seduto al computer, mi consegna a lui in silenzio e se ne va di nuovo.

    Come si chiama?

    Daniela Sassone, ho quarantadue anni, faccio l’architetto, sono separata da quattro anni, ma lo stalker non è il mio ex marito, cioè, voglio dire, non più, perché ora è il mio ex compagno.

    In questi occhi piccoli e neri neanche un guizzo di stupore.

    Non sta dormendo di notte, vero? Fa sogni agitati, pensa di subire un’altra aggressione, ha attacchi di panico. Ora le do venti gocce di Lexotan, si sentirà subito meglio.

    Scrive, scrive tanto. Chissà cosa starà aggiungendo alle poche cose che gli ho riferito. Ha parlato di attacchi di panico. Non direi, mi sembra più una paura fissa la mia, non arriva all’improvviso, è qualcosa che non mi lascia mai, forse avrei dovuto precisarglielo.

    Qual è l’indirizzo? Questo segnato sul documento?

    No, quello è il vecchio, ora abito in via Bonito 21.

    La voce mi esce così sottile che non la riconosco. Credo di averlo già promosso come mio nuovo salvatore, al posto di Teresa. Dice che dopo di lui ci sarà un medico, un certo dottor Abbate, poi andrò dalla dottoressa De Gregorio.

    Vedrà, signora Daniela, d’ora in poi questo signore non le darà più fastidio.

    Com’è bello lasciarsi guidare dalla sua sicurezza, tutta la confusione che avevo in testa fino a cinque minuti fa comincia a diradarsi, come la nebbia quando è trafitta dai raggi di un sole deciso. Sembra che dal suo camice bianco emani una luce che si infila nel buio dei miei pensieri per fare spazio a qualcos’altro. Per prima cosa fa spazio a un’immagine. È la scena di quel gioco che facevamo da piccoli, in cui si cadeva all’indietro tra le braccia di qualcuno, si chiamava il gioco della fiducia. Io non partecipavo mai, guardavo soltanto, che ne sarebbe stato della mia schiena se uno dei miei amici si fosse distratto? Dei maschi non mi fidavo già allora, lo facevo solo con mio padre quel gioco, cadevo e cadevo, decine di volte, fino a che si stancava e mi chiedeva di smettere. È proprio così che mi sento con questo infermiere, come quando cadevo a occhi chiusi tra le braccia di mio padre, sento di potermi affidare a lui anche se è un uomo e anche se non è mio padre. Sento che a partire da questo momento finirà il mio inferno.

    A pensarci bene, la mia paura non è sempre uguale, diventa più forte di sera, quando mi metto a letto e subito mi assale il pensiero che Michele possa forzare la finestra, perché il fatto che abiti al piano terra è un rischio enorme. Tutte le volte che mi distendo e provo a chiudere gli occhi, il cuore mi salta in gola, allora mi metto di lato, ma così lo sento anche più forte, come una specie di tamburo tra l’orecchio e il cuscino, peggio ancora se mi metto a pancia in sotto. Allora mi alzo, vado in cucina e preparo la solita camomilla bollente, faccio il giro della casa, guardo sul pianerottolo dallo spioncino della porta e controllo almeno dieci volte se tutte le persiane sono chiuse bene. Ritorno a letto così sfinita che a quel punto il sonno può solo vincere. Quel rituale ossessivo ora mi sembra diventato una bolla, come una bolla fragile di sapone su cui sta soffiando la bocca di quest’infermiere buono. Chissà quante donne gli saranno capitate qui dentro, avrà fatto l’abitudine ad ascoltare storie assurde come la mia. Mi sembra di vederle ancora qui tutte quelle donne, in testa forse gli stessi pensieri miei, dei figli a scuola da riprendere in tempo, della casa come un campo di battaglia in cui dover tornare per forza. Li vedo tutti quegli occhi, iniettati di speranza, di resistenza, in petto lo stesso rumore del cuore accelerato e poi questi sussulti continui nella pancia. Mi piace pensarle sedute con me su questa panca, sentire i loro respiri che si infilano nel mio e il nostro diventare un unico grande respiro, sincronico. Se penso a loro non mi sento più sola.

    La cosa che mi riscalda è che finora nessuno ha messo in dubbio le mie parole, neanche al Centro Antiviolenza lo hanno fatto. Quando ero piccola, i miei genitori parlavano spesso di coppie di amici o di parenti che non andavano d’accordo e tutte le volte ripetevano la stessa cosa: che bisognava sentire anche l’altra campana, perché in ogni coppia la responsabilità è sempre al cinquanta per cento. Quel concetto del cinquanta per cento l’ho trasformato in una specie di dogma, forse verso i dieci anni, l’ho ricordato persino quella volta che Michele mi diede una ginocchiata alla gamba destra. Era il ventisette febbraio, ricordo bene il giorno perché era il compleanno di mia cognata Antonella, lo avevo accompagnato a Venezia per un congresso di cardiologia ed eravamo appena arrivati in albergo. L’ultima cosa che vidi furono le due valigie a terra, poi si fece tutto buio perché affondai con la faccia sul materasso, mi fanno così schifo i copriletto degli alberghi che di solito non mi appoggio nemmeno, ma era necessario per rannicchiarmi con le gambe al petto e avere qualcosa di morbido contro cui spingere la testa. L’urina intanto premeva per uscire, qualche goccia ce la fece pure, ma il resto lo tratteneva la forza con cui mi contraevo, per fortuna tutti i muscoli si stringevano solidali con quello colpito dal ginocchio di Michele. Solo gli occhi non partecipavano a quello sforzo, le lacrime uscivano copiose, me le asciugava Michele con i baci, chiamandomi di continuo amore mio. Si era lanciato sul materasso anche lui e mi stringeva forte, mi dondolava pure, come si fa con i bambini quando piangono per capriccio. All’improvviso sentii affiorare quel dogma. Lo riconobbi all’istante il mio cinquanta per cento. Suonava come un conforto, una specie di litania ancestrale che incollava tutti i miei frammenti sparsi sul materasso. Mi ci aggrappai come a una corda, cominciai ad avvolgerci intorno le parole di Michele, quelle che mi stava sussurrando in un orecchio per convincermi già a fare pace. Ricordo il calore del suo alito, quel sibilo con cui ripeteva che quel male serviva a farmi capire il suo, quello che gli lacerava il petto tutte le volte che minacciavo di lasciarlo. Dopo qualche minuto il dolore cominciò a scivolare via dalla mia povera gamba, sentivo che mollava la presa, era come se mi dicesse che si stava arrendendo, ma io sapevo bene che non era così. Lo inseguii. Vidi come si annidava subdolo, cercandosi delle nicchie in cui assumere un volto ancora più infame, come quello che hanno solo certe ferite dell’anima. Lo sapevo da tempo che funzionava così, me li portavo già dentro tutti quegli schiaffi che il tempo aveva reso delle cicatrici, ho il cuore pieno di quei tatuaggi dell’amore. A quelle cose che accadevano in silenzio la mente, però, non ci faceva caso, non mi dava ascolto. Con il tempo ho capito che la mente è solo una piccola parte di noi, quella parte con cui galleggiamo nel mondo, come una specie di salvagente dell’anima, e certe cose non le vuole sentire oppure le trasforma come le conviene. Anche quella volta fu così, la vidi sguazzare contenta in quell’assurdo dogma che aveva creato lei, farselo di nuovo amico. Mi suggerì di andare al ristorante prima che chiudesse, non potevamo certo restare digiuni, e poi mangiare era qualcosa che sapeva di vita. Come al solito riuscì a convincermi. Mi asciugai le sbavature del trucco, mi stirai i vestiti addosso con i palmi delle mani e seguii Michele sulla moquette del lungo corridoio. In ascensore vidi che mi fissava dallo specchio. Uscivano mille domande da quello sguardo. Abbassai il mio. Fino alla fine del congresso sembrò che niente fosse accaduto, solo la curiosità dei suoi colleghi ogni tanto serviva a farmi ricordare, ma io ero bravissima a spiegare che ero urtata contro lo spigolo di un mobile in camera, perciò zoppicavo.

    Questo infermiere finora non ha mai parlato di un mio cinquanta per cento, mi ha fatto capire, già dal primo sguardo, che ho ragione e basta. È quasi imbarazzante.

    SECONDO CAPITOLO

    Oltre una porta scorrevole di vetri visito l’inferno del pronto soccorso. Le luci al neon sparate dal soffitto mi fanno socchiudere gli occhi, il linoleum azzurro del pavimento fa pensare al mare. Camici blu che vanno e vengono, mascherine appese al mento, tanti zoccoli bianchi. Cose più importanti delle membra che coprono, riassumono uno scopo. Vite senza nomi, vite che aiutano altre vite, non c’è spazio per altro. Stringo forte la cartella clinica che mi ha messo in mano l’infermiere, c’è già dentro un pezzo di me, mi serve contro il dissolvimento che si sta infilando in tutti i pori. L’empatia è troppo pericolosa, è capace di frammentarmi, è stato sempre così, sin da bambina.

    C’è una sola scrivania dove possa dirigermi, un computer, molte carte sparse, un medico che mi invita con la mano. Si infila gli occhiali e legge sulla cartella. Il tesserino che ha sul camice mi dice che è lui il dottor Abbate, quello che deve completare il referto. Mi siedo.

    Sui quattro lati dello stanzone sono addossate ai muri una decina di barelle, lettini robusti con le rotelle, ognuno circondato da una tenda bianca. Da alcuni provengono dei lamenti, da quello alla mia destra delle grida che appartengono a un uomo, lo confermano anche i piedi che escono dalla tenda, con i calzini da uomo e i peli intorno alle caviglie. Nell’aria un miscuglio strano, tanfo di urina e di altri effluvi indefinibili, quello più forte di feci che si è appena aggiunto mi ferisce le narici in maniera feroce, scende fin giù allo stomaco, che vorrebbe rispondere con un conato. Malattie vere, come un cerchio di dolore, e io e il medico al centro, seduti a questa scrivania che sembra un trono piazzato in mezzo alle miserie umane. È così imbarazzante il motivo per cui sono qui, sono pure truccata e vestita con cura, ho messo addirittura i tacchi, maledetta vanità, ha ragione mia madre quando dice che questa è la mia malattia. Se tutte queste persone sofferenti potessero accorgersi di me morirei di vergogna, sto assorbendo il loro tempo ingiustamente e questa volta non ho nemmeno un segno di Michele per cui farmi medicare, solo un po’ di panico per l’aggressione dell’altra sera. Cosa scriverà questo medico sulla cartella, solo che ho paura, una cosa così stupida su un referto medico di un pronto soccorso. Che figura di merda! Ma la verità è solo questa, che sono un’adulta di quarant’anni che non sa badare a sé stessa. Come mi sembra diversa la dignità che affronta solo le malattie che scendono dal cielo.

    Il dottore mi sta guardando, ancora non parla, sembra scrutare il mio silenzio, cercarvi dentro qualcosa. Si insinua la forma di un suo pensiero malizioso, l’infermiere lo avevo concepito quasi asessuato, con lui è diverso, forse perché è un uomo affascinante. Sento arrivare l’imbarazzo, provo a stornare lo sguardo. Mi capita sempre quando certi uomini mi guardano troppo, è come un duello tra due parti di me.

    Lo stai guardando. No che non lo sto guardando. Sì, dai ammettilo, ti piace.

    Come se poi il piacere fosse una colpa. Fortuna che adesso non sto diventando rossa, perché quando divento rossa vado in tilt. Ricordo quando Michele se ne accorgeva.

    Ti sei fatta rossa perché ti piace, stronza. Io negavo. L’alternativa infelice era provare a spiegargli che lo ero diventata solo per la paura che pensasse che quello lì potesse veramente piacermi. Quello lì era sempre qualcuno che a stento avevo guardato, uno in fila con noi in un negozio, o uno che incrociavamo per strada, l’unica colpa era che mi avesse guardata lui, io di certo non lo avevo fatto, non lo avrei guardato se fossi stata sola, figuriamoci con Michele accanto, mi ero solo un po’ irrigidita. Il mio problema è che sono appariscente, non bella, appariscente. Lo puntualizzava sempre mia madre quando le dicevano che ero bella. Il modo in cui apportava quella rettifica mi convinceva che il mio corpo avesse qualcosa con cui avrei potuto fare danni, quelle parole, dette, non dette, a volte sussurrate a qualche sua amica pensando che non sentissi, si infilavano nelle mie cellule di bambina come da una cannula invisibile e ne uscivano fuori in un miscuglio strano. Era l’epoca in cui mi erano spuntate le due noccioline sotto i capezzoli, ma non ricordo se il ciclo fosse già arrivato, forse arrivò dopo. Potrei aiutarmi con l’orologio, sì, il mio primo orologio, quello che mi era stato regalato dai nonni quando arrivarono le prime mestruazioni, ma non so più se la vanità di vedermelo al braccio si accompagnasse a quella per il turgore dei seni sotto le magliette, che all’improvviso si erano fatte troppo strette. Mi confondo con i tempi, sono passati troppi anni. Comunque, appariscente significava provocante, provocante uguale dannosa, furono quelle le mie prime equazioni emotive. Non avevo quella bellezza che ispira gli artisti più raffinati, ma una bellezza che seminava la malizia, le parole volgari per strada, gli sguardi strani, un duro addestramento a soli dodici anni, ancora peggio a

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