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Un esodato nel paese di sottospra: Consigli non richiesti ai non-renziani del PD
Un esodato nel paese di sottospra: Consigli non richiesti ai non-renziani del PD
Un esodato nel paese di sottospra: Consigli non richiesti ai non-renziani del PD
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Un esodato nel paese di sottospra: Consigli non richiesti ai non-renziani del PD

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Dopo le elezioni politiche del 4 marzo 2018 il centrosinistra italiano ha due sole possibilità: estinguersi per sempre oppure azzerarsi e provare a ripartire aprendo alla collaborazione con il Movimento 5 stelle. Sarebbe questo l’unico modo per evitare di consegnare il Paese alla destra. E sarebbe anche un’ottima occasione per riportare alla politica attiva tanti “non-elettori del PD”, persone come l’autore che, a causa del “renzusconismo” imperante, hanno scelto da anni di ritirarsi a vita privata.
LanguageItaliano
PublisherTito Fornola
Release dateMay 7, 2018
ISBN9788828320630
Un esodato nel paese di sottospra: Consigli non richiesti ai non-renziani del PD

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    Un esodato nel paese di sottospra - Tito Fornola

    Tito Fornola

    UN ESODATO NEL PAESE DI SOTTOSOPRA

    Consigli non richiesti ai non-renziani del PD

    UUID: b39dcd54-51ec-11e8-89bf-17532927e555

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

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    Indice dei contenuti

    UN ESODATO NEL PAESE DI SOTTOSOPRA

    PREMESSA

    IL PAESE DI SOTTOSOPRA

    TURATEVI IL NASO

    IL VOTO UTILE

    IL FALLIMENTO DEL PD

    IL ROTTAMATORE ROTTAMATO

    I NOVE VIZI CAPITALI DEL RENZISMO

    DAL 4 MARZO IN POI

    PIAZZA NAVONA

    SPUNTI E IDEE PER RIPARTIRE

    CONCLUSIONE

    Note

    UN ESODATO NEL PAESE DI SOTTOSOPRA

    Consigli non richiesti ai non-renziani del PD

    Dopo le elezioni politiche del 4 marzo 2018 il centrosinistra italiano ha due sole possibilità: estinguersi per sempre oppure azzerarsi e provare a ripartire aprendo alla collaborazione con il Movimento 5 stelle. Sarebbe questo l’unico modo per evitare di consegnare il Paese alla destra. E sarebbe anche un’ottima occasione per riportare alla politica attiva tanti non-elettori del PD, persone come l’autore che, a causa del renzusconismo imperante, hanno scelto da anni di ritirarsi a vita privata.

    PREMESSA

    7 maggio 2018

    Sono un non-elettore del PD. Uno dei due milioni e mezzo di persone che nel 2013 avevano votato PD e che il 4 marzo 2018 hanno scelto l’astensione o altre liste.

    Mi considero un sincero democratico. Una delle tante persone che ama il proprio Paese e che pensa che la Costituzione Italiana sia una delle più belle e lungimiranti mai scritte. Sono nato all’inizio degli anni ’60 e sono cresciuto con la passione per la Politica e per il buon governo. Il poster della mia cameretta di giovane studente era firmato da Enrico Berlinguer e recitava: " Siamo convinti che il mondo, anche questo terribile e intricato mondo, possa essere cambiato e messo al servizio dell’uomo. Del suo benessere e della sua felicità".

    Per colpa di Berlinguer ho scelto di appassionarmi alla politica. La sua morte, nel giugno del 1984, fu un evento che coinvolse emotivamente milioni di persone. Io fui fra questi. Scelsi di iscrivermi al suo partito senza mai essere stato comunista. Ma all’epoca il PCI era l’unico vera alternativa al Pentapartito e ad un sistema di potere bloccato, ormai indirizzato verso quella degenerazione partitocratica che, qualche anno più tardi, fu portata a galla da Tangentopoli.

    Quando scoppiò Mani Pulite, pochi anni più tardi, avevo già deciso di abbandonare il partito. Ne uscii subito dopo la trasformazione del PCI in PDS, ma a differenza di altri che lo fecero per nostalgia delle vecchie appartenenze, io uscii perché ritenevo la svolta troppo debole e solo formale. Speravo che il valore della Democrazia non fosse un puro corollario entro cui rivangare ideologismi e collateralismi. E sognavo un partito che ponesse quel valore come base fondante della sua identità e modello di riferimento per le sue proposte al Paese.

    Come tanti italiani ho assistito con sconcerto alla discesa in campo di Berlusconi e del berlusconismo, alla sua rapida conquista del consenso della maggioranza del Paese, alla sua degenerazione politica, al degrado morale della classe dirigente, al discredito internazionale derivato dagli scandali, al dilagare della corruzione e dei bunga-bunga.

    Ho sostenuto l’Ulivo di Romano Prodi sperando che potesse rapidamente evolvere in un vero Partito Democratico e che riuscisse a bilanciare e sconfiggere il centrodestra. Ma l’Ulivo era nato su basi vecchie, troppo partitocratiche: fu incapace di contrastare l’egemonia culturale e politica del berlusconismo, la sua finta-modernità e la sua progressiva tendenza a cambiare le regole fondamentali del confronto e del linguaggio politico. In molti casi questa incapacità si trasformò addirittura in una colpevole corresponsabilità.

    Un decennio più tardi ho guardato con scetticismo alla nascita del PD. Non mi ha mai del tutto convinto quel partito. Troppo fredda la fusione che aveva generato la sua nascita, troppi spifferi di vento nei suoi primi anni di vita. Quegli stessi spifferi che poi sono diventati correnti organizzate e confluite in un partito che si è limitato ad essere un unico grande contenitore elettorale, concentrato più sulle carriere individuali che sulla costruzione di una vera intesa con le persone.

    Nel PD mancava già all’inizio – oggi è definitivamente scomparsa – la capacità di consolidare una vera identità politico-culturale e di condividere una prospettiva strategica unitaria.

    Sono milioni le persone che hanno dato fiducia al PD nel momento della sua nascita. Sono centinaia di migliaia quelle che si sono illuse di potersi riconoscere in quel partito e di ottenere spazi di impegno e di collaborazione. Ma la voglia di partecipare, il senso di appartenenza, la disponibilità all’impegno politico non sono dinamiche da alimentare attraverso gentili concessioni di questo o quel dirigente. Serve un substrato politico-culturale che permetta di leggere la realtà andando oltre la cronaca quotidiana; una strategia razionale che permetta di profilare progettualità coerenti; un organico sistema di valori che permetta di dare solide fondamenta ai programmi; un insieme di comportamenti e azioni capaci di inverare, legittimare e spiegare quei valori e quei programmi.

    Il senso di appartenenza e di identificazione in un partito nasce da questi processi, non dagli slogan o dalle battute ad effetto. Il PD invece, soprattutto dopo l’avvento di Matteo Renzi, è diventato un soggetto politico appiattito sulla realtà del presente, privo di storia e soprattutto privo di prospettive. Un partito berlusconianamente convinto che un mesetto di buona campagna elettorale sia sufficiente per mettere una pezza ad anni di errori e di contraddizioni. Un soggetto politico che ha fatto coincidere la propria prospettiva strategica con la carriera di questo o quel leader.

    A causa di questa involuzione ho scelto, da anni, di abbandonare la politica attiva. E del resto dove mai avrei potuto farla? Troppo contestatore per stare nel nuovo PD. Troppo legato ad una vecchia idea della politica per stare nei nuovi Movimenti.

    E così son diventato una specie di esodato della politica. Certe volte mi chiedo quanti siano oggi nelle mie condizioni. Quanti hanno abbandonato, loro malgrado, la politica attiva? Quanti votano con fatica, decidendo solo all’ultimo a chi dare o non dare il proprio consenso? Quanti si astengono?

    Penso soprattutto a costoro, a quelli che scelgono di non scegliere. Non credo che tutte le astensioni siano frutto di indifferenza o superficialità; credo nascano da un senso di estraneità e anche di protesta verso una degenerazione della politica trasformata in una battaglia fra tifoserie; un noi contro un voi che assomiglia sempre più a una contrapposizione calcistica in cui ci si schiera pro o contro a prescindere dai contenuti e dai problemi reali.

    Sono un esodato e sento però di non essere solo. Credo infatti di essere parte di una maggioranza silenziosa e delusa che prova nausea, delusione e rimpianto per una Politica che avrebbe potuto e dovuto essere diversa.

    Eppure, quando Matteo Renzi scese in campo la prima volta, nel 2010, io ci avevo creduto. O quantomeno ci avevo sperato. Alla prima Leopolda io c’ero. Fu l’unica Leopolda a cui partecipai; ma fu anche l’unica a cui non parteciparono molti di coloro che poi sarebbero diventati pasdaran del renzismo. Anzi, ricordo bene gli attacchi e le ironie dei burocrati di partito e le loro ironie sulle ambizioni dei giovanotti che dichiaravano di voler conquistare il PD e con il PD cambiare l’Italia.

    Poi invece Matteo Renzi il PD lo conquistò davvero. E subito dopo occupò anche il governo. E moltissimi di coloro che solo tre anni prima avevano sparato a zero su di lui si convertirono e decisero di sostenerlo.

    Ciò che è seguito è storia recente. Ed è una storia che si è conclusa con la bocciatura politica di Renzi. Ci sono due numeri 4 che caratterizzano questa fine: il primo è il 4 dicembre 2016 quando milioni di italiani, il 65% degli aventi diritto al voto, si schierarono a difesa della Costituzione e per la sconfitta politica del principale artefice delle proposte di modifica della Carta.

    E la seconda è il 4 marzo 2018, la data delle ultime elezioni politiche, quelle in cui è stata certificata la disfatta del renzismo e la sconfitta totale del centrosinistra.

    Nell’arco di cinque anni il PD è passato dagli 8 milioni e 600 mila voti del 2013 ai 6 milioni e 100 mila voti del 2018: 2,5 milioni di voti in meno. Non poco per un partito convinto, fino a un anno e mezzo fa, di poter rappresentare il 40% dell’elettorato. Una disfatta per chi come Renzi ironizzava sul 25% conquistato nel 2013 da Bersani e si accreditava come colui che mai e poi mai avrebbe riportato il PD a quelle percentuali.

    Mi sarei aspettato, dopo una simile disfatta, che dal PD e da moltissimi suoi dirigenti, ci fosse un atto di dignità verso le tante, tantissime persone di persone che nel corso degli ultimi due o tre decenni hanno dedicato tempo, energie e attenzioni alla politica e al centrosinistra.

    Mi aspettavo delle scuse. E mi aspettavo anche qualche vero passo indietro. Vedo invece che il tempo scorre; a poco a poco riemergono gli atteggiamenti, i vizi, gli errori che hanno caratterizzato le origini e la vita del PD.

    Ed è per questo che ho pensato di scrivere queste pagine. E’ un lavoro che parla di Partito Democratico. Di quello che è diventato oggi; di come era; di come avrebbe potuto essere. E’ uno scritto rivolto a coloro che ancora militano in quel partito, ma soprattutto ai tantissimi che, come me, se ne sono andati; ai molti che avevano sperato in un partito che li potesse rappresentare e ai moltissimi che hanno abbandonato quella illusione; a coloro che, nonostante tutto, avevano sperato che il risultato del PD alle recenti elezioni, fosse radicalmente migliore di quello che poi è uscito dalle urne e agli altri. Ed infine a quanti hanno voluto punirlo facendolo sprofondare al risultato peggiore della sua storia.

    Questo scritto non ha alcuna presunzione di fornire risposte oggettive, esaustive e definitive sul dopo-voto. Ha però la volontà di offrire qualche spunto di riflessione sulle cause dell’esito elettorale e sui possibili effetti che quelle elezioni potranno produrre sulla politica italiana e nel PD.

    E’ un punto di vista parziale, limitato, soggettivo e personale. Ma è anche il punto di vista di un elettore che ha sempre convissuto con la speranza, o forse con l’illusione, che la politica possa essere qualcosa di più e di diverso dalla semplice lotta per il potere. Su questo tema – quello della politica intesa come mera lotta per il potere – vorrei dare un avvertimento: coloro che ritenessero che l’unica vera ragione dell’impegno politico sia la ricerca di poltrone e visibilità, non perdano tempo con questa lettura. Non ne ricaverebbero alcun consiglio utile.

    Analoga raccomandazione vale per quegli esponenti del PD che non sono disponibili ad ammettere che la principale causa del disastroso esito elettorale del loro partito ha un nome, un cognome e un indirizzo ben definito: Matteo Renzi, (ex) Segretario Nazionale.

    A chi ha la speranza, o forse l’illusione, di trovare nella Politica qualcosa di più e di meglio dalla competizione individuale per la conquista di poltrone e a coloro che pensano che la politica italiana possa riuscire a sopravvivere anche facendo a meno di buona parte dei leader che l’hanno guidata negli ultimi anni, auguro buona lettura.

    IL PAESE DI SOTTOSOPRA

    IL PAESE DI SOTTOSOPRA

    Se vivessimo in un Paese normale molti dei nostri politici sarebbero da anni dediti ad attività private. Molti altri nemmeno avrebbero iniziato a far politica.

    Se vivessimo in una democrazia normale coloro che perdono le elezioni si dimetterebbero. E lo farebbero per davvero. Quelli che le perdono malamente smetterebbero di operare da leader dei propri partiti e si guarderebbero bene dal formulare ricette sulla soluzione dei problemi. Di sicuro, se tentassero di usare la propria corrente per tenere in ostaggio il Paese, verrebbero isolati e gentilmente invitati ad occuparsi d’altro.

    In un mondo normale coloro che hanno pubblicamente assunto impegni rilevanti - ad esempio quello di ritirarsi dalla Politica se avessero perso un referendum in cui hanno fermamente creduto - lo farebbero e basta. Coloro che si sono affermati come forza anti-sistema dovrebbe avere qualche remora ad andare al governo. Ancor di più dovrebbero averne se per farlo avessero bisogno dei voti e del sostegno di partiti che hanno sempre criticato e spesso denigrato. E quelli che hanno costruito le proprie fortune sull’anti-meridionalismo non cercherebbero i terroni per farci un governo insieme.

    In un sistema politico normale coloro che prima del voto, commentando le sparatorie di un pazzo fascista, avessero dato la colpa di tutto al Governo e alla sua presunta incapacità di contrastare un fenomeno epocale come l’immigrazione extra-comunitaria, oggi dovrebbero essere imbarazzati a fare gli statisti ed a assumere un atteggiamento serio e responsabile. I partiti che dichiarano di essere in campo a favore degli ultimi non dovrebbero primeggiare solo nei quartieri ricchi. Le famiglie vittime della crisi dovrebbero comprendere che la colpa della loro situazione non è di chi sta peggio di loro. I politici che sono divorziati o separati con due o tre famiglie eviterebbero di farsi scudo della Chiesa cattolica per chiedere voti. Quelli condannati per frode fiscale non andrebbero al Quirinale a fornire pareri sulla formazione del nuovo governo. E chi per anni ha pagato la mafia o ha comprato senatori non avrebbe alcuna legittimazione politica e, nel caso in cui riuscisse a scampare la galera, si occuperebbe solo del proprio lavoro e della propria famiglia.

    Ma noi non viviamo in un Paese normale. Noi siamo nel Paese del Sottosopra, dove chi ha ragione finisce con l’aver torto. E chi riflette o pensa, si sente un diverso o un provocatore. Siamo nel Paese in cui affermare alcuni valori fondanti e condivisi, magari scritti a carattere cubitali nella nostra Costituzione, costringe ad andare controcorrente.

    La politica, intanto, sembra una maionese impazzita. Alle recenti elezioni i maggiori organi di informazione pronosticavano un governo di continuità, un Gentiloni-bis sostenuto dal PD, da Forza Italia e da altri gruppi centristi. Abbiamo detto che pronosticavano,

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