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Gli angeli del Bar di Fronte
Gli angeli del Bar di Fronte
Gli angeli del Bar di Fronte
Ebook287 pages4 hours

Gli angeli del Bar di Fronte

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About this ebook

Chiara, italiana, e Paula, rumena. Due giovani voci in una Torino autunnale e desolata. Due ragazze che vivono di lavori umili. Chiara serve ai tavoli di un bar malfamato, Paula fa la badante in nero. Tra di loro un gruppo di ragazzi rumeni che ha tutta l’aria di essere una banda. Una sera, quello che pare essere il capo, Vic, salva Chiara da un tentativo di stupro da parte di due di loro. Chiara vorrebbe sporgere denuncia, ma Vic, che è tanto affascinante quanto ambiguo, le chiede di non farlo, in cambio della sua protezione.  Nel frattempo l’ingenua Paula sogna l’amore, ma ripone tutte le sue speranze nell’uomo più sbagliato che ci possa essere. Un romanzo contro i pregiudizi e contro la violenza, che ha il sapore di una fiaba moderna.
LanguageItaliano
Release dateMay 8, 2018
ISBN9788828320920
Gli angeli del Bar di Fronte

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    Gli angeli del Bar di Fronte - Elena Genero Santoro

    Elena Genero Santoro

    Gli angeli del Bar di Fronte

    Gli angeli del Bar di Fronte

    di Elena Genero Santoro

    Copyright © 2018 Elena Genero Santoro

    Collana Gli scrittori della porta accanto

    Pubblicato in accordo con Gli scrittori della porta accanto e StreeLib

    Immagine di copertina: Damien Petit

    Elaborazione grafica copertina: Stefania Bergo

    Impaginazione: Valentina Gerini

    Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono frutto dell’immaginazione dell’autore, ogni riferimento a persone o fatti è puramente casuale.

    Prima edizione 2014, Zerounoundici Edizioni

    UUID: 9da1b4fe-54a1-11e8-8b94-17532927e555

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Dedicato alla memoria di Paolo Bodino

    Il Cielo su Torino sembra ridere al mio fianco

    (Subsonica)

    Gli scrittori della porta accanto

    Siamo un gruppo di mamme, professioniste, scrittrici indipendenti, blogger, conosciute sul web, attraverso i nostri libri, che nel tempo abbiamo scoperto non essere il nostro unico punto d'incontro.

    Gli scrittori della porta accanto - Non solo libri è nato a fine 2014 con l’intento di creare un luogo pubblico di incontro, una sorta di libreria virtuale per i nostri libri, cercando di coinvolgere un numero sempre più ampio di lettori, per volere di Stefania Bergo, che si è sempre occupata della gestione web e della grafica oltre ad esserne il direttore editoriale, e di Valentina Gerini, social media manager e caporedattrice, Tamara Marcelli, responsabile editoriale Poesia e Teatro, Ornella Nalon, public relations manager, responsabile risorse umane e caporedattrice, Silvia Pattarini, caporedattrice e responsabile editoriale Caffè Letterario, ed Elena Genero Santoro, che ora collabora solo saltuariamente. Oggi, possiamo dire con orgoglio di essere un blog di approfondimento culturale indipendente, un web magazine che si propone di condividere con chi legge articoli, contributi e riflessioni quanto possibile interessanti su letteratura, cinema, arte, teatro, viaggi, scienza, fotografia, cucina e società.

    Forniamo anche servizi editoriali e promozionali per autori emergenti, sia gratuiti, sia a pagamento, appoggiandoci anche ad altri gruppi di professionisti.

    Tra i servizi promozionali gratuiti ci sono le interviste del nostro Caffè Letterario e le Presentazioni in Anteprima, mentre a pagamento forniamo soluzioni promozionali più ampie, che comprendono anche rassegna stampa e presenza dei libri su tutte le pagine del nostro sito per un periodo a scelta, oltre alla ripetuta segnalazione di estratti. Tra i servizi editoriali, a pagamento, abbiamo la creazione di formati digitali per ebook e cartaceo per la pubblicazione indipendente su StreetLib o altre piattaforme di autopubblicazione, la creazione di booktrailer, copertine e banner promozionali per i propri libri o siti web, correzione bozze, editing e traduzioni letterarie grazie alla collaborazione con altri professionisti.

    Attualmente in redazione: Stefania Bergo, Valentina Gerini, Tamara Marcelli, Ornella Nalon, Silvia Pattarini, coadiuvate da altri validissimi collaboratori.

    www.gliscrittoridellaportaaccanto.com

    La collana

    A dicembre 2016, il gruppo si affaccia all'editoria indipendente, appoggiandosi alla piattaforma StreetLib, per lanciare una propria collana di pubblicazioni collettive e di singoli autori.

    La collana Gli scrittori della porta accanto raccoglie una selezione di libri inediti o seconde edizioni sottoposte a un accurato editing. Appartengono alla collana anche tutte le pubblicazioni collettive de Gli scrittori della porta accanto, come la raccolta di racconti illustrati Un racconto per capello, la raccolta di ricette ispirate ai libri L'appetito vien leggendo, la raccolta di poesie dedicate ai papà Caro papà… Le parole non dette, Storie inventate in un giorno di pioggia, che racchiude tutti i nostri inediti d’autore pubblicati fino a marzo 2017 sul sito www.gliscrittoridellaportaaccanto.com, e ChiaroScuro, una silloge pubblicata in occasione dell'evento mondiale 100Thousand Poets for Change.

    Tutti i titoli della collana

    gli-scrittori-della-porta-accanto.stores.streetlib.com

    Elena Genero Santoro

    Elena Genero Santoro è nata a Torino nel 1975, dove attualmente risiede con il marito e i figli.

    Lavora nell’ingegneria dei materiali dell’industria automobilistica. Il suo primo romanzo, Perché ne sono innamorata, edito da Montag è uscito nell’aprile 2013, in seconda edizione poi con Gli scrittori della porta accanto. Sono seguiti L’occasione di una vita, (Lettere Animate), Un errore di gioventù, " Il tesoro dentro" (0111 Edizioni), Immagina di aver sognato e Diventa realtà (PubGold). "Gli Angeli del Bar di Fronte" è stato pubblicato per la prima volta da 0111 Edizioni nel 2014.

    Prologo

    Padronanza assoluta. Non riuscivo a staccare gli occhi da quel movimento. Quelle tre palline rosse nelle sue mani avevano catturato la mia attenzione. Quell’artista di strada, accovacciato per terra, su un giaciglio improvvisato, non si stava esibendo. Stava solo giocherellando a tempo perso. Forse aveva già tenuto il suo numero, quella sera, e ora bivaccava stanco, in attesa di qualcosa. Tuttavia i suoi gesti erano perfetti e misurati. Quelle tre palline appartenevano alle sue mani e avrebbero compiuto qualunque fluttuazione lui avesse loro imposto.

    Continuavo a osservarlo rapita. Lui non pareva farci caso. Attorno a noi una fiumana di gente che andava e veniva. C’era la Sagra del Peperone a Carmagnola. Era un evento che durava una decina di giorni: nel centro storico venivano allestiti stand fieristici, padiglioni, attrazioni varie, musica nelle principali piazze, luci ovunque e intrattenitori dappertutto. Carmagnola era un grosso paesone dove in genere non accadeva nulla di nulla. Diceva la mia amica Noemi, i cui nonni vivevano lì, che i locali commerciali erano tutti in mano a una mafia, per cui aprire anche solo una pizzeria era un’impresa impossibile. In effetti, la sera c’era il coprifuoco: Piazza Sant’Agostino deserta, non girava un’anima, per le strade non c’era nessuno. Ma in quei dieci giorni di fiera tra la fine agosto e l’inizio di settembre cambiava tutto. Il mondo intero confluiva lì. In Piazza Sant’Agostino allestivano un palco e veniva inscenato uno spettacolo, di musica o di cabaret, diverso ogni sera. Di sabato ingaggiavano pure qualcuno di conosciuto. Altrimenti si esibivano professionisti meno noti e le viuzze del centro storico si popolavano di pagliacci, trampolieri e acrobati. Quell’anno mi ero fatta coinvolgere da Noemi e dal suo fidanzato, Simone, e mentre attendevo che quest’ultimo comprasse gelato al peperone per tutti, mi ero lasciata incantare per caso dalle mani di quel ragazzo che continuava a lanciare per aria e ad afferrare le tre palline rosse. Non riuscivo nemmeno a distinguere bene il suo viso, perché si era dipinto la faccia di bianco come i clown ed era malamente illuminato dalla luce giallognola del lampione. Finché, a un certo punto, il giocoliere non fu distratto da qualcosa, distolse lo sguardo, e una delle palline gli scappò via, rotolando fino ai miei piedi. In quel momento Simone, col gelato in mano, mi chiamò. Mi voltai e lo raggiunsi, non senza aver prima ricevuto uno spintone da un passante. Poi cercai di nuovo il ragazzo con lo sguardo, ma non c’era più, doveva essersene andato. Mi resi conto in quell’istante che in quelle mani sicure avevo lasciato un pezzo del mio cuore.

    Settembre 2013

    1

    Chiara

    Alzarsi al mattino era sempre più dura. La notte facevo spesso le tre e poi ero stanca morta. No, non mi dedicavo ai bagordi. Magari avessi avuto di che festeggiare. Lavoravo, invece. In un malfamato bar di Torino, di quelli che aprivano più tardi al mattino, ma che poi la sera andavano avanti a oltranza, situato dalle parti di Porta Palazzo. Il nome del locale era Il Bar di Fronte, ed era sottointeso, a detta del gestore, che quel nome intendesse il bar di fronte al tiglio più bello del controviale. Dovevo convenire che c’era una pianta parecchio imponente, nel raggio di pochi metri, ma da lì ad affermare che il significato del nome del bar fosse così scontato, ce ne passava.

    Mio padre era morto l’anno prima e a casa i soldi iniziavano a scarseggiare. Un tempo eravamo benestanti, ma poi con la crisi, il decesso del babbo e la depressione di mia madre c’era stato qualche problema. Mia sorella Eleonora oramai si era sposata, viveva a Milano, non la vedevamo di frequente. Di sicuro stava molto meglio di noi. In casa, un ampio alloggio di un edificio dalla facciata eclettica situato in via Cibrario, ormai c’eravamo solo io e la mamma, anche se lei viveva rintanata nella sua stanza, dormiva tutto il giorno e si nutriva di antidepressivi. Averci a che fare non era piacevole e stavo meditando di trasferirmi dalla mia amica Anna, per lo meno per un po’, anche se questo avrebbe implicato ulteriore esborso di denaro. Eppure stavo valutando l’idea, se non altro perché dovevo terminare gli studi, concludere una volta per tutte, e invece non ne venivo a capo. Mi mancava poco, dovevo finire di scrivere la tesi e trovare il tempo di discuterla, ma, da quando avevo iniziato a lavorare al bar, ero sempre distrutta e non avevo mai né la concentrazione né la voglia di accendere quel dannato computer e applicarmici. Il professore si stava seccando. Sperava di vedermi un po’ più presente nella Facoltà di Fisica, per lo meno nei laboratori, dove avevo il materiale da analizzare. La verità era che a lui i miei dati servivano, con urgenza per giunta, perché doveva rivenderseli il più in fretta possibile e trarne del lustro, ma io ormai ero nell’impasse più inerte e seguitavo a non dargli alcuna soddisfazione.

    Comunque, al mattino cincischiavo abbastanza e mi trascinavo fino al primo pomeriggio quando era ora di prendere servizio. Quando arrivavo, trafelata perché il tram era sempre in ritardo, Armando, il proprietario, era già lì. E poco dopo il bar si popolava di alcuni individui, sempre più o meno gli stessi, che di fatto erano i cosiddetti clienti fissi. A lungo mi ero stupita della fedeltà di quei figuri, che incuranti del fatto che il bar fosse una vera bettola non avevano mai tradito Armando con il suo dirimpettaio, solo un po’ più decente, al di là del viale. Magari erano in cerca di un surrogato di famiglia, e con Armando si sentivano a casa. Ciò di cui avevo avuto modo di rendermi conto era che Armando era un ottimo ascoltatore: discreto, molto empatico, insomma, alla gente piaceva. Un barista nato, dunque, almeno secondo i miei canoni.

    Chissà perché allora non dava al suo locale un tono più trendy, e continuava invece a lasciare che fosse un bugigattolo dall’arredamento spartano e dall’aspetto mai troppo pulito, per quanto io mi spezzassi la schiena a fregare i pavimenti dopo la chiusura. Evidentemente ad Armando conveniva mantenere quell’assetto. Forse la sua era una scelta economica. Comunque di soldi ne faceva. E poi teneva anche le macchinette, quelle che alcuni clienti con il vizio del gioco foraggiavano quasi ogni giorno.

    Tra i clienti fissi c’era Giovanni, un uomo di circa cinquant’anni portati malissimo. Su Giovanni, come sugli altri, Armando non esprimeva giudizi, ma io ero abbastanza sicura che quel poveretto, cassa integrato da mesi, fosse ipocondriaco. Non era chiaro se l’assenza di lavoro fosse la causa o l’effetto del suo disagio, ma ogni giorno arrivava a farsi il suo cicchetto tenendo in mano un referto medico e poi ci tediava tutti con l’esito della più recente colonscopia, o della tac alla colonna vertebrale. Nell’ultimo periodo, diceva, gli era venuto mal di schiena, e bisognava capire se il problema fosse un’ernia che gli era uscita, o il colon irritabile. Era stato seguito da diversi medici, e nessuno di loro sembrava dello stesso parere: chi propendeva per l’ernia, chi per l’intestino. Io non sapevo se credere a tutto ciò che raccontava e pensare, come lui, che il servizio sanitario nazionale fosse composto da una manica di incompetenti, oppure se propendere per la mia idea iniziale: tutte quelle analisi, tutti quegli esami, non erano frutto dell’incompetenza dei medici, ma delle sue continue richieste. Dunque Giovanni poteva essere un malato immaginario. Certo era, però, che soffriva.

    Poi, come sempre, quel giorno arrivò Carla. Carla era una disoccupata sulla trentina e oltre, piccola, magra, scura di pelle, con un taglio di capelli da dura, alcuni tatuaggi disseminati lungo il corpo e una gravidanza in stato avanzato. Del padre del nascituro, un maschio, non c’era traccia e lei non ne parlava mai. Di solito entrava e si accomodava al bancone, che ormai toccava con la pancia, e chiedeva da bere. In genere prendeva una bibita gassata, ma qualche volta si concedeva pure qualcosa di alcolico. Ogni tanto si sedeva alle macchinette e faceva qualche puntata, perdendo tutte le volte qualche decina di euro. Non avevo idea di come campasse, visto che non aveva un reddito fisso, e nemmeno poteva impiegarsi in lavoretti saltuari di impatto fisico, dato che era incinta. Ipotizzavo che potesse essere depressa per trascorrere le sue giornate con un bicchiere in mano in un bar dall’aspetto discutibile e frequentato da gentaglia. E pensare che, a vederla così, mi sembrava una donna dall’intelligenza vivace e dalle molte risorse. Comunque, in effetti, non la conoscevo a sufficienza per poter avere su di lei un’idea precisa.

    E poi c’erano i rumeni. Il bar di Armando aveva come clienti fissi un gruppo di perdigiorno provenienti dall’est Europa, che si incontravano sempre allo stesso tavolino, si riempivano la pancia di birra e spendevano ore e ore fino a tarda sera discutendo di qualcosa nella loro lingua d’origine. Il bar di Armando era territorio loro, a differenza di quello di fronte che era popolato da nordafricani: marocchini, magrebini, algerini, non avrei saputo distinguerli. A me i nordafricani parevano tutti uguali, anche se immagino fossi io che non riuscivo a coglierne le differenze. Parlavano un italiano approssimativo mangiandosi sempre le vocali.

    Invece da Armando c’erano i rumeni. All’inizio non li avevo focalizzati bene, tuttavia ogni giorno erano almeno in quattro o cinque. Dopo un po’ avevo iniziato a riconoscerli e avevo pure imparato i loro nomi. C’era Constantin, che era alto, segaligno, con i capelli scuri. Poi c’era Ciprian, che invece era biondo con gli occhi azzurri. Sarebbe stato un bel ragazzo, se non fosse stato troppo grosso, con una gran pancia che si gonfiava ulteriormente non appena ci buttava dentro litri e litri di birra. Ogni tanto poi faceva la sua apparizione Gogu, che era mingherlino, bruno e aveva un’aria scaltra. Meno frequente era la presenza di Istrate, biondissimo e parecchio arrogante. Aveva i capelli ricci di un angelo, ma uno sguardo strafottente e irritante. Istrate non veniva spesso, ma, quando c’era, era impossibile non accorgersene: a volte persino Armando, con la sua aria flemmatica e il suo fare sempre bonario, aveva dovuto riprenderlo e chiedergli di darsi un contegno e di togliere i piedi dal tavolo. I rumeni erano sempre abbastanza chiassosi e la loro presenza si notava. Quando c’erano loro, non era inusuale che gli altri presenti mostrassero fastidio o pagassero la consumazione in fretta per uscire al più presto. Ero abbastanza sicura che Armando avrebbe dovuto vietare loro l’ingresso, perché gli facevano perdere clienti, ma forse lui si era fatto bene i suoi conti e aveva valutato che le birre dei rumeni compensavano i caffè di altri ospiti di passaggio. E poi Porta Palazzo era una zona alquanto degradata: non stavamo nella Torino bene, non c’era clientela snob da quelle parti.

    Solo uno dei rumeni si distingueva per la sua presenza silenziosa. Il suo nome era Victor, anche se tutti lo chiamavano Vic, e mi ero fatta l’idea che fosse una specie di capo di quella sgangherata banda. Vic aveva la pelle chiara, gli occhi azzurri e i capelli castani, chiari e lisci, corti sulla nuca, che gli cadevano più lunghi sulla fronte. I suoi tratti erano regolari, aveva gli zigomi alti e lo sguardo sfuggente e freddo. Di statura media, aveva un fisico asciutto e le spalle larghe. Vic parlava poco. Di solito sedeva a braccia conserte e si guardava intorno. Eppure, quando apriva bocca, gli altri lo stavano a sentire. Doveva avere un forte ascendente sui suoi compagni, e a vederlo sempre così misurato, e al contempo così vigile, attento, e padrone della situazione, non me ne stupivo. Mi sembrava che nel suo modo di presentarsi, o di porsi, anche in quello di vestirsi, fosse sempre essenziale. Non compieva un gesto, non diceva una parola più del necessario. Indossava abiti semplici, - una dolcevita, un paio di jeans, talvolta una giacca blu di velluto, - ma di buon taglio, mai pacchiani.

    La sua freddezza e il suo distacco mi intimorivano, eppure mi accorgevo di osservarlo spesso. Lui non si lasciava andare a fragorose risate. Lui non usciva mai dal bar con la pancia gonfia di birra, al massimo beveva una media, e questo dettaglio mi piaceva. Forse perché era il capo, forse perché teneva in pugno la situazione, doveva essere sempre presente a se stesso. Non si comportava come Ciprian, che si imbottiva di alcolici per poi mettersi in un angolo con gli occhi rossi e le guance rubizze; e nemmeno come Istrate, che, una volta ubriaco, iniziava a sproloquiare e ad attaccare briga con qualcuno, mentre il suo bellissimo viso si deformava in una smorfia odiosa e i suoi capelli ondulati si sparpagliavano in tutte le direzioni. Vic era diverso, in un certo senso superiore, e mi incuteva timore.

    Quella sera attendevo solo di chiudere e filare a casa. Armando se n’era andato mezz’ora prima. Carla e Giovanni anche. Mezzanotte era passata e i piedi mi dolevano non poco. E poi dovevo telefonare a Luigi, il mio ragazzo. Gogu, con quel suo ghigno strano, quella sua faccia beffarda, si era avvicinato alla cassa come per pagare, ma voleva fare il furbo, insisteva, nel suo italiano mediocre, a dirmi che dovevo dargli più resto. Appena Vic si rese conto di ciò che stava accadendo, si alzò e ci raggiunse. Lanciò uno sguardo gelido al suo compagno e gli bisbigliò qualcosa in rumeno che non riuscii a comprendere, ma che nella mia testa significò:

    «Non fare l’idiota, non puoi permetterti di fregare la cameriera del bar da cui ti servi abitualmente».

    Sta di fatto che un secondo dopo Gogu mi diede tutto il denaro che mi spettava. Mi accorsi che gli occhi di Vic si erano posati su di me e ci lessi una sorta di condiscendenza. Durò un attimo, poi lui e i suoi compagni uscirono dal locale e io rimasi sola al bancone.

    2

    Paula

    La naiba. Avevo rotto una cornice e mi ero fatta male. Sperai che almeno non portasse sfortuna. E poi dopo l’avrei dovuta anche pagare, perché non era mia. Stava sulla cassettiera della signora Gianna e io dovevo pulirla. Mi ero giocata la paga di quel giorno. Forse anche quella della settimana a venire. Ma Gianna mi versava i contributi e quindi pretendeva che fosse tutto in regola. E se io rompevo, io pagavo.

    Di solito non rompevo, ma quel giorno ero stanca. Come dicono da queste parti, non connettevo.

    Nonno Giorgio, quello con cui vivevo, quella notte mi aveva svegliato sei volte. Sei! Una volta voleva bere, una volta aveva urinato nel pannolone, una volta voleva ancora bere, poi aveva avuto un incubo, poi aveva di nuovo urinato e infine aveva bisogno di compagnia. Aveva in mente un episodio della seconda guerra mondiale che doveva a tutti i costi raccontarmi. Non ci avevo capito molto, lui farfugliava in dialetto, ma credo che avesse qualcosa sulla coscienza di cui non riusciva a liberarsi, e ora che era anziano e forse sentiva la fine vicina, ora che non ricordava nemmeno cosa aveva fatto il giorno prima, era ossessionato da qualche avvenimento del passato o forse da qualche fantasma con cui non poteva pacificarsi. Mia madre, quando gliene ebbi parlato, mi aveva chiesto se qualcuno non gli avesse fatto il malocchio, perché a lei pareva probabile che comportamenti del genere potessero essere il frutto di qualche maledizione lanciata da un invidioso, oppure, dato che il nonno diceva e pensava cose strane, la sua idiozia poteva essere conseguenza di una sarta che gli aveva puntato l’orlo dei pantaloni dopo averglieli fatti indossare. Invece la figlia di nonno Giorgio, Caterina, mi aveva raccontato una cosa del tutto diversa, mi aveva spiegato che suo padre era malato di demenza senile e che il suo cervello stava degradando progressivamente. Diceva che capitava, negli anziani. Era un fenomeno naturale. Di fatto mia madre continuava a consigliarmi di fuggire da quella casa, infestata da qualche forma di maledizione, ma io non potevo permettermelo. Mi fornivano un tetto e una

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