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Parole che curano: L'empatia come buona medicina. Storie di malati, familiari e curanti.
Parole che curano: L'empatia come buona medicina. Storie di malati, familiari e curanti.
Parole che curano: L'empatia come buona medicina. Storie di malati, familiari e curanti.
Ebook358 pages5 hours

Parole che curano: L'empatia come buona medicina. Storie di malati, familiari e curanti.

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Gli autori propongono un viaggio nella medicina narrativa, dove il dolore, la guarigione, il ruolo del medico, il rapporto medico-paziente e alcune malattie gravi e socialmente rilevanti sono analizzati attraverso le storie e le parole dei protagonisti. Pazienti, luminari della medicina e operatori della salute raccontano in prima persona le loro esperienze di pazienti e di curanti. Le narrazioni, le vicende, i conflitti e le ansie sollecitano domande e forniscono soluzioni, diventando strumenti per tradurre la scienza e divulgare la "buona medicina".
LanguageItaliano
PublisherPubliediting
Release dateMay 15, 2018
ISBN9788894114751
Parole che curano: L'empatia come buona medicina. Storie di malati, familiari e curanti.

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    Parole che curano - Franca R. Parizzi

    autori

    Quando il dolore è insopportabile

    "… Un pomeriggio, mentre era solo in casa, mio padre, che a quel tempo era malato di cancro e soffriva di dolori molto intensi, mi chiese di procurargli un fucile di quelli con cui solitamente andava a caccia, sua grande passione, di lasciarlo solo e andarmene.

    A questa richiesta spalancai gli occhi, cercando di capire le sue intenzioni, che mi sembrarono terribili e spaventose. Lo guardai incredula… e lui lesse sul mio viso il panico e mi disse: «Non voglio disturbare più nessuno causando ancora dolore, ma non ce la faccio più a soffrire così. Aiutami a liberarmi da questo male crudele».

    Rimasi senza fiato e cominciai a tremare, ma cercavo di nascondere il terrore che mi stava invadendo… l’unica cosa che mi venne in mente fu di chiedergli di scrivere un pensiero da lasciare a mia figlia, ancora bambina. Questo aggancio emotivo alla nipotina era l’unico modo che avevo per riportarlo alla realtà, per allontanarlo da quel gesto disperato. Un semplice nome e il semplice ricordo di un viso gli fecero percepire il valore della vita durante i giorni successivi, colmandolo, se possibile, di pace, seppure una pace minata e limitata da incredibili sofferenze fisiche quotidiane. La sua vita durò ancora qualche mese… ma il coraggio che lessi nei suoi occhi quel giorno mi accompagna

    tuttora…". È questo il racconto di un'infermiera che ricorda le sofferenze del padre 1 .

    Temuto, odiato, bestemmiato, sopportato, il dolore è una delle grandi prove della vita, quasi un mistero poiché è un’esperienza assolutamente soggettiva. Un’esperienza che non può essere ridotta soltanto alla biologia, ma che coinvolge la psicologia, la sociologia, l’antropologia, la filosofia, la teologia. E una medicina che non voglia limitarsi alla scienza e alla tecnica, ma che voglia anche essere cultura della cura, deve prendere in considerazione anche queste altre dimensioni. L’esperienza del dolore, infatti, trasforma il rapporto con il corpo: attraverso il dolore, il corpo reclama su di sé ogni attenzione.

    In medicina il dolore è un insieme di più componenti: percezione di un danno, sensazione, sofferenza, comportamento. Il dolore è pertanto un fenomeno complesso e soggettivo, poiché alla presa di coscienza di uno stimolo nocivo, che è la percezione cognitiva del dolore, si somma una componente emotiva, che è la sofferenza.

    La sofferenza e il comportamento con cui essa viene comunicata sono fortemente influenzati dalla storia della persona e dal suo contesto socio-culturale. Ma anche la percezione stessa del dolore ha profonde radici culturali. In diverse regioni dell’Africa tropicale le donne non mostrano di provare dolore durante il parto e, dopo aver dato alla luce il neonato, si alzano quasi subito e tornano alle loro occupazioni abituali. La paura, culturalmente trasmessa, con cui invece le donne occidentali in genere affrontano il parto, aumenta la loro percezione del dolore del travaglio.

    Il dolore è un fenomeno bio-psicologico che richiede un approccio multidisciplinare sostiene la IASP (International Association for the Study of Pain).

    Il concetto più moderno di trattamento del dolore oltrepassa pertanto l’approccio strettamente medico, aprendosi a un’assistenza globale sul piano psicologico, sociale e culturale, partendo dal presupposto che il dolore può essere meglio affrontato se si prendono in considerazione anche gli aspetti relazionali. Il significato attribuito al dolore si è modificato nel corso dei secoli e nelle diverse popolazioni. Per le tribù primitive il dolore era dovuto a uno spirito maligno che entrava nel corpo (o comunque a un maleficio) e, in base a questa credenza, lo sciamano praticava una ferita al sofferente, per consentire allo spirito maligno di uscire dal corpo.

    La storia dell’uomo occidentale unisce due fondamentali elaborazioni dell’esperienza del dolore: quella greca, che concepisce il dolore come inscindibile dalla vita, e quella ebraico-cristiana, secondo la quale il dolore discende dalla colpa e la redenzione avviene attraverso la sofferenza. Secondo la concezione greca, l’esistenza è una circolarità continua di vita e di morte e la natura è la forza che genera, ma al tempo stesso distrugge, perché senza distruzione non c’è generazione. Felicità e dolore, vita e morte sono pertanto inseparabili. Aristotele e Platone identificavano nel cuore la sede delle emozioni, tra queste anche la sofferenza. Per Galeno il centro del dolore era il cervello, ma è solo a partire dal Rinascimento che il dolore viene riconosciuto come sensazione trasmessa dal sistema nervoso. Cartesio, filosofo e matematico francese, aveva intuito già nella prima metà del XVII secolo che gli stimoli dolorosi di una bruciatura al piede vengono trasmessi dai nervi al cervello facendo partire immediatamente l’ordine di allontanare l’arto dal fuoco per limitare il danno. Aveva quindi individuato il male come un campanello d’allarme salvavita. Ma quando il dolore si somma al dolore, quando cronicizza, ecco che diventa lui stesso una malattia. Un nemico da combattere per riconquistare una qualità di vita accettabile. Un uomo viene assalito da un gruppo di cani randagi. Si difende, pugni, calci e poi corre via, veloce come il vento nonostante le ferite gli abbiano lacerato le carni. Perché in situazioni di emergenza simili, ferite normalmente dolorosissime non vengono neppure avvertite? Che cosa interviene a bloccare la percezione del dolore? Si tratta di quella condizione conosciuta dai medici come SIA (Stress Induced Analgesia), analgesia indotta da stress. Uno stato di reattività dell’organismo verso pericoli gravi, aggressivi, che minacciano in maniera importante l’incolumità e la vita stessa. In definitiva, certi tipi di stimoli esterni riescono a scatenare una reazione di allarme che attiva le reti nervose e libera ormoni e neurotrasmettitori in grado di alterare la percezione del dolore. La situazione di grave pericolo determina alterazioni funzionali come le variazioni dei livelli ematici ormonali (prolattina, cortisolo), dei livelli ematici di neurotrasmettitori (noradrenalina, serotonina), della quantità dei globuli bianchi e di altre cellule protettive (neutrofili, cellule killer) e anche l’aumento della pressione. E queste alterazioni generano un circuito retroattivo, un’azione ridondante che può aumentare l’analgesia, ma in casi di squilibrio opposto potrebbe anche esasperare il dolore.

    " Esistono, schematicamente, due tipi di dolore - dice Paolo Notaro, algologo a Milano e presidente di NoPain Onlus – Un dolore che potremmo definire ‘utile’, acuto, ovvero un segnale di allarme (quello per esempio che ci permette di diagnosticare precocemente una malattia) e uno ‘inutile’, cronico, ovvero quando la sofferenza diventa un sintomo prolungato che lede il benessere. Perdurando nel tempo, infatti, il dolore diventa una fonte di disabilità per la persona, tramutandosi esso stesso in malattia e condizionando così ogni aspetto della vita. La sua durata è imprevedibile…la sua intensità è variabile, solitamente tende ad aumentare con il passare del tempo…Per queste ragioni, il dolore cronico è chiamato anche ‘dolore totale’. I pazienti, infatti, estenuati dall’instancabile sofferenza, lamentano disturbi del sonno, depressione, fatica e vedono

    persino ridotte le loro facoltà intellettive".

    Numerosi filosofi e letterati hanno affrontato il tema del dolore. Pur con posizioni differenti, tutti attribuiscono al dolore un significato profondo, come mezzo di riflessione e conoscenza interiore ed esperienza che lascia un segno indelebile nella memoria. Michel de Montaigne 2 , filosofo francese del XVI secolo, riconoscendo la grande capacità dell’uomo di mantenere la coscienza anche nel dolore, sosteneva che la qualità dello spirito umano si dimostra proprio nel saperlo superare, nella capacità di preservare la coscienza e la ragione anche quando queste sono minacciate dal dolore. Seguendo il pensiero di Montaigne, Blaise Pascal 3 sosteneva che la sofferenza e il dolore consentono all’uomo di scoprire la sua natura più vera e autentica, liberandolo dalla dipendenza dai beni materiali e dai piaceri e conducendolo alla conoscenza interiore e alla relazione con Dio. Per Frederik J.J. Buytendijk 4 , medico antropologo olandese, il dolore passa, ma l’aver sofferto non passa mai. Max Scheler 5 , filosofo tedesco, scriveva: un’esistenza senza dolore induce alla superficialità metafisica, cioè non consente di dare un senso alla vita umana. Secondo Hegel 6 il dolore è un privilegio degli esseri più elevati. Per Karl Jaspers, filosofo e psichiatra tedesco, il dolore è un elemento essenziale della vita umana, tuttavia non deve essere idealizzato. La medicina moderna, focalizzata sugli aspetti sensoriali e neurofisiologici del dolore, ha registrato brillanti risultati nel campo della conoscenza dei meccanismi che ne stanno alla base e della terapia, trascurando tuttavia, in base alla cultura della divisione corpo-anima, gli aspetti psichici, sociali e filosofico- teologici. In un mondo caratterizzato dal dominio della scienza e della tecnica, il dolore è comunemente separato dall’esperienza del vivere quotidiano: essendo riconosciuto come espressione di malattia, esso viene rimosso dalla collettività e trasferito alle strutture competenti (ambulatori, ospedali). Se nella tradizione antica il dolore cercava la sua ragione di essere e il conforto nella

    parola religiosa, oggi invece cerca una risposta nella scienza. Il 26 per cento degli italiani, vale a dire circa 15 milioni di persone, convive con un dolore cronico di natura non neoplastica, legato a problematiche molto comuni, quali osteoporosi, lombosciatalgie, emicrania, artrosi o artriti. La Legge 38 del 2010 (Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore) ha l’obiettivo di tutelare i diritti di chi soffre di dolore cronico e oncologico, riconoscendo alla sofferenza cronica la dignità di malattia. Si tratta di una legge fortemente innovativa, che garantisce in Italia l’accesso del malato alle cure palliative e alla terapia del dolore "al fine di assicurare il rispetto

    della dignità e dell’autonomia della persona umana, il bisogno di salute, l’equità nell’accesso all’assistenza, la qualità delle cure e la loro appropriatezza.

    Le strutture sanitarie che erogano cure palliative e terapia del dolore devono assicurare un programma di cura per il malato…senza alcuna discriminazione e in ogni fase della malattia". Gli aspetti più rilevanti della legge riguardano la rilevazione del dolore nella cartella clinica dove ne vengono riportate le caratteristiche, le terapie (farmaci e dosaggi) e il risultato antalgico ottenuto. Si punta così a garantire assistenza omogenea su tutto il territorio; si semplifica inoltre l’accesso ai medicinali senza il ricorso ai ricettari speciali di un tempo e sono previsti percorsi formativi per il personale medico e sanitario.

    Nella comunicazione medico-paziente si parla del dolore in termini generali: dell’intensità, del tipo, della sede, dell’ora e delle modalità con cui esso si manifesta. Gli aspetti socio-psicologici del dolore oltrepassano tuttavia questo linguaggio, coinvolgono essenzialmente la questione del senso e gli effetti del dolore sulla situazione sociale, sui rapporti della persona all’interno della famiglia, nel lavoro e nella società.

    " In condizioni di malessere generale, di stress, impegni gravosi, scarsità di sonno, cattiva dieta, accade che i sistemi naturali di inibizione del dolore funzionino male - spiega Paolo Marchettini 7 , neurologo ed esperto di dolore a Milano -. E questo può accadere anche in occasione di un lutto, una separazione o della perdita del lavoro. Oggi, le situazioni stressanti di questo tipo sono sempre più frequenti anche a causa della crisi economica internazionale. Ebbene, queste tensioni incalzanti e le pesanti scariche di adrenalina che generano possono determinare nelle persone predisposte frequenti emicranie, alterazione dei ritmi veglia-sonno, dolori di stomaco, coliti, senso diffuso di fatica e di spossatezza. In definitiva, il ‘mal di crisi’ sta creando una serie di pesanti disturbi con conseguenze devastanti e invalidanti per l’equilibrio mentale, il lavoro e la vita

    stessa della persona". La riprova, secondo gli specialisti, arriva proprio dal crescente numero di malati che affolla gli ambulatori lamentando questa tipologia di disturbi.

    Saper cogliere il senso del dolore è un aspetto fondamentale della cura. È necessario innanzi tutto comprendere il sentire della persona, cioè in che cosa consiste la sensazione del dolore, sia sul piano fisico che psicologico, saper interpretare il linguaggio con cui il corpo e la mente lo esprimono, ma anche cercare di andare oltre, saper cogliere nel dolore non solo il segnale del corpo, ma anche un messaggio che rimanda a qualcosa di più e di altro, che è la globalità della persona e la sua storia. Questi aspetti diventano ancora più rilevanti di fronte al dolore persistente o cronico. Clive Staples Lewis afferma che al dolore non serve una mappa, ma una storia 8 .

    Ogni persona che sperimenta il dolore adotta modalità adattative, reattive, comunicative e comportamentali peculiari, che dipendono dalle sue risorse, interne ed esterne, e dalla sua storia di vita. Le modalità comunicative del dolore variano da persona a persona, dall’esibizione della sofferenza alla ostinata dissimulazione, dalle grida al silenzio. Sul piano della cultura della cura è fondamentale chiedersi quale significato viene attribuito al dolore.

    Scrive Fëdor Dostoevskij 9 : Senza il dolore non ci sarebbe coscienza. Ed Emil Cioran 1 0 , filosofo rumeno: Il dolore, da cui sono colpiti tutti i vivi, è l’unico indizio che permetta di supporre che la coscienza non è una prerogativa dell’uomo. Infliggete una qualche tortura a un animale, contemplate l’espressione del suo sguardo, vi coglierete un lampo che lo proietta per un istante al di sopra della sua condizione. […] Senza il dolore, saremmo tutti dei fantocci....

    Il dolore è dunque intimamente legato alla coscienza e l’anestesia si basa sull’annullamento della coscienza come mezzo per risolvere il dolore, sottraendo tuttavia alla persona una profonda esperienza interiore. Il filosofo Hans Georg Gadamer 11 sostiene che il dolore aiuta a riflettere e a far luce sul significato dell’esistenza. Sigmund Freud, tormentato da terribili dolori per un tumore al palato, si rifiutava di assumere potenti analgesici perché gli avrebbero offuscato la coscienza. Ma è possibile superare il dolore conservando lo stato di coscienza?

    Le concezioni più moderne in tema di terapia palliativa e trattamento del dolore si stanno aprendo ad altre prospettive terapeutiche, in ambito sociopsicologico, ma anche filosofico e artistico. La medicina è tuttavia ancora in gran parte concentrata sulla componente sensoriale del dolore e trascura la componente emozionale, che è soggettiva ed estremamente variabile in base alla personalità e lo stato psicologico e affettivo della persona in un determinato momento e in un determinato contesto. Questo punto di vista è molto riduttivo e sarebbe opportuno ribaltare completamente la prospettiva. La percezione del dolore è infatti assolutamente individuale e variabile: basti pensare all’inibizione del dolore nelle pratiche yoga, nelle crisi ascetiche dei martiri religiosi e nella suggestione ipnotica. Sono riportati casi di soldati gravemente feriti che non lamentano dolore e di atleti infortunati che non sentono dolore fino alla fine della gara. Questo dimostra come situazioni a elevato contenuto emotivo possano interagire con i meccanismi di percezione del dolore. Al contrario, sono riportati casi di dolore per il quale non esiste un substrato reale, corporeo, come il cosiddetto dolore immaginato percepito in un arto amputato. Il dolore non è dunque soltanto un fatto fisiologico, ma ha anche un valore soggettivo, esistenziale e sociale. A questo punto diventa centrale la questione dell’espressione del dolore. Come comunicare la sofferenza psichica o fisica?

    Alcuni malati scelgono l’arte come strumento di espressione del proprio dolore. In particolare le arti figurative, come la pittura, il disegno o le arti plastiche. Queste forme di arte sembrano le più naturali per comunicare l’incomunicabile. Il dolore è infatti sempre stato oggetto, oltre che di interpretazione filosofica e giustificazione teologica, anche di sublimazione artistica. Ne sono un esempio i quadri della pittrice messicana Frida Kahlo (1907- 1954). L’artista, affetta dalla nascita da spina bifida, a diciotto anni rimase vittima di un grave incidente stradale, a causa del quale soffrì di terribili dolori, fu sottoposta a numerosi interventi chirurgici e costretta a mesi di riposo a letto con un busto gessato, senza peraltro ottenere miglioramenti. Il dolore ha contrassegnato la sua vita e le sue opere. Tra i molti esempi segnaliamo due autoritratti: La colonna rotta (1944) e Senza speranza (1945). La biografia di Frida Kahlo è il tema del film Frida di Julie Taymor (2002). Anche nella scultura troviamo intense rappresentazioni del dolore, come nell’autoritratto di Adolf Wildt (Maschera del dolore - 1908), uno degli scultori più significativi del nostro secolo, e nel bronzo Il dolore di Antonio Manzi (1992). Il dolore non si mostra. Il dolore non si spiega, perché non ci sono parole capaci di raccontarlo. Il dolore non si può afferrare, perché non ci sono strumenti in grado di misurarlo. Salvatore Natoli 12 sostiene che l’esperienza del dolore, a differenza dell’amore, si radica nell’assoluta individualità ed è a tal punto individuale da essere incomunicabile. Nel romanzo L’età dell’oro 13 di Edoardo Nesi, il protagonista, Ivo Barocciai, industriale tessile di Prato, la cui azienda è fallita, è malato di cancro. Nel capitolo Stanotte Ivo Barocciai racconta il suo dolore: Mi sveglio perché ho sentito un dolore veramente forte. Non è la fitta di ieri, e non è il bruciore vago dell’altro ieri. È un dolore continuo, in basso, alla pancia. Provo a far finta di nulla e riaddormentarmi, ma non è possibile. Non ho mai sentito un dolore così. È profondo, cattivo. È una cosa aliena. Non c’entra con me e con il mio corpo. È come avere un animale dentro. Si calma, e subito riparte. Mentre trattengo il respiro mi accorgo che non viene fuori da un punto preciso. Parte dalla pancia, sì, ma mi sento come se fosse tutto il corpo a soffrire, e il dolore potesse uscir fuori solo dall’ombelico, come un geyser. Mi ritrovo coperto di sudore freddo, nel buio totale della camera, invaso dal terrore. Deglutisco, respiro con affanno, mi lamento, stringo i pugni, mi metto a piangere, perdo il controllo, dico a voce alta che ho sbagliato a non dar retta ad Augusto, l’amico medico, e non fare la chemio, anzi devo iniziare subito, domattina, o sentirò questo dolore tutte le notti e poi sarà sempre peggio e lo sentirò anche tutti i giorni, tutto il giorno, mentre la chemio potrebbe rimandarlo o bloccarlo, e un giorno per me è come un anno per un’altra persona, un altro giorno potrebbe essere un tesoro, una benedizione… Mi esce dalla gola una specie di lungo ringhio che non ho mai fatto prima, forse è questo il momento, forse sto morendo, qui, ora… Il sudore mi scende a fiotti dalla fronte e ho un improvviso sbriluccichio negli occhi, sto morendo, adesso, solo come un cane, senza poter dire più nulla a nessuno, senza poter fare più nulla, sto morendo e non sono pronto e non voglio morire, strizzo gli occhi, mi metto a frignare, mi strappo i capelli, gemo, guaisco, il dolore mi apre la pancia, mi sbrana, mi sforzo di aspirare più aria possibile, a bocca aperta; voglio, debbo riempirmi i polmoni, una, due, tre volte, espiro fiatate forti e lunghe, lo sguardo mi si riempie di amebe, e non vedo nulla, ora muoio, muoio, inspiro con tutte le forze, e mi si gonfia il torace a dismisura, espiro così forte da far sbattere come una vela il lenzuolo teso tra le mie ginocchia; mi gira la testa, svengo, ora svengo e muoio, il cuore mi batte nelle tempie come i tamburi dello stadio, non sono mai stato così male in vita mia, muoio davvero ora; e poi di colpo il dolore cala, rallenta, è un miracolo, sta calando, e mi attacco esultante al ritmo orrendo che mi sfonda i timpani, provo a rallentarlo, a controllarlo, ad allungare il mezzo secondo scarso che passa tra un battito e l’altro, allargarlo….

    Quando il dolore supera ogni capacità di sopportazione e controllo psichico, l’attività stessa della mente ne è compromessa e può persino esserne annullata: il dolore invade allora la mente e ogni realtà circostante scompare, costringendo la persona a vivere la propria sofferenza come l’unica dimensione reale. Quando il dolore diviene intollerabile, tale da far perdere ogni desiderio di vivere, da essere più forte della capacità umana di sopportarlo, il medico deve intervenire per alleviarlo. Lenire il dolore era per i latini opus divinum e ancora oggi rappresenta uno dei compiti fondamentali dell’arte medica. Calmare il dolore significa liberare la persona non solo dalla sofferenza, ma anche dalle conseguenze psichiche e somatiche della percezione dolorosa. Scrive Sandro Bartoccioni 14 : Accettare il cancro è comprensibile, ma non reagire, anzi accettarne passivamente le cose più brutte ed evitabili, come il dolore, è solo puro masochismo. Curatemi adeguatamente per quello che è necessario, non tiratevi indietro da vigliacchi nel momento più difficile e doloroso… Non abbandonatemi... Addormentatemi, potrete rivalutare il caso dopo qualche giorno, non lasciatemi solo tra i dolori, sarebbe disumano. Sergio Zavoli 15 , partendo dall’esperienza personale del padre - affetto da dolori terribili e ricorrenti dovuti a un aneurisma - al quale il medico curante aveva centellinato la terapia analgesica, ha analizzato l’esperienza del dolore raccogliendo interviste, racconti e testimonianze di persone a vario titolo competenti sul tema: anestesisti, neurologi, oncologi, chirurghi, specialisti di cure palliative, ma anche storici della medicina, esperti di organizzazione sanitaria, religiosi ed esponenti di culture diverse (da Kathleen Foley, del Centro Oncologico Memorial Sloan Kettering di New York, a Michele Gallucci, della Fondazione Floriani; da Gino Strada, fondatore di Emergency, a Giovanni Bollea, neuropsichiatra infantile).

    Zavoli sostiene che l’Occidente è rimasto attardato non solo rispetto al modo in cui l’uomo vive la sofferenza, ma anche a quello in cui la comunica: il mondo arabo, per esempio, possiede centinaia di espressioni dedicate al dolore che noi non conosciamo, e questo la dice lunga sulle difficoltà incontrate, da noi, dalla cultura dell’analgesico a farsi strada. Il dolore non è un dovere, un’esperienza da accettare necessariamente. Oltre un certo limite, ogni valenza riflessiva esperienziale è vanificata poiché anche la psiche ne risulta alterata, esausta del combattere contro un nemico invisibile, eppure così presente ed esigente.

    Scrive Milan Kundera 16 : Il dolore non intende prestare ascolto alla ragione, perché ha una sua propria ragione che non è ragionevole. Al di là dei progressi della medicina palliativa, sono oggi ancora troppi i casi in cui la scienza non riesce a dare risposte concrete e adeguate al dolore. L’ultima spiaggia è l’induzione di uno stato di incoscienza stabile e controllato, da cui il malato potrebbe non riemergere più, qualora la priorità resti la soppressione del dolore. Questa scelta è gravata da notevoli implicazioni etiche. Deve essere preservata la coscienza e la lucidità mentale, al prezzo di un dolore oltre ogni limite, o privilegiata l’assenza di dolore al prezzo di un’alienazione totale e irreversibile? Di fronte a dolori irriducibili, alla certezza dell’inefficacia di qualsiasi misura palliativa, all’ineluttabilità di una morte imminente, il medico si trova in grande difficoltà. Nel suo ruolo di difensore della vita stenta ad accettare la sconfitta, la vittoria della morte sulla vita. L’accanimento terapeutico è spesso l’espressione di

    questo disagio del medico e lo strumento con il quale egli cerca di opporsi a una fine inevitabile, o di ritardarla il più possibile.

    In queste condizioni, il testamento biologico rappresenta l’unico strumento in grado di consentire al medico una decisione nel pieno rispetto della volontà del paziente 17 .

    [1] 1 Tiziana Spada, Infermiera Università degli Studi di Milano Bicocca - Ospedale San Gerardo di

    Monza, Corso di Medicina Narrativa e Relazione con il paziente; Ottobre 2006 - Giugno 2007.

    Potenza di un nome - Dalla Raccolta inedita Le Nostre storie

    [2] 2 Michel de Montaigne Saggi Ed. Adelphi 1992

    [3] 3 Blaise Pascal Pensieri Ed. Garzanti Milano 2002

    [4] 4 Frederik Jacobus Johannes Buytendijk Il dolore Ed. Morcelliana 1957

    [5] 5 Max Scheler Il dolore, la morte, l’immortalità Ed. Elledici 1983

    [6] 6 Georg Wilhelm Friedrich Hegel Fenomenologia dello spirito Ed. Bompiani 2000

    [7] 7 Paolo Marchettini. Manuale di Medicina del Dolore Ed. Publiediting 2016

    [8] 8 Clive Staples Lewis Diario di un dolore Ed. Adelphi 2000

    [9] 9 Fëdor Dostoevskij Ricordi dal sottosuolo Ed. Feltrinelli 2002

    [10] 10 Emil Mihail Cioran La caduta nel tempo Ed. Adelphi 1995

    [11] 11 Hans Georg Gadamer Il dolore. Valutazioni da un punto di vista medico, filosofico e terapeutico

    Ed. Apeiron Roma 2004

    [12] 12 Salvatore Natoli L’ esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale

    Ed. Feltrinelli 1999

    [13] 13 Edoardo Nesi L’età dell’oro Ed. Bompiani (Collana Tascabili Bestsellers) 2006

    [14] 14 Sandro Bartoccioni, Gianni Bonadonna, Francesco Sartori Dall’altra parte Ed. BUR (Biblioteca

    Universale Rizzoli) 2006

    [15] 15 Sergio Zavoli Il dolore inutile Ed. Garzanti 2002

    [16] 16 Milan Kundera L’identità Ed. Adelphi 1997

    [17] 17 Umberto Veronesi Il diritto di morire Ed. Mondadori 2005

    Sono guarito e sono rinato

    La comunicazione della guarigione da una malattia grave e cronica è un momento magico, al tempo stesso meraviglioso e destabilizzante. Rappresenta il raggiungimento di un obiettivo per il quale sono state impegnate tutte le energie della persona, per il quale ha sofferto e lottato, attraversando anche momenti di sconforto e di sfiducia, di rabbia e disperazione. È un rientro nella vita, un ritorno al prima, un prima idealizzato, di cui si sono del tutto dimenticati, o molto ridimensionati, i problemi. La guarigione è riprendere possesso della propria identità, che la malattia ha incrinato, è il ritorno a una unità con se stessi, con gli altri, con il mondo esterno. Ma la malattia ha lasciato il segno. Si è diventati coscienti della bellezza, ma anche della precarietà della vita, della propria fragilità, si sono scoperti nuovi valori, si avverte il bisogno di dare un senso alla propria esistenza. Tutto questo si traduce in smarrimento, incredulità, nella sensazione di essere diversi, nella difficoltà di rientrare nella banalità del quotidiano e di comunicare con gli altri. Il proprio mondo è stato per un lungo periodo il mondo delle cure, lo staff degli operatori sanitari, l’ospedale, gli altri malati. Staccarsene è al tempo stesso una rinascita e la perdita di una parte di sé, di punti di riferimento divenuti abituali, è bisogno di dimenticare e tenace attaccamento alla nuova prospettiva di sé e della vita che si è conosciuta grazie alla malattia.

    Scrive un uomo guarito dalla leucemia, contratta quando era un ragazzino 1 : " Avrei un sacco di cose da dire sul mio periodo post-malattia o post-guarigione... La cosa certa è che ha lasciato un segno indelebile e che ancora, dopo tutto questo tempo, non mi è possibile scriverne né parlarne senza un grande scuotimento emotivo…La mia malattia risale a quando avevo dodici anni... Non saprei dire, ora, se percepivo la gravità della situazione o quali fossero le domande che mi facevo. Probabilmente avevo elaborato una sorta di difesa naturale che mi imponeva di non chiedere troppo e di affidare tutto nelle mani dei miei genitori. Io ero uno di quei pazienti che non piangevano. Né per le iniezioni, né per i momenti di sconforto. Questo non significa che avessi coraggio o fiducia. Semplicemente non piangevo. E forse oggi quei pianti non fatti si sono trasformati in un’angoscia che a volte torna, nei sogni, in alcune particolari situazioni, con le mie nipoti. Mi capita spesso di sognare di ricadere nella malattia, anzi no, di dover affrontare ulteriori cure di cui non mi era stato detto. E non mi sogno bambino, mi sogno come sono adesso. In questi sogni spesso sono accompagnato da mia madre o da mio padre, che mi continuano a spiegare la necessità di un ricovero ulteriore e di come esso fosse stato già previsto. E in questi sogni, che diventano incubi, gli ospedali sono lontani, altrove. A volte strutture modernissime, a volte lugubri stanzoni da reduci della prima guerra mondiale. Ricorrente è la lunga permanenza di mesi, e la sconfortante scoperta di dover avere conseguenze nel fisico e nell’aspetto e di buttare via del tempo; non sapere bene come relazionarmi con gli altri per spiegare il tempo in cui sono stato via. Perdere insomma ciò che nel tempo ho recuperato per la regressione della malattia e degli effetti collaterali, ma anche con mia grande fatica e volontà. Per esempio, ho lottato contro la mia magrezza, modificando la mia alimentazione e facendo palestra. Ho odiato la mia magrezza, che era in parte conseguenza della malattia, in parte conformazione fisica. Oggi ho fatto pace col mio corpo. Ma la mania di pesarmi e guardarmi allo specchio è però rimasta tal quale. In quanto all’essere ipocondriaco, potrei dire di essere un ipocondriaco selettivo. Non do molto peso a un lieve aumento del colesterolo, a un dolore muscolare, alla mia cervicale sempre dolente, alla mia colite che ogni tanto viene fuori. Mi inquietano invece il pallore, la spossatezza, il dimagrimento. Se ho questi sintomi, penso subito di farmi prescrivere un esame del sangue; guardo subito

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