Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Ossido di rame
Ossido di rame
Ossido di rame
Ebook188 pages2 hours

Ossido di rame

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

“Equilibrio. Non è altro che un mare piatto, un mucchio di nuvole che coprono il sole e non producono pioggia. Non è che un compromesso, un punto di media distanza tra tristezza e felicità.”
La felicità di un uomo si nasconde nel movimento, nel discostarsi dalla passività e trovare sempre nuovi modi per mettersi in gioco. Ed è proprio questo che spinge il personaggio principale, insieme a suo fratello e due amici, lontano da casa, sulle tracce di ciò che rimane del sogno americano.
Quello che comincia come un sogno però, si trasforma lentamente in un terribile incubo.
LanguageItaliano
Release dateSep 1, 2018
ISBN9788828328575
Ossido di rame

Related to Ossido di rame

Related ebooks

Thrillers For You

View More

Related articles

Related categories

Reviews for Ossido di rame

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Ossido di rame - Federico Monterastelli

    definitiva.

    Capitolo 1

    Lei

    Ricordo l’erba verde del giardino di casa, coperta da una coltre di margherite e fiorellini blu, che spuntavano col fare gioioso della primavera. Ricordo il vento caldo che smuoveva le chiome degli alberi in lontananza prima di solleticare le mie guance pallide. Stavo sulla cima dell’albero di ciliegio che dominava su tutte le altre piante intorno casa mia, comodamente seduto su un ramo mentre dondolavo le gambe in avanti e indietro, come si fa su un’altalena. Nascosto tra le foglie e quei fiori bianchi, scrutavo le persone che passavano per la strada. Ricordo un uomo anziano che camminava spesso su quell'asfalto distrutto dal tempo, portava sempre un sacco nero e pesante verso il bidone della spazzatura. Si muoveva lentamente, con passo incerto, puntellandosi su una gamba che pareva non poterne più. Il sudore gli imbeveva la camicia logora sotto i primi caldi dell’anno, mentre l’immensa fatica che provava gli si stampava sul volto rugoso ed umidiccio. Qualche volta mi balenava in testa l’idea di scendere per aiutarlo, ma quei suoi lenti movimenti così ripetitivi mi ipnotizzavano, rendendomi immobile. Così rimanevo ad osservare la scena, finché un altro passante non richiamava la mia attenzione. Talvolta una giovane mamma con un passeggino, un bambino in bicicletta o un uomo a spasso col cane. I loro corpi trasudavano una serenità invidiabile ed un attaccamento alla vita che forse non avrei mai conosciuto.

    Vivevo abbracciato alla debolezza del mio corpicino esile, tremendamente fragile. Fragile per la sottigliezza delle ossa, che sembravano lische di pesce coperte da una pelle biancastra; fragile perché invisibile agli occhi degli altri ragazzini a scuola; fragile perché la mamma se n’era andata ormai da un anno, lasciando un vuoto incolmabile sotto a quello sterno trasparente che collegava le mie esili costole. Restavo lassù, su quell'albero, per separarmi dal dolore e da quella terra che si era presa il Suo corpo per sempre, non dando nulla in cambio.

    Pensavo a Lei quando il vento si faceva più forte e le nuvole coprivano il cielo. Stringevo con forza la ruvida corteccia dell’albero e chiudevo gli occhi, cercando nel buio delle palpebre il freddo conforto dell’oscurità.

    Mio fratello soffriva coperto da un velo di silenzio. Non parlava mai della mamma. Si difendeva dal Suo nome quando le persone la ricordavano, si difendeva dal Suo viso nelle foto sparse sui mobili e dal Suo profumo che riempiva ancora tutta la casa; ma nella sua lotta non c’era speranza. Si può impedire all'orecchio di sentire e all'occhio di vedere, ma la mente è un fiume che non conosce dighe; è una tempesta che imperversa eternamente, riportando alla luce anche i ricordi più reconditi. Chiunque aveva provato ad aiutarlo, ma il muro che si era costruito intorno era un limite invalicabile, perfino per il più bravo degli analisti. Così se ne stava dentro al suo castello di piccole certezze, combattendo la vita in un assedio che pareva infinito.

    Era papà a prendersi cura di noi. Ogni mattina ci preparava la colazione e ci dava un bacio prima di andare a scuola. Restavo per ore su quei banchini bianchi, così rigidi e terribilmente asettici, a fissare le pareti irregolari della classe. Le parole che uscivano dalla bocca della maestra dell’ultimo anno di elementari facevano da sottofondo ai miei pensieri angoscianti. La felicità di quei bambini, che al suono della campanella esplodeva in un concerto di urla e schiamazzi, era come una lama conficcata nel petto. Camminavo verso il cancello della scuola, un passo dietro all'altro, senza alzare mai lo sguardo. Nessuno mi guardava ed io non guardavo nessuno. Le mie scarpe, sotto il peso irrisorio del mio corpo, non lasciavano impronte nemmeno sulla terra morbida del cortile.

    Mio padre era malato di uno di quei mali che non può essere curato. Ogni cellula del suo corpo era come riempita di inchiostro nero, indelebile, che macchiava ogni pensiero, ogni gesto, ogni istante. La perdita della mamma l’aveva fatto languire dentro, come un albero mangiato internamente dagli insetti. Quelle che un anno prima erano gambe robuste e braccia forti, si erano ridotte ad esili ramoscelli, legati insieme da vistose giunzioni. I suoi occhi si erano sciolti e guardavano il mondo di rado, nascosti bene da quelle cadenti palpebre. La mamma era stata tutto per lui. Si erano conosciuti quasi per caso, fuori dal cancello del liceo Vallisneri. Lui era un ragazzo timido, introverso, quasi privo di emozioni, come un piccolo ed immobile specchio d’acqua. Lei le era caduta addosso e, come una foglia di autunno che cade sull'acqua increspandone la superficie, l’amore era nato, ed era aumentato col dilatarsi dei cerchi concentrici formati nell'impatto. Ora l’energia di impatto di quella foglia era finita, e l’acqua aveva ripreso a stare immobile.

    Gli anni si intercalarono tra quei ricordi, come un vento lieve e continuo che separa nuvole nere cariche di pioggia. Mio padre riuscì a tornare alla vita, ma lo fece un passo alla volta, molto lentamente, stringendo le nostre mani che divenivano sempre più grandi. Noi due eravamo la forza che lo portava avanti ogni giorno. Ci amava perché parte di lui, ci adorava perché parte di Lei.

    Durante gli anni del liceo gli amori e le amicizie ritagliarono un piccolo spazio in mezzo a quel mare di oscurità nei nostri cuori. Stavamo tornando al mondo reale, con una cicatrice sul cuore, ma con la voglia di provare almeno una volta cosa significhi gioire.

    Appena finii la scuola superiore decisi di andarmi a cercare un lavoro; così, all'età di diciotto anni, ottenni un posto in una cartiera. Da quel giorno in poi, le mie giornate sembrarono una quantità infinita di fotocopie della stessa pagina.

    Quando entrai a lavorare in cartiera ero convinto che non sarei rimasto per molto, ma poi quel posto mi era entrato sotto la pelle, aveva spento cervello e sogni, e in men che non si dica ero divenuto un automa, una macchina da lavoro senz'anima.

    Si presentò un’occasione, forse l’ultima per fuggire da quel posto che ritenevo infernale, ed io, in quel secondo che rovinò del tutto la mia esistenza, decisi di accettarla. Quanto vorrei tornare a quel giorno per potermi guardare in faccia e dirmi: hai tutto quello che ti serve. Hai un padre e un fratello che ti vogliono bene, non mandare tutto a puttane. Purtroppo è così che vanno le cose. Si da sempre per scontato ciò che in realtà è più importante di qualsiasi elucubrazione. Si ricerca nelle cose più volatili una felicità estrema, non paragonabile a nessun altro sentimento elaborato dall'uomo, solo per sentirci per qualche secondo sul punto più alto dell’universo. Spesso decidiamo di dare ogni goccia del nostro sangue per quel momento infinitesimale, senza fare i conti con la caduta inevitabile che segue alla gioia pura, così come il terribile fardello della dipendenza segue l’orgasmico potere dell’eroina.

    Purtroppo ciò che è stato fatto non si può cambiare; adesso è arrivato il conto salato di scelte poco ponderate, e la moneta per pagarlo è la libertà.

    Prima di finire in questa cella non credevo a tutte le storie sulla prigione, ma ho potuto appurare che qui si mangia davvero male, e la tua mente viene continuamente stuprata da una psicologa che non sa far altro che scavare montagne di sabbia dal passato.

    Condivido la cella con un ragazzo di colore di nome Marcos, che ha più o meno la mia stessa età. Nessuno qua dentro sa per quale motivo sia stato messo in prigione; l’unica cosa che sono riuscito a capire, vedendo il modo in cui contempla una foto, è che aveva una famiglia e l’amava molto. C’è chi dice che qualcuno gliel'abbia portata via come vendetta per un mancato risarcimento di un debito e lui, disperato, abbia combattuto il sangue con il sangue, uccidendo i responsabili della morte dei suoi cari. A me non interessa la sua storia, con me è sempre gentile e disponibile e questo mi basta. Adesso, senza dilungarmi troppo sul presente, comincerò a raccontare il succedere degli eventi che mi hanno condotto fin qui, a marcire nell'autocommiserazione.

    Capitolo 2

    L'allegra combriccola

    Tra i muri verdi lanciati verso il cielo; tra il freddo ed umido inverno ed il caldo insopportabile l’estate; tra giorni monotoni ed esasperanti si era insinuato il tempo, che come un treno mi aveva portato, su binari stabiliti da un destino prevedibile, all'età di 25 anni.

    Dividevo ancora il tetto con mio padre e mio fratello ed erano già passati sette anni dal primo giorno in cartiera. Quel posto alla fine aveva assoggettato la mia anima rendendomi schiavo di un lavoro dannatamente noioso.

    Erano passati molti anni dalla morte della mamma, ma a volte capitava che qualche brutto ricordo tornasse a tormentarmi. L’unico modo che conoscevo per scacciare quei pensieri era scambiare quattro chiacchiere con gli amici dietro ad una birra; così andavo al pub, ordinavo da bere ed aspettavo che arrivassero gli altri.

    Un giorno stavo seduto su uno sgabello, chino difronte alle bolle che correvano nel bicchiere, e mi accorsi che il barista mi stava fissando. Alzai il sopracciglio, quasi a chiedergli che cosa volesse.

    «Scusa amico, stavo pensando… Sono due mesi che abito in questo paese e lavoro in questo posto, e nemmeno conosco il tuo nome!»

    Portai il bicchiere alle labbra e tirai giù un po’ di birra. Aprii la bocca per rispondere quando il tizio venne chiamato per servire dei tavoli.

    «Ringrazia il Giova che te l’ha tolto dalle palle», disse Giacomo apparendo dietro al banco.

    «Cosa farebbe un uomo senza amici come te?», dissi sorridendo.

    Si chiamava Giacomo Giovannetti ma ormai per tutti era il Giova. Non si sa per quale ragione parlasse di sé in terza persona, probabilmente era frutto del suo ego smisurato. Credo che si ritenesse una specie di dio, un qualcosa di ultraterreno che lo portò ad alienare la parte umana da se stesso. Brindate al Giova!! diceva barcollando sui tavolini dell’Irish, il piccolo pub dove lavorava. Ogni giovedì diceva: ragazzi, festeggiate! Oggi è Giovadì, il giorno in cui il Giova ha creato l’universo! e tutti ridevano mentre assumeva pose ridicole per mostrare i muscoli.

    Era la persona più divertente che avessi mai conosciuto, forse per quello eravamo amici da una vita.

    «Non oso immaginarlo!», affermò ridendo, poi mi spillò un'altra birra e si appoggiò al bancone.

    «Per fortuna sono le ultime sere che lavora qui», mi disse smicciando il ragazzo che era prima al banco, «non lo sopporto più».

    Strusciò un po’ con il panno sul bancone, poi mi chiese: «ma tuo fratello e Claudio non vengono stasera?»

    «Mio fratello è a casa piantato alla tv, quando gli ho chiesto se usciva nemmeno mi ha risposto».

    Spesso era strano mio fratello. Erano passati molti anni da quando la mamma era morta, ma lui ancora faticava a tornare a vivere. Continuava a rimanere chiuso come una conchiglia, non riusciva a liberarsi da quel guscio che lo proteggeva e al tempo stesso lo confinava in uno spazio claustrofobico.

    Sembrava essere insofferente verso tutto ciò che lo circondava. Qualche volta provavo a parlargli, anche solo per sollevarlo un po’ da quel peso opprimente che schiacciava tanto lui quanto me, ma lui mi respingeva subito. Pareva volersi accollare tutto il dolore del mondo senza ricevere aiuti, perché sentiva che lo meritava e che era giusto così. Ogni tanto i ragazzi scherzavano su quella sua apparente apatia ed io gli davo corda per tentare di smuoverlo in qualche modo. Lui si limitava a guardarci e a scuotere la testa, per poi tornare ad ignorarci completamente.

    «Serata no, ho capito… e Claudio?», chiese il Giova.

    La porta si spalancò ed apparì come se l’avessimo chiamato.

    Claudio Moretti era un ragazzo alto e snello che fumava due pacchetti di Marlboro rosse al giorno. Ancora mi è difficile capire come i suoi poveri, piccoli polmoni potessero sopportare tale maltrattamento. Aveva una voce rauca che faceva vibrare l’aria a chilometri di distanza e delle movenze singolari, dettate dalla struttura esile del suo corpo. Il suo naso aquilino sembrava cambiare forma ad ogni espressione, come animato da una vita indipendente.

    «Che si dice?», urlò mentre dondolando su quelle gambette secche si avvicinava al bancone.

    «Stavamo parlando di donne, cose che non ti interessano!», rispose Giacomo.

    «Sta zitto scemo e fammi una birretta!»

    Con la scusa di una birra stavamo a chiacchiera per ore. Era il nostro modo per esorcizzare i problemi, per staccare la spina.

    Anche Giacomo e Claudio, come me e mio fratello, non avevano avuto vita facile. Sara, la madre di Giacomo, aveva ottenuto la custodia del suo unico figlio dopo la separazione. Il padre, sempre costretto fuori dall'Italia per lavoro, secondo i giudici non era la figura giusta per crescere un bambino.

    La separazione aumentò la distanza già siderale tra Giacomo e suo padre, ma non riuscì mai a spezzare quel filo potente che li teneva legati.

    Claudio, invece, era stato abbandonato dai genitori da piccolo ed era stato adottato all'età di cinque anni. Non ha mai accettato l’abbandono e, anche se vuole bene a quelli che sono diventati suo padre e sua madre, ha sempre vissuto col desiderio di vedere sua mamma almeno per qualche secondo. Le nostre vite, insomma, erano destinate ad avvicinarsi, come fanno due corpi per proteggersi dal freddo.

    Per la gente del paese noi eravamo l’allegra

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1