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Ultime notizie da un paese di merda: e altri racconti
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Ultime notizie da un paese di merda: e altri racconti
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Ultime notizie da un paese di merda: e altri racconti

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About this ebook

Una raccolta di racconti sull’Italia del Novecento, tra autobiografia e osservazione del reale. Si parte dalla Grande Guerra, ci si sofferma sul secondo dopoguerra, si attraversa il Sessantotto con le sue miserie e le sue utopie, si arriva all’epoca delle guerre globali, del disincanto, del razzismo e dell’arrivismo d’oggi. Un certo ruolo hanno le parlate dialettali – il veneto, il toscano, il lombardo, il genovese – che testimoniano non già presunte identità regionali, a cui l’autore si sente completamente estraneo, ma forme di esperienza vissuta che mantengono, se non altro nel ricordo, una grande vitalità.

Alessandro Dal Lago è nato a Roma nel 1947. Ha insegnato Sociologia della cultura in diverse università italiane e straniere. È autore o coautore di una quarantina di volumi di argomento sociologico e filosofico. Ma ha pubblicato anche un romanzo, una raccolta di racconti sull’università e altri testi letterari. Ha vissuto per lo più a Milano e Genova e ha soggiornato per lunghi periodi a Parigi e negli Stati Uniti. Oggi vive in Sicilia e passa alcuni mesi ogni anno in Germania.

 
LanguageItaliano
Release dateMar 6, 2018
ISBN9788885491489
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    Ultime notizie da un paese di merda - Alessandro Dal Lago

    ULTIME NOTIZIE DA UN PAESE DI MERDA

    Alessandro Dal Lago

    Copyright © 201x, Prospero Editore, Novate Milanese (MI)

    Prima edizione: mese 201x

    ISBN: 978-88-85491-48-9

    ISBN cartaceo: 978-88-85491-39-7

    www.prosperoeditore.com

    info@prosperoeditore.com

    www.facebook.com/ProsperoEditore

    Collana: Prospero racconti

    Direttore: Riccardo Burgazzi

    Grafica di copertina: Francesco Ravara

    Immagine di copertina: Serena Giordano

    Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e a norma delle convenzioni internazionali.

    Questo eBook contiene materiale coperto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito senza l'autorizzazione dell'editore. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce una violazione dei diritti dell'editore e degli autori (legge 633/1941 e successive modifiche).

    RITRATTO DI FAMIGLIA NELLA GRANDE GUERRA

     Quando el pare fa carneval, i fioi fa quaresima.

     [proverbio veneto]

     Mia madre era solita dire che nella sua famiglia ci dovevano essere stati anticamente dei crucchi, perché a parte lei e suo padre, castani di occhi e di capelli, tutti i suoi fratelli e mia nonna avevano i capelli biondi o rossicci e gli occhi azzurri. E poi c’era la statura. Mi parlava dei sette fratelli, cinque maschi e due femmine, come stangoni magri e allampanati, che la prendevano in giro perché era alta solo un metro e settantotto. Per lei, la statura era la prova definitiva delle origini germaniche della famiglia. Da bambina, la dieta domestica comprendeva invariabilmente polenta, castagne e nelle feste comandate un pollo da dividere tra tutti in famiglia, ma solo in tempi di prosperità. Comunque, mai vitamine. E quindi, diceva lei, la statura era un fatto ereditario e non il risultato di un’alimentazione adeguata.

     A proposito di dieta, i pranzi dei giorni di Natale e Pasqua, stando ai racconti di mia madre, obbedivano a un rituale immutabile. Mia nonna stendeva sul grande tavolo di legno della cucina uno strato liscio e spesso di polenta bollente, pareggiandola accuratamente con una spatola. Al centro veniva sistemato il pollo arrostito sul fuoco e tagliato in pezzi. Raramente, compariva in tavola un coniglio. Tutta la famiglia si sedeva e recitava la preghiera. Terminata la quale, una coscia era servita al nonno e l’altra alla nonna. A questo punto, tutti gli altri, forniti di un pezzo di pane, dovevano farsi strada trangugiando la polenta fino al pollo e ripulendo perfettamente il proprio spicchio di tavolo. Nessuno poteva servirsi del volatile prima di aver completato il percorso. Mia nonna, armata di un mestolo di legno, sorvegliava che la gara si svolgesse in modo leale. Se qualche bambino avesse fatto il furbo, avrebbe ricevuto una botta sulla mano e sarebbe stato costretto a ricominciare da capo, il che significava, in pratica, l’esclusione dalla gara. 

     Per mia madre la storia degli antenati crucchi aveva il valore di una leggenda dell’età dell’oro, quando il mondo, sotto il benevolo dominio degli austriaci, era ordinato, tutto funzionava alla perfezione e loro, i veneti, non si erano ancora mescolati con questa gente rumorosa e pressappochista, gli italiani, o nella sua parlata, i teròn, con cui si intendeva chiunque non fosse veneto, trentino, friulano o, al limite, lombardo o emiliano. Insieme alle presunte origini germaniche, quello dei terroni era un topos ricorrente nelle considerazioni materne. Ma non una semplice ossessione o avversione: per lei la differenza tra noi e loro era un fatto incontrovertibile, qualcosa di dato in natura e non frutto delle convenzioni umane, insomma, per dirla con i filosofi, physei e non nomo. 

     Non che lei, pressoché analfabeta, riuscisse a esprimere simili distinzioni. E non credo che nel suo caso si trattasse di un razzismo consapevole e tanto meno foriero di conseguenze pratiche. L’opposizione veneti/terroni era una categoria quasi metafisica che comportava innumerevoli eccezioni empiriche. Frasi come è napoletana, ma non sembra una terrona, oppure è una brava persona anche se viene da Bari, sono state un Leitmotiv della mia infanzia. La contraddizione tra il generale e il particolare diventava clamorosa nel caso di mio padre, nato vicino a Roma in una famiglia che vantava lontane origini albanesi, fin dai tempi di Giorgio Castriota detto Skanderbeg, e si era trasferita nella capitale dopo aver posseduto delle terre in Puglia. Tuo padre non ha proprio nulla del terrone, diceva mia madre, perché ha studiato da ingegnere a Pisa e in Germania. Così, ammetteva implicitamente e senza accorgersene che un’educazione nordica era stata capace di cancellare le oscure origini meridionali, o ancora peggio balcaniche, di mio padre, e quindi che il nomos era riuscito per una volta a spuntarla sulla physis.

     La faccenda dei crucchi aveva, se non altro, un labile fondamento storico. Le conoscenze di mia madre in tema di antenati non andavano al di là del nonno materno, figura semi-leggendaria di combattente della terza guerra d’indipendenza. Ma dalla parte degli austriaci. Il mio bisnonno Gaetano, battezzato così in onore di un santo protettore di Valdagno, era imbarcato come cannoniere sulla Erzherzog Ferdinand Max, che issava le insegne dell’ammiraglio Tegethof, il trionfatore di Lissa. Mia madre conservava una fotografia del bisnonno in alta uniforme di marinaio della k.u.k.K (kaiserliche und königliche Kriegsmarine, imperialregia marina da guerra), con tanto di barba spartita in due alla moda dell’epoca e medaglia sul petto. Più tardi, seppi che gli austriaci arruolavano in marina veneziani, istriani e dalmati e anche veneti delle montagne con esperienza di fonditori e minatori. D’altra parte, gli ordini a bordo venivano trasmessi in veneto e il grido di battaglia era Viva san Marco.

     Entrambe le famiglie dei miei bisnonni possedevano un po’ di terra, con annessa casa colonica, trasmessa in eredità al primogenito o al figlio maschio più anziano. La rimanenza della vasta prole era destinata, nel caso delle femmine, ad andare a servizio a Vicenza, Padova e Venezia o, in quella dei maschi, a cercare di guadagnarsi il pane nelle miniere di argento e carbon fossile del Trentino e del Tirolo. E questo spiega a sufficienza la frequenza della tubercolosi e soprattutto dell’alcolismo tra i miei parenti. Sul tema dell’alcolismo mia madre era abbastanza reticente. Accennava vagamente al fatto che diversi miei zii erano morti giovani per colpa della sgnapa o graspa, ma non entrava nei dettagli. Il fatto è che ne provava una grande vergogna. Per lei l’alcolismo era una macchia indelebile sul suo cognome. Ma anche qualcosa che si trasmetteva a mo’ di maledizione di padre in figlio, come nella Bestia umana di Zola. La sua fissazione era che io avessi ereditato la tabe di famiglia. Le sue prediche finivano senza eccezioni sul tema del vino. Quando ero già adolescente e la sera uscivo con gli amici, al ritorno mi costringeva alla prova dell’alito e talvolta mi somministrava, data la sua inclinazione per una pedagogia manesca, sberle davvero prodigiose.

     L’ossessione era diventata sintomo. Non poteva nemmeno accostare le labbra a un bicchiere di vino senza che la prendessero terribili crisi d’asma. E tuttavia a tavola compariva sempre una caraffa di rosso, moderatamente apprezzato da mio padre. Infatti, come è noto, le relazioni famigliari e soprattutto quelle genitori-figli, sono assai tortuose. L’avversione di mia madre per l’alcol non le impediva, quando era molto anziana e ancora in grado di invitarmi a cena, di tirar fuori dalla dispensa una bottiglia d’Amarone, condendo il dono con la solita frase: – Se proprio devi bere, fiòl d’un can, almeno bevi bene.

     Entrambe le famiglie dei miei nonni materni venivano dall’altopiano di Asiago e la mia sterminata parentela si estendeva dall’alto vicentino sino alle province di Trento e Bolzano. Quello che mi ha sempre sconcertato non era tanto la difficoltà di orientarmi nella folla dei parenti dai nomi ricorrenti di Bepi, Benedeto, Toni, Sandrìn, Sandròn, Marieta e così via, quanto la sovrapposizione delle generazioni. Da ragazzino mi capitava di conoscere nipoti o bisnipoti, nel senso di figli di figli di zii, che erano già uomini fatti, se non decrepiti, mentre i miei cugini erano morti da anni. Che tali vecchioni si rivolgessero a me chiamandomi zio, e magari con una vaga deferenza, mi ha sempre fatto ridere. Ma la spiegazione era semplice. Mia madre, ultima di otto figli, era nata nel 1908, mentre il primogenito nel 1893. I quattro fratelli più grandi si erano sposati subito dopo la grande guerra e avevano cominciato a fare figli e alcuni di questi erano già padri prima che nascessi io. Ed ecco spiegata una parentela che si estendeva nello spazio e si aggrovigliava nel tempo.

     E tuttavia in questa foresta di zii, prozii, cugini e nipoti di ogni ordine e grado c’era una lacuna, rappresentata da mio nonno, di cui non avevo mai saputo nulla. Mia madre non conservava le sue fotografie. In un ritratto di gruppo all’inizio della guerra, nel maggio del 1915, si vede una parte della famiglia schierata sull’aia. Ci sono la nonna e due figli in divisa in attesa di partire per il fronte, mia madre con gli altri bambini, due vecchi zii, cugini e nipoti vari, e perfino due cani, ma non il nonno. Quando chiedevo a mia madre notizie del nonno, lei restava nel vago. Immancabilmente le scarse informazioni sul suo conto si arrestavano alla prima guerra mondiale. Sapevo che era nato nel 1870, che era stato con le truppe coloniali in Eritrea, che nel 1892 fu congedato a causa di qualche malattia tropicale misteriosa ma non letale, che al ritorno dall’Africa era stato assunto dalle poste come portalettere e quindi aveva sposato mia nonna.

     Dato che mia madre amava raccontare episodi curiosi o patetici della sua infanzia durante la grande guerra, continuavo a meravigliarmi che non accennasse mai al nonno. Insistevo, ma lei scantonava. Così mi feci l’idea che in famiglia, oltre all’alcolismo, ci fosse un’altra macchia, tanto grave da non poter essere confessata, come un tradimento, magari con abbandono della famiglia e fuga in città, o forse un delitto. La mia curiosità stava diventando molesta, perché una volta a tavola mio padre sbottò: – Avanti, raccontaglielo, ormai è abbastanza grande. 

     Ed ecco la storia di mio nonno nella grande guerra.

     Di nome faceva Anselmo, ma tutti in paese lo chiamavano Menelik per le sue avventure coloniali. Di conseguenza, la moglie Adelaide, mia nonna, era detta la regina Taitù, anche per la sua aria severa. Ma il secondo soprannome di mio nonno era Mastegavin e non solo perché non aveva più denti.

     Infatti, il nonno era un bevitore, ma del tipo metodico, scientifico, non occasionale o acuto. Iniziava all’alba con una grappa e punteggiava il suo giro di portalettere con numerose soste nelle osterie del paese. Finito il turno, tornava a casa, succhiava un po’ di minestra, accompagnata da un’abbondante dose del terribile vino rosso locale, dormiva un’oretta e poi, mentre mia nonna lavorava nella fabbrica tessile, si occupava dei figli piccoli. Il che significava, per mancanze anche minime, una sequenza ininterrotta di bestemmie, cinghiate e calci equamente distribuiti sulla vasta figliolanza. Verso le quattro, terminata la sessione educativa, riprendeva il giro delle osterie par rifarse el beco Uscita di fabbrica, mia nonna andava a cercarlo in paese, lo trovava spesso privo di conoscenza, lo riportava a casa e lo metteva a letto.

     Diversamente dal padre di mia nonna, il fiero cannoniere austroungarico, mio nonno era un fervente irredentista e detestava gli austriaci (forse, anche in odio al suocero). Non perdeva una ricorrenza nazionale e si pavoneggiava in paese, freddo o caldo che facesse, nella leggera giacchetta bianca di soldato coloniale ornata dei gradi di caporale. La virulenza del suo patriottismo, tanto per cambiare, si scaricava sui figli. Mia madre mi raccontò che una volta, quando lei aveva quattro o cinque anni, giocava davanti a casa e cantava con gli altri bambini una filastrocca filo-austriaca che suonava più o meno così: Bianco, rosso e verde, color delle tre merde. Mio nonno venne fuori e cominciò letteralmente a bastonarli e ci si dovettero mettere mia nonna e i figli grandi a trattenerlo perché non commettesse un’enormità. Mentre mi raccontava queste storie, cominciai a capire perché l’Italia per mia madre fosse sempre stata un’entità minacciosa e foriera di guai e sofferenza. Non erano solo le guerre, la fame, la paura per i fratelli al fronte e poi i bombardamenti della seconda guerra mondiale. In lei la patria s’incarnava indelebilmente in questo padre ubriacone e violento. – Come vedi, non tutto il male viene dai terroni – osservai una volta. Lei si mise a ridere: – Ma noi veneti sai come ci chiamano? I terroni del nord.

     Nelle settimane precedenti l’entrata dell’Italia in guerra, mio nonno correva a Vicenza e Venezia a manifestare per l’intervento. A quanto ho capito, da quelle parti l’entusiasmo patriottico doveva essere piuttosto tiepido, esattamente come nella guerra del 1866. Non era solo la memoria favorevole agli austriaci, almeno agli occhi di una minoranza. I vecchi e gli adulti capivano bene che cosa significasse vivere nelle retrovie di un fronte che sarebbe passato a poche decine di chilometri da casa, sul Pasubio e sull’altipiano di Asiago. Credo anche che mio nonno si sia trovato in qualche tafferuglio con i pacifisti o i filo-austriaci. Comunque, il 24 maggio 1915 era a Vicenza a festeggiare la dichiarazione di guerra all’Austria e a tarda la sera prese il trenino a vapore per tornare a casa a Valdagno.

     Nessuno ha mai saputo che cosa sia successo. Probabilmente, era ubriaco fradicio e, poco prima della stazione, aprì la porta e cadde fuori. O magari qualcuno, dopo un alterco, lo buttò giù dal treno. Doveva anche aver battuto la testa perché un’ora dopo, quando lo stesso treno tornò indietro, il macchinista lo vide immobile steso di traverso sui binari. Ma era buio e non ebbe tempo di frenare e così lo investì. Il nonno ebbe un piede troncato di netto all’altezza della caviglia e l’altra gamba maciullata. Per sua fortuna – o, come dicevano in paese, per sfortuna della famiglia – a bordo c’era un medico che gli prestò i primi soccorsi e gli bloccò le emorragie. Fu portato a Vicenza sullo stesso treno e operato. Gli amputarono le gambe sotto i ginocchi e sopravvisse.

     Nella mia sventatezza di ragazzino la storia non mi impressionò più di tanto. – Ma mamma, è stata una disgrazia! Che c’era di così vergognoso che non volevi mai parlarmene? 

     Lei mi rispose che non potevo capire che cosa significasse un incidente come quello nel loro piccolo paese in tempo di guerra.

     L’opinione generale era che Mastegavin se la fosse ampiamente meritata. Il rispetto per mia nonna, considerata una specie di martire, era pari all’avversione per il postino alcolizzato e molesto. Ma col respèto no se magna massa, cioè col rispetto non è che si mangi di più, diceva mia madre. Per cominciare, le poste negarono la pensione al nonno perché l’incidente era capitato per colpa sua. Il prete si mise di mezzo e riuscì a fargli ottenere un piccolo contributo d’invalidità dal comune e soprattutto che i figli piccoli, mentre i grandi erano al fronte, aiutassero mia madre in fabbrica. Ormai l’intera economia della famiglia poggiava sulle spalle di mia nonna, che aveva quarantacinque anni. E questo vuol dire che, oltre a lei, quattro bambini e tre adulti (mio nonno più due vecchi zii a carico) dovevano vivere del magro salario che mia nonna guadagnava in fabbrica.

     E qui, prima di tornare a mio nonno, vale la pena di aprire una finestra sulla cultura del lavoro nel Veneto di quell’epoca. Dunque, mia madre lavorò in fabbrica dal 1915, quando aveva otto anni, sino al 1929, quando raggiunse la maggiore età. Infatti, mia nonna, su consiglio del parroco, portava i bambini in fabbrica per toglierli dalla strada e soprattutto dalle grinfie di mio nonno. Però, lavoravano anche loro facendo quello che potevano e naturalmente non venivano pagati Mia madre fu ritirata da scuola in seconda elementare e così imparò a leggere faticosamente, ma mai a scrivere. Più tardi, dopo aver approfondito un po’ i rapporti tra salariati e capitalisti, mi capitava di pensare con rabbia a questi imprenditori che non nel primo Ottocento, ma solo un secolo fa, sfruttavano i bambini e per di più passavano da filantropi. In paese, la fabbrica era al vertice di un ordine sociale inattaccabile che poggiava in basso su due colonne, il prete e il maresciallo dei carabinieri. Erano loro a segnalare le famiglie meritevoli d’impiego e a scartare i giovani con i grilli per la testa, troppo amanti del vino o, Dio non volesse, sovversivi. Sta di fatto che all’inizio degli anni Sessanta, quando la fabbrica impiegava migliaia di operai, gli iscritti al sindacato rosso non superavano i cinquanta. 

     Mia madre era impregnata da cima a fondo da questa cultura del lavoro paternalistica e pretesca. I suoi principi morali erano due e semplici: obbedire alle autorità, divine o profane che fossero, e lavorare. Considerava l’ammissione in fabbrica sua e dei fratelli (il più grande aveva quattordici anni) come una benedizione, o meglio un favòr dei padroni. Negli anni Trenta, quando mia madre non abitava più nel paese natale, la fabbrica fu al centro di un esperimento sociale. Furono costruiti alloggi per gli operai e asili, nonché dopolavori e la casa del Balilla. D’estate, i bambini erano intruppati in colonie aziendali a Jesolo. Mia madre disapprovava decisamente queste innovazioni come responsabili di una progressiva rilassatezza dei costumi: i operari i xe diventà tuti Venexian, i nasse stanchi e vive par riposar, diceva spesso. Guardandosi le mani tormentate dall’artrite e scavate sotto pelle dalla scabbia, sembrava rimpiangere quei tempi lontani in cui lei e i fratelli si muovevano tra i telai sferraglianti, trascinando a fatica matasse di lana e cotone. 

     Non c’era niente da fare. Qualsiasi discorso sullo sfruttamento per lei era un incitamento alla sovversione di un ordine morale prima che sociale. Nel 1968, Valdagno fu al centro di una vera rivolta operaia contro i padroni. Lo sciopero, in una cittadina di meno di trentamila abitanti, coinvolse quattromila lavoratori e il corteo operaio fu attaccato da un migliaio di celerini. Per la prima volta nella sua storia l’intero paese reagì in massa e la polizia fu cacciata. Un gruppo di giovani operai legò una corda al collo della statua del fondatore della fabbrica e la trascinò nella polvere. Fu un evento storico che segnò il risveglio della coscienza di classe e l’avvento di una breve stagione sovversiva. Insomma, una festa per tanti e un trauma per altri. Mia madre ne rimase sconvolta. Quando arrivai a casa con le foto in prima pagina della statua abbattuta e manifestai il mio entusiasmo, lei mi tirò addosso un mestolo e mi cacciò letteralmente di casa.

     Mio nonno passò quasi due mesi all’ospedale e tornò a casa. L’avevano fornito di due stampelle di legno con puntali di ferro. Pare che in poco tempo divenisse espertissimo nel loro uso e riuscisse a spingersi una volta al giorno all’osteria più vicina trascinando i moncherini per alcune centinaia di metri. Ma passava gran parte del tempo seduto davanti al fuoco o, se il clima lo consentiva, sulla porta di casa, sempre circondato dai bottiglioni. Se prima i bambini lo temevano, ora vivevano nel terrore. Aveva sviluppato un’abilità diabolica di lanciatore di stampelle, sia da seduto, sia in piedi appoggiandosi al muro. Mia madre mi raccontava che di domenica si metteva nella solita postazione davanti alla porta, aspettava che i bambini tornassero dalla messa e poi li chiamava perché ricevessero la razione settimanale di schiaffi, in base al registro delle loro colpe. Se i bambini si sottraevano, mio nonno afferrava una stampella e gliela lanciava addosso. Una volta lessi a mia madre un passo di L’isola del tesoro in cui il feroce cuoco Long John Silver pratica lo stesso sport su un marinaio recalcitrante. – Era proprio così. La differenza è che tuo nonno mirava alle gambe, perché era venuto il maresciallo dei carabinieri a dirgli che l’avrebbe arrestato se ci avesse fatto troppo male. Comunque, varda chi cossa me gà fato me pare. – aggiunse, mostrando una cicatrice solco in uno stinco. – A distanza di cinquant’anni porto ancora i segni delle stampelle del nonno.

     – E la nonna non diceva niente? – chiedevo io, che al massimo avevo ricevuto le sberle materne e qualche cinghiata da mio padre.

     – Ma cossa vòto che la disesse! Il nonno era la sua croce e lei la portava. A quei tempi, le mogli obbedivano, non è mica come oggi. Lei, poaréta, si faceva dieci ore al giorno in fabbrica e poi correva a casa a sfacchinare per noi. Era una santa.

     Una volta le chiesi se il nonno picchiava la nonna. Mia madre si fece rossa e farfugliò che succedeva, qualche volta. Io non capivo che ci fosse da nascondere, finché le strappai l’ammissione, a mezza bocca, perché di queste faccende mia madre non amava proprio parlare, che mio nonno s’infuriava se mia nonna si sottraeva, per qualsiasi ragione, ai suoi appetiti maschili. A onta del vino e delle sue menomazioni, il terribile Mastegavin esigeva dalla nonna le dovute prestazioni coniugali. E questo in una casa che, quando ci andai per la prima volta, mi sembrò poco più di un tugurio. A piano terra, la cucina con la stalla adiacente per la vacca. Al primo piano, la camera matrimoniale e tre loculi, uno per i figli maschi, uno per le femmine e uno per i vecchi zii. Insomma, i bambini saranno stati al corrente di tutto quello che avveniva tra i genitori, busse del nonno alla nonna e amplessi compresi.

     Per tutta la durata della guerra, mia madre soffrì la fame. Con il salario di mia nonna, equivalente a

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