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Al risveglio
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Ebook108 pages1 hour

Al risveglio

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About this ebook

Nove racconti dell’orrore, uniti tra loro dalla tematica del risveglio. Antiche entità emergono da dimensioni imperscrutabili o sepolcri scoperchiati. Sussurri, rumori, malattie e palpitazioni destano dai propri sogni i protagonisti delle storie narrate e li trascinano nell’incubo.
Bambini che fuggono per strada nel cuore della notte, ipnotizzati dalla musica di una creatura aliena che li attrae in un portale infra-dimensionale. In un paese in cui i morti sono risorti dalle tombe un uomo incontra la moglie defunta. In un borgo e in un’epoca indefiniti, un anziano fattore offre il grembo della propria figlia a un’entità ultraterrena che si nutre di oscuri segreti. Nel 1446, l’Inquisitore Heinrich Institor Kramer si confronta con Kore, la Matriarca dei Vampiri. Ma anche una donna che si ribella alle molestie del marito, rincasato ubriaco a tarda notte, un uomo risvegliato da un mal di testa lancinante circondato da bambole di plastica, un altro risvegliatosi in ospedale dopo un incidente automobilistico la sua unica preoccupazione è recuperare la refurtiva dal proprio furgone, abbandonato in un deposito infestato dai fantasmi. E non manca una visita notturna di un Babbo Natale assai anomalo né sette nanetti da giardino, che durante la notte risvegliano una creatura antica e malvagia dalle profondità della terra.
Al risveglio racconta, con una scrittura che prima di farsi leggere si fa vedere, la storia di una varia umanità al limitare di quel labile confine tra incubo e delirio.
LanguageItaliano
Release dateJun 1, 2018
ISBN9788832921823
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    Al risveglio - Edoardo Luigi Giana

    strappate.

    La culla

    1

    La serratura.

    Mi rigirai nel letto, le coperte che sembravano volermi vomitare come un bolo mal digerito.

    La serratura.

    La mano di mia moglie che mi serrava la spalla con l’urgenza spasmodica di un naufrago.

    La serratura.

    Carlo.

    Le sue unghie nella spalla, la paura che mi inoculò nella carne in un’overdose di adrenalina.

    Carlo, svegliati.

    Il mugolio nella mia gola, il dormiveglia colloso che si disfaceva in un miscuglio sfilacciato di sonno e realtà.

    La serratura.

    Carlo, c’è qualcuno.

    Aprii gli occhi.

    Francesca sussurrava, la sua voce era un urlo strangolato che le si dibatteva in gola. C’è qualcuno di là.

    La serratura.

    Sì, lo sentivo davvero. La serratura… Mi drizzai a sedere.

    Oh, merda, dissi.

    La mano di Francesca mi stritolava la spalla come a volermi trascinare nelle acque nere e infestate del suo panico. Mi si aggrappava addosso, annegava, e mi sprofondava nel buio.

    Stanno aprendo la porta.

    Mi strappai di dosso le sue unghie smaltate. Accesi la luce.

    Vado a vedere. La mia voce era un brontolio roco.

    No. Carlo. Prendi la… Prendi la…

    Non prendo un cazzo di niente, ringhiai.

    Scostai le lenzuola. Il solo pensiero di prendere la pistola mi aggrovigliò le viscere in uno spasmo diarroico. La odiavo, la pistola.

    Resta qui.

    Carlo, no!

    Scesi dal letto e aprii la porta della camera. Gli interruttori scattarono sotto le mie dita, uno dopo l’altro. Il corridoio. Il disimpegno. Sbattei la mano sul muro a schiacciare l’ultimo interruttore.

    Le alogene si accesero. La sala.

    Rimasi immobile, il cuore che pulsava come una pompa idraulica, il sangue che mi scrosciava nelle orecchie e il freddo nei piedi e nelle mani, come pesci morti infilati tra le dita.

    Battei le palpebre. Una, due volte. Mi sentii stupido.

    La voce mi stridette in gola, vento arido lungo un condotto arrugginito.

    Michele?

    Respirai, poi il respiro mi si mozzò di nuovo.

    Che stava facendo mio figlio?

    Michele…

    Ero spaventato.

    Michele era alla porta di ingresso, mi dava le spalle, e io ne potevo scorgere solo i ricciolini biondo cenere. Il pigiama azzurro era zeppo di stelline bianche. Anche i piedini che sporgevano dai pantaloni erano bianchi. Terrei. Si issava sulle punte e armeggiava con la chiave.

    Cercai di assumere un tono dolce, rassicurante, ma tutto ciò che mi uscì di bocca fu un verso stridulo striato di paura. Michele, cosa stai facendo? Mi tremava la voce.

    Qualcosa… Qualcosa non andava.

    L’aria.

    Tesoro. Vieni qui.

    C’era qualcosa nell’aria.

    Sentii mia moglie che ciabattava alle mie spalle, che mi chiedeva cosa stesse succedendo, io la zittii e attraversai il salotto.

    La serratura.

    Michele vi conficcava la chiave.

    Il metallo strideva e ringhiava.

    Cercava di aprirla.

    Carlo, disse mia moglie, che cosa sta facendo?

    Ma vuoi stare zitta, cristo?

    Feci un gesto stizzito e mi avvicinai al piccolo, che si ostinava a stuprare la serratura della porta blindata, incapace di scovare nella sua minuscola mente di tre anni la giusta sequenza di azioni necessaria ad aprirla.

    Non gli vedevo la faccia, e questo mi disturbò enormemente.

    Strani ingranaggi si misero a cigolarmi in testa, e strani pensieri a cigolare con essi. Non gli vedevo la faccia…

    Gli misi una mano sulla spalla. Mi chinai.

    Tesoro...

    Fu veloce.

    E doloroso.

    Michele strappò la chiave dalla porta come una spada dai visceri del nemico, e mi colpì al volto. Di rovescio. I denti di metallo mi cozzarono contro le gengive, mi ruppero qualcosa, strusciarono di lato e mi lacerarono la guancia, aprendomi un sorriso sardonico sul lato destro della faccia. Fino all’orecchio.

    Urlai. Mi proiettai all’indietro, le mani strette al volto e già umide di sangue.

    Mia moglie strillò.

    Caddi su un ginocchio.

    Michele si voltò di nuovo verso la porta (e io vidi i suoi occhi, in quell’istante, vidi i suoi occhi e vidi il vuoto cadaverico di cui si erano riempiti, come vesciche replete, vidi e l’orrore mi raggelò lo stomaco), infilò rabbiosamente la chiave nella toppa e spinto da chissà quale impulso la ruotò nella maniera corretta, due volte, come un ossesso. La serratura scattò.

    Sentii il sangue scivolarmi in gola. Deglutii.

    Michele spalancò la porta.

    Michele! urlai.

    Si mise a correre.

    2

    Cercai di sollevarmi, ma l’orecchio destro mi ronzava, e barcollai in una sbronza di sfarfallii oscuri e di vertigini.

    Mia moglie mi afferrò per un braccio. Mi sorresse.

    Michele è scappato, è scappato, è…

    Ho capito! scattai.

    Mi strappai da lei. Odiavo il suo panico cieco e frenetico, mi rintronava il cervello con la stessa stupida ostinazione con cui un moscone rimbalza contro lo specchio.

    La scostai e mi lanciai sul pianerottolo.

    L’aria era fredda, fuori dall’appartamento. Fredda e inquieta.

    Carlo, perdi sangue.

    Michele! chiamai.

    Non ottenni risposta.

    Mi affacciai sulla tromba delle scale, le mani abbrancate al ferro battuto della balaustra. Ebbi il tempo di percepire la vibrazione che i battiti del mio cuore riverberavano fin sul parapetto, ma non lo vidi.

    Era scomparso.

    Il senso di perdita saturò il mio sangue. Una sottile pazzia si impadronì delle mie membra.

    Michele!

    Corsi.

    Michele se non torni subito qui giuro che le prendi fino a gridare in cinese!

    Divoravo le scale. Non mi resi conto nemmeno di essere a piedi nudi. Nemmeno di perdere sangue.

    Fu all’altezza del pianerottolo del primo piano, nel bel mezzo delle mie grida sconclusionate, che il signor Castellani spalancò la porta del suo appartamento e per poco non mi fracassò la faccia.

    Cristo.

    Mi bloccai in un sussulto una frazione di secondo prima che la porta blindata non terminasse l’opera abbozzata da mio figlio.

    Il vecchio fece capolino dal battente e sollevò lo sguardo. Lo vidi strabuzzare gli occhi.

    Santo cielo, che le è successo?

    Gli afferrai il braccio.

    Vidi una goccia di sangue – il mio sangue – piombare sulla pelle nuda del mio bicipite e infrangersi in una raggiera di aghi sottili, e poi disfarsi, e colare verso il gomito come un serpente dalla testa nera e globosa, e con quella visione sopravvenne il dolore, pulsante e caldo oltre ogni dire. L’adrenalina che mi scorreva nelle arterie l’aveva tenuto nascosto, ma in quella breve parentesi affannata che il signor Castellani mi stava offrendo, emerse come una piovra dagli abissi.

    Mio figlio…

    La lingua mi si infilò in un anfratto spigoloso e salmastro. Un molare era frantumato.

    Cosa? mi esortò il vecchio.

    È scappato di casa. Gli diedi uno scossone. Devo andare.

    Mi scostai da lui e imboccai le scale. Scesi i gradini a due per volta, la faccia che sembrava doversi scollare da un momento all’altro come una maschera di lattice.

    Fui al piano terra…

    Non c’era.

    Il cappuccio che la pazzia mi aveva calato sugli occhi si era parzialmente sollevato dopo la breve pausa col Castellani.

    Ricominciai a pensare.

    È uscito di casa. Deve aver sceso le scale, non esiste

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