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Magicae
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Magicae

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About this ebook

Giacinto è una fata che si sente infelice perché non capisce la ragione della sua esistenza,  come le altre della sua specie ogni giorno osserva la vita della sua sorella umana attraverso una magica sfera di cristallo.
Una notte però la luna si commuove nel vedere la sua creatura soffrire e decide di donarle la possibilità di vivere un giorno da umana.
Giacinto grazie all’incantesimo della Luna viene mandata nel nostro mondo e trasformata in una ragazza.
Nella nostra dimensione, per mezzo di un sortilegio, arriva anche Gramigno, un malefico troll dall’animo crudele che brama da sempre di impossessarsi della sfera di cristallo della fata.
Giacinto si trova per magia nella città di Barcellona insieme al troll, il quale cogliendo l’occasione le ruba il cristallo e scappa.
La fata è rimasta sola in un mondo che conosce appena, ma per fortuna incontra Felix un giovane artista che sogna una vita diversa.
Felix la aiuta a ritrovare la sfera magica che le serve per fare ritorno nel suo mondo, per il volere delle magia i due ragazzi si sono incontrati e si innamoreranno.
È una corsa contro il tempo durante la quale Giacinto sperimenta tutta la gamma delle emozioni umane e vive una tenera storia d’amore.
Alla fine la fata comprende il motivo della sua vita e le emozioni trionferanno.
LanguageItaliano
Release dateJun 4, 2018
ISBN9788899333539
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    Magicae - Angelicah

    parziale.

    Alle mie figlie

    Capitolo I

    Questa è la storia di Giacinto, una fata annoiata, che una notte chiese aiuto alla Luna.

    La piccola fata viveva insieme agli altri spiritelli e alle creature magiche in un luogo incantato, il Bosco degli Alti Abeti. Nacque in una notte di Luna crescente, benedetta dal sorriso lunare, comparve all’improvviso sotto un fiore dai petali del colore dell’indaco, così come appare una goccia di rugiada su di una foglia fresca nelle notti tiepide di primavera. La Luna sorridente, quando la vide, la chiamò Giacinto, le diede lo stesso nome del fiore sotto il quale era nata.

    Le fate vengono al mondo ogniqualvolta un bambino fa un sogno felice e muoiono quando l’anima di quel bambino smette di essere innocente, quando il piccolo uomo conosce la malizia e diviene un adulto.

    Così era nata Giacinto, dal bel sogno di un bambino, e a lui era legata dal destino.

    La fata trascorreva le sue giornate a fare quello che fanno tutte le altre sue compagne, si accertava che gli insetti impollinassero i fiori, giocava con le gocce di pioggia che si depositavano al centro delle foglie, svolazzava nel bosco assaporandone il profumo. Le piaceva in modo particolare saltellare da un fiore di ninfea all’altro nel grande stagno, era un gioco divertente, non usava le ali per volare, si dava la spinta con le gambe e ogni tanto il salto non era preciso, era o troppo corto o poco più lungo, cosi cadeva con un tonfo nell’acqua fresca dello stagno.

    Le sue giornate passavano serene, ma tutto questo non le bastava, essendo dotata di autocoscienza, come gli esseri umani desiderava quello che non aveva ma che vedeva.

    Alla sua nascita la Luna le fece un regalo, le donò una sfera di puro cristallo, dalla quale in ogni momento poteva osservare il piccolo umano cui era legata la sua sorte.

    La sua compagna di vita si chiamava Azzurra, i genitori le avevano dato il nome che ricordava il colore del cielo terso, era una bambina paffutella, aveva gli occhi verdi e i capelli biondo cenere, il viso era incorniciato da morbidi boccoli, il naso all’insù e la bocca a cuore rosa, come le piccole gote, ravvivavano di colore la carnagione molto chiara.

    Il primo sogno felice di Azzurra, che vide venire alla luce la fata Giacinto, fu a pochi giorni dalla sua nascita, la neonata sognò di succhiare del latte dalla turgida mammella di sua madre; dopo qualche minuto, quando il falso senso di pienezza svanì, si svegliò emettendo dei sonori vagiti. A pochi secondi da quel lieto ricordo, sotto le campanelle del fiore di giacinto, apparve la fata rannicchiata su se stessa come un pulcino dentro il suo guscio che aspetta di uscire. La testa tra le ginocchia, le braccia a stringere le gambe al petto, le ali da libellula incollate alla schiena e le orecchie a punta nascoste sotto i folti capelli dello stesso colore degli occhi della piccola Azzurra.

    Da quel giorno Giacinto crebbe velocemente così come faceva Azzurra, nutrendosi delle nuove scoperte che l’esistenza le donava.

    La sera, quando la Luna iniziava a salire prepotente nel cielo oscuro, Giacinto si accoccolava nel suo giaciglio confezionato con degli aghi di pino, che si trovava in una rientranza irregolare tra due rocce poggiate a terra vicino allo stagno. Un basso cespuglio di mirtilli neri, che era riuscito a crescere spontaneamente tra le due pietre, le forniva riparo dalla pioggia. A farle compagnia, oltre alla luce della Luna materna, c’era quella delle lucciole che illuminavano come tante stelle la superficie piatta dello stagno.

    La fata prima di addormentarsi osservava con curiosità la piccola umana nella sua quotidianità, scorreva velocemente nella sua sfera di cristallo i momenti della giornata che la bambina aveva vissuto. Per ultimo si addormentava cullata dalla visione serena della bimba che prendeva sonno tra le braccia amorevoli di sua madre.

    L’esistenza delle fate è effimera, pur essendo dotate di poteri magici non possono in alcun modo intervenire sulla volontà dei loro fratelli umani, devono rispettare il loro libero arbitrio e attendere inermi quello che il Fato decide delle loro vite.

    Giacinto, a differenza degli altri spiritelli della sua stesse specie, aveva in più la consapevolezza di se stessa e del mondo che la circondava.

    Una sera, a qualche anno di distanza dalla sua venuta al mondo, una lacrima luccicante come la punta di un diamante le scese lungo la guancia.

    «Perché piangi?» le chiese la Luna.

    «Non sto piangendo! Hai visto male!» rispose la fata.

    «So bene ciò che ho visto, sono alta nel cielo e, anche se sembro lontana, da qui posso vedere ogni cosa, anche quella minuscola lacrima che ti è scivolata sulla guancia.»

    «È vero, una goccia di pianto ha solcato il mio viso.»

    «Allora… Giacinto, mi spieghi perché stai piangendo?»

    La fata rimase per un attimo in silenzio, poi uscì dal suo nascondiglio, fece qualche passo sul soffice muschio e si mise dritta in piedi di fronte alla madre, che stava aspettando una sua risposta.

    Teneva le mani incrociate dietro la schiena e con le dita del piede destro giocherellava con un filo d’erba che era appena spuntato dal terreno, lo sguardo basso e la testa leggermente chinata da una parte le conferivano un’aria distratta. Sapeva cosa voleva chiedere alla Luna, ma non sapeva da dove iniziare. Era come se non riuscisse a trovare le parole giuste da pronunciare.

    La Luna, paziente, aspettò qualche minuto che la fata si decidesse, poi riprese la parola: «Sto aspettando Giacinto, spiegami cosa è successo.»

    «D’accordo» disse la fata, annuendo con convinzione. «Ogni sera guardo nella sfera di cristallo che mi hai donato, faccio visita alla mia sorella umana e osservo la sua vita scorrere nei giorni…» la fata fece un grande sospiro.

    «E…?» chiese la Luna.

    «È un rituale che faccio tutte le sere, come tu mi hai insegnato e come fanno le mie sorelle e i miei fratelli spiritelli, ma non mi basta!»

    «Non ti basta?» la Luna era sorpresa.

    Le mani della fata scivolarono lungo i fianchi e si strinsero in pugni.

    «Sì, madre, non mi basta! Perché posso solo guardare lo scorrere della vita di mia sorella umana e non posso viverne una mia?»

    La Luna non si aspettava una tale domanda, una nuvola bianca le passò davanti concedendole qualche attimo per riflettere su cosa rispondere.

    «Questo è il destino di ogni fata, venite al mondo con i sogni dei bambini e svanite nel momento che questi perdono la loro fanciullezza.»

    Giacinto divenne più seria.

    «E a cosa serve tutto questo? Quale significato può avere questo tipo di esistenza?»

    La Luna divenne più brillante, come se volesse consolare la fata abbracciandola con i suoi raggi di luce.

    «Le cose a volte non devono avere per forza un significato, succedono e basta, tu sei una fata nata dal sogno di una bambina, il tuo compito in questo mondo è proteggere con i tuoi pensieri benigni l’infanzia di Azzurra.»

    «E poi cosa succederà? Cosa rimarrà per me quando Azzurra crescerà e smetterà di credere? Il mondo della magia non esiterà più per lei e io svanirò con esso!»

    Una nuova lacrima scese sul viso di Giacinto.

    La Luna rimase in silenzio, a guardare la sua creatura piangere, vittima della propria esistenza. Allora, commossa, fece quello che non aveva mai fatto.

    «Ascoltami, Giacinto» disse.

    La fata alzò il mento in direzione del cielo.

    «Asciugati le lacrime perché voglio farti un regalo.»

    «Un regalo?» chiese la fata, strofinandosi gli occhi con le mani.

    «Sì!» disse la Luna. «Ti donerò un giorno da umana.»

    Giacinto sorrise e il silenzio della radura si riempì del suono felice ed argentino delle sue ali da libellula, che iniziarono a sbattere ritmicamente.

    A un lato della radura nascosta nel buio, un troll stava ascoltando con attenzione quello che la Luna e Giacinto si stavano dicendo.

    La creatura malefica rimase acquattata per tutta la durata della conversazione dietro un folto cespuglio di felci per non farsi vedere, aspettò con pazienza che Giacinto rientrasse nel suo rifugio e si addormentasse. Prima di uscire allo scoperto diede un’occhiata al cielo: la Luna era coperta in parte da una nuvola e altre nubi scure si stavano avvicinando velocemente spinte dal vento. Attese qualche secondo, voleva assicurarsi di non essere visto, poi silenzioso come una faina che si avvicina al pollaio, attraversò velocemente la radura fino ad arrivare al rifugio della fata.

    Gramigno desiderava una cosa soltanto, quella stessa cosa che era stata la causa del nefasto divenire di tutti quelli appartenenti alla sua specie. Desiderava la sfera di puro cristallo della fata.

    Giacinto si era appena appisolata sul suo letto di aghi di pino, aveva un sorriso carico di speranza sul viso e teneva stretta a sé la sfera. Il troll si avvicinò il più possibile, era da tempo che la teneva d’occhio, quando gli era possibile le faceva visita nelle ore più tarde e tacite della notte, quando il bosco e tutte le sue creature divengono quiete. Rimase immobile a osservare il cristallo tra le braccia delle fata, ipnotizzato dalla sua lucentezza.

    «Dormi fata… dormi buona,» disse con un filo di voce, «Gramigno è qui cara… che veglia su di te e sulla tua luce!»

    Gli occhi maligni del troll divennero scintillanti, fissi sulla sfera.

    «Tienila stretta mia bella fata… io poi l'avrò!»

    A queste ultime parole l’espressione inebetita sul viso del troll divenne un ghigno, mosse lentamente un braccio irsuto verso la fata, le quattro dita tozze e corte si avvicinarono piano alla sfera, avrebbe voluto toccarla, strappargliela dalle braccia, ma non osò muovere un altro muscolo, perché a breve la Luna sarebbe stata di nuovo visibile nel cielo plumbeo.

    Scrollò il capo, tirò il braccio al petto con uno scatto, afferrandolo con l’altra mano, come per tenerlo stretto costringendolo a non muoversi, poi guardò in alto ancora una volta, le nuvole erano solo di passaggio, stavano volando nella direzione opposta da dove erano venute. Diede un’ultima occhiataccia a Giacinto, si girò e ripercorrendo i suoi passi tornò nell’oscurità dalla quale era venuto. I troll non rimangono mai allo scoperto, vivono nel buio e si nascondono dalla luce perché la temono, così, anche se allungava di qualche ora il cammino, preferì passare nel sottobosco per evitare che la Luna lo vedesse.

    Nel tragitto per ritornare alla sua tana non pensò ad altro che alla promessa che la Luna aveva fatto alla fata. Giunto a poche centinaia di passi dai confini del Bosco degli Alti Abeti, si fermò e si sedette a pensare sui resti di quello che rimaneva di un albero, caduto a terra dopo essere stato colpito da un fulmine durante un temporale.

    «Umana… dice Lei… umana» disse a se stesso mugolando. «La Luna è buona con la fata, è gentile… aiutare vuole lei a stare bene, non come con Gramigno… cattiva è stata con me!»

    Non essendo dotato di una grande intelligenza, come tutti quelli della sua specie, ci mise qualche minuto a riordinare le idee.

    Rimase in silenzio a riflettere, dopo un po’ il volto gli si illuminò di un’espressione furba, si diede una sonora grattata alla testa, raschiandosi via la pelle con le unghie luride e disse: «Io prendo la luce quando la fata va via! Sì, così farò!»

    Convinto del piano che stava mettendo a punto si alzò in piedi e iniziò a fare pochi passi avanti e indietro, lungo il tronco dell’albero. Un braccio piegato a L dietro la schiena e una mano a solleticarsi la barba da caprone lo aiutavano a pensare più in fretta.

    Intanto un allocco dall’alto del suo nido, dentro un albero cavo, lo guardava curioso con i suoi occhi a palla.

    «Io aspetto… sì, tutte le sere spio la fata… e poi nel momento buono prendo la luce… Sì! Così fa Gramigno!»

    Soddisfatto dell’idea che aveva concepito, si sentì subito felice, allargò le braccia e fece una giravolta fino a cadere con un tonfo di schiena sul fitto strato di foglie morte, lo sguardo gli andò distrattamente verso l’alto, da un piccolo spiraglio che si era formato tra le chiome degli alberi scorse il cielo, le stelle stavano divenendo sempre più

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