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Il cucchiaio d'argento: La saga dei Forsyte vol. V
Il cucchiaio d'argento: La saga dei Forsyte vol. V
Il cucchiaio d'argento: La saga dei Forsyte vol. V
Ebook466 pages5 hours

Il cucchiaio d'argento: La saga dei Forsyte vol. V

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About this ebook

Londra, 1926. Sono passati due anni dagli eventi narrati ne "La scimmia bianca", Fleur Forsyte ora ha un figlio e suo marito Michael Mont è diventato deputato. Mentre Michael cerca di distinguersi in Parlamento portando avanti una nuova politica sociale, Fleur apre il salotto della loro casa alla società che conta.
Come sempre suo padre Soames è dalla sua parte, anche se la vita londinese allegra e apparentemente senza preoccupazioni non manca di sconcertare il vecchio Forsyte.
Proprio quando Soames interviene in una discussione per difendere la reputazione di sua figlia, si ritrova a dare il via a uno scandalo che finirà in tribunale.
Contiene l'interludio "Un idillio silenzioso".
LanguageItaliano
Release dateJun 12, 2018
ISBN9788899403522
Il cucchiaio d'argento: La saga dei Forsyte vol. V
Author

John Galsworthy

John Galsworthy was a Nobel-Prize (1932) winning English dramatist, novelist, and poet born to an upper-middle class family in Surrey, England. He attended Harrow and trained as a barrister at New College, Oxford. Although called to the bar in 1890, rather than practise law, Galsworthy travelled extensively and began to write. It was as a playwright Galsworthy had his first success. His plays—like his most famous work, the series of novels comprising The Forsyte Saga—dealt primarily with class and the social issues of the day, and he was especially harsh on the class from which he himself came.

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    Book preview

    Il cucchiaio d'argento - John Galsworthy

    30

    Dello stesso autore nella collana Aurora:

    Il possidente. La saga dei Forsyte vol. I

    In tribunale. La saga dei Forsyte vol. II

    In affitto. La saga dei Forsyte vol. III

    La scimmia bianca. La saga dei Forsyte vol. IV

    I racconti di Casa Forsyte

    John Galsworthy, Il cucchiaio d'argento (La saga dei Forsyte, vol. V)

    1a edizione Landscape Books, giugno 2018

    Collana Aurora n° 30

    © Landscape Books 2018

    Titolo originale: The Silver Spoon. A Modern Comedy II

    Traduzione di Guido Del Duca (per Un idillio silenzioso) e Maria Martone Napolitano (per Il cucchiaio d'argento, riveduta e corretta dall'edizione Corbaccio 1932)

    www.landscape-books.com

    ISBN 978-88-99403-52-2

    In copertina: Sunday di Frederick Walker

    Progetto grafico: service editoriale il Quadrotto

    Realizzazione editoriale a cura di WAY TO ePUB

    www.waytoepub.com

    John Galsworthy

    La saga dei Forsyte v

    Il cucchiaio d'argento

    INTERLUDIO

    UN IDILLIO SILENZIOSO

    Il primo di febbraio del 1924 Jon Forsyte, convalescente dall’influenza, era seduto nella sala di un albergo a Camden, Carolina del Sud, con i capelli chiari leggermente sollevati sul cranio. Stava leggendo di un linciaggio.

    Dietro a lui una voce disse:

    «Venite con noi al picnic su quelle antiche barricate, oggi?» Sollevando lo sguardo vide un suo giovane conoscente, Francis Wilmot, che veniva dal Sud.

    «Con grande piacere. Chi verrà con noi?»

    «Oh, soltanto il signore e la signora Pulmore Hurrison, quel romanziere inglese, Gurdon Minho, le giovani Blair con i loro amici, mia sorella Anne e io. Potete venire a cavallo, se volete fare un po’ d’esercizio».

    «Benissimo, sono giusto arrivati dei cavalli nuovi stamattina da Columbia».

    «Perfetto! Anche mia sorella e io verremo a cavallo, e anche una delle Blair. Gli Hurrison potranno portare gli altri».

    «Pensavo», fece Jon «che questo caso di linciaggio è davvero tremendo».

    Il giovane cui rivolgeva la parola se ne stava appoggiato alla finestra. Jon ne ammirò il viso, come fatto di avorio, con gli occhi e i capelli scuri, il naso e le labbra sottili e la posa flessuosa.

    «Voialtri inglesi perdete tutti la testa quando leggete di un linciaggio. A Southern Pines non avete il problema dei neri. Non ce ne sono nella Carolina del Nord».

    «No, e io non pretendo di capirlo... Ma non vedo perché i neri non possano venir processati alla stessa stregua dei bianchi. Ammetto che ci sono dei casi in cui è giusto sparare a vista, ma non ammetto che si possa difendere la giustizia della folla... Una volta catturato, il colpevole va processato secondo la legge».

    «Non ci si prende il disturbo di processare noialtri».

    «Ma senza processo, come si può affermare che un uomo è colpevole?»

    «Bè, facciamo più volentieri a meno di un nero innocente di quando in quando che lasciare in pericolo le nostre donne».

    «Ma ammazzare un uomo per qualcosa che non ha commesso è abnorme».

    «In Europa, forse. Ma non qui. Le cose sono ancora in via di sistemazione qui».

    «Come la pensano sul linciaggio, nel nord?»

    «Ne strillano un po’ ma non hanno scelta... Se noi abbiamo i neri, loro hanno i pellirosse, e non li trattano certo con riguardo».

    Jon Forsyte diede una spinta indietro alla sua sedia a dondolo, e fece una faccia stupita.

    «Suppongo che ci sia ancora troppo posto in questo paese» disse Francis Wilmot. «E un uomo ha tutte le possibilità di sfuggire alla legge. Così dove ci sentiamo forti ci prendiamo la libertà di esercitare la legge».

    «Bene, paese che vai usanze che trovi... Che cosa sono queste barricate dove si va oggi?»

    «Vecchi ruderi indiani che si dice risalgano a migliaia di anni fa. Avete già conosciuto mia sorella? È arrivata ieri sera».

    «No. A che ora si parte?»

    «A mezzogiorno. A cavallo, è circa un’ora di strada per i boschi».

    E così a mezzogiorno, in tenuta da cavallerizzo, Jon uscì dall’albergo e si diresse là dove aspettavano cinque cavalli, visto che più d’una delle giovani Blair aveva scelto di andare a cavallo. La comitiva partì, con Francis Wilmot e sua sorella alla testa.

    Le Blair erano giovani, graziose, di una bellezza americana dai lineamenti piuttosto semplici, i colori tenui e la carnagione sana; un tipo cui Jon si era via via abituato durante i due anni e mezzo già trascorsi negli Stati Uniti. Da principio erano straordinariamente taciturne, poi divennero straordinariamente loquaci. Cavalcavano come maschi, e molto, molto bene. Jon apprese che, al pari degli Hurrison, i quali avevano offerto il picnic, esse abitavano a Long Island. Gli fecero infinite domande sull’Inghilterra, e lui, che l’aveva lasciata all’età di diciannove anni, dovette inventare le infinite risposte. Cominciò a guardare con nostalgia, tra le orecchie del cavallo, Francis Wilmot e la sorella che caracollavano in testa immersi in un silenzio che, visto da lontano, sembrava essere piuttosto riposante.

    Il cammino procedeva per boschi molto radi di abeti affusolati su un suolo piuttosto sabbioso. La luce del sole era limpida e calda, l’aria ancora fresca. Jon cavalcava un magnifico baio, e si sentiva come ci si può sentire il primo giorno dopo una malattia.

    Le Blair desideravano sapere che cosa egli pensasse del romanziere inglese; morivano dalla voglia di vedere un vero intellettuale. Jon, che aveva letto uno solo dei suoi libri, tra i suoi personaggi riusciva a ricordare solo un gatto. Le Blair non avevano letto nulla, ma avevano sentito dire che i gatti di Gurdon Minho erano semplicemente fantastici.

    Francis Wilmot, fermando il cavallo, additò una grande collinetta che appariva chiaramente non essere opera della natura. Tutti fermarono i loro cavalli e, rimasti a guardare in silenzio per un paio di minuti, giudicarono la cosa molto interessante quindi ripresero la cavalcata. In una piccola valle i passeggeri delle due vetture scaricarono le vettovaglie. Jon condusse a legare i cavalli, il suo e quelli delle Blair, accanto a quelli di Wilmot.

    «Mia sorella» disse Francis Wilmot.

    «Mister Forsyte», disse la sorella.

    Lei guardò Jon, e Jon guardò lei. Era esile ma niente affatto fragile, vestita con una lunga giacca, pantaloni e stivaloni tutto in marrone scuro, con scuri capelli corti sotto un morbido feltro marrone. Aveva il volto pallido, piuttosto abbronzato, con un’espressione di curiosità contenuta – la fronte spaziosa e liscia, il naso dritto e un po’ corto, labbra belle e grandi, senza trucco. Ma furono soprattutto i suoi occhi a colpire Jon; erano proprio gli occhi che nel suo pensiero egli attribuiva alle ninfe d’acqua. Leggermente obliqui, scuri, fermi di sguardo e adescatori, davano un sospetto di strabismo che aumentava il loro fascino. Jon si sentiva intimidito. E stettero zitti entrambi.

    «Ho idea di avere una gran fame» osservò Francis Wilmot.

    E tutti e tre si avviarono verso il picnic.

    Improvvisamente Jon chiese alla ragazza:

    «Siete appena arrivata, dunque, miss Wilmot?»

    «Sì, sono appena arrivata, mister Forsyte».

    «Da dove?»

    «Da Naseby... È giù a metà tra Charleston e Savannah, sapete».

    «Oh, Charleston! Mi piace Charleston».

    «Ad Anne piace più Savannah» disse Francis Wilmot.

    Anne fece di sì col capo. Non era loquace, da quel che sembrava, anche se la sua voce era piacevole, per quel poco che si era sentita.

    «È un posto solitario quello dove viviamo noi» disse Francis. «E sono quasi tutti neri... Anne non ha mai parlato con un inglese».

    Anne sorrise. E sorrise anche Jon.

    La conversazione si chiuse lì. Arrivarono alle provviste, disposte in modo da esigere il massimo esercizio muscolare e digestivo.

    La signora Pulmore Hurrison, una donna sulla quarantina, e dai lineamenti marcati, era seduta con le gambe distese e le punte dei piedi all’insù. Vicino a lei, Gurdon Minho, il romanziere inglese, sedeva in posizione più appartata. Seguiva una certa quantità di ragazze dalle gambe scoperte. Un po’ in disparte mister Pulmore Hurrison stringeva i denti della sua piccola bocca sul turacciolo di una grossa bottiglia.

    Il picnic era cominciato. E anche Jon e i Wilmot sedettero.

    Jon si rese ben presto conto che erano tutti in attesa di sentire Gurdon Minho dire qualcosa di più che «Sì» «Davvero!» «Ah» e «Proprio!». Ma ciò non avvenne. Il celebre romanziere fu all’inizio quasi penosamente attento a quello che ognuno degli altri diceva, poi parve cadere in coma. E Jon sentì una patriottica delusione. Lui stesso non era, infatti, meno taciturno. E notò che fra le Blair (tre in tutto) e le loro due amiche si stava tramando una specie di complotto per qualche tiro da giocare al silenzioso inglese in futuro. Ma si sentiva confortato dalla muta sorella di Francis Wilmot. Sentiva che mai essa si sarebbe unita, e non ne avrebbe avuto il diritto, a quel complotto.

    Cercò a ogni modo riparo nell’affannarsi a porgere vivande, e respirò di sollievo quando quel pasto a stomaco compresso fu finito.

    I picnic erano come il giorno di Natale: meglio immaginarli nell’avvenire o ricordarli nel passato, che goderli nel presente.

    Dopo il breve consueto periodo di separazione tra i sessi che segue a ogni pasto, le ceste vennero riordinate e tutti si avviarono ai loro mezzi di locomozione.

    Le due vetture partirono verso un’altra collinetta distante circa due miglia. Francis Wilmot e le due Blair che erano venute a cavallo decisero di tornare indietro per vedere una partita di polo. Jon chiese ad Anne che cosa desiderasse fare. Vedere l’altra collinetta, scelse Anne.

    Così montarono a cavallo e presero per i boschi, lungo un sentiero appena tracciato. Andarono in silenzio, finché Jon non chiese:

    «Vi piacciono i picnic?»

    «No, davvero».

    «Neanche a me. Ma cavalcare, vi piace?»

    «Più di ogni cosa al mondo».

    «Più di ballare?»

    «Certo. Cavalcare e nuotare...»

    «Ah! Lo immaginavo!» fece Jon. E rimase zitto.

    «Che cosa immaginavate?»

    «Oh, ecco, pensavo che dovevate essere una grande nuotatrice!»

    «Perché?»

    E Jon rispose con imbarazzo:

    «Per via dei vostri occhi...»

    «Oh bella! Ho forse gli occhi di pesce?»

    Jon rise.

    «Non esattamente. Sono come quelli di una ninfa delle acque...»

    «Non so se sia un complimento».

    «Certo che sì».

    «Credevo che le ninfe non fossero proprio rispettabili».

    «Oh! Quelle delle acque sì... Molto rispettabili! E timide anche, naturalmente».

    «Ce ne sono molte in Inghilterra?»

    «No. A dire il vero io non ne ho mai vista una».

    «Allora, come lo sapete?»

    «Così, è una sensazione…»

    «Suppongo che abbiate ricevuto un’istruzione classica. È così per tutti, in Inghilterra, vero?»

    «Tutt’altro».

    «E ditemi... Vi piace l’America, mister Forsyte?»

    «Moltissimo. Però alle volte mi prende la nostalgia del mio paese».

    «Mi piacerebbe viaggiare».

    «Non avete mai viaggiato?»

    La ragazza scosse la testa.

    «Non faccio che stare in casa, e badare alle nostre cose... Ma finirà che dovremo vendere la nostra vecchia casa... Il cotone non rende più».

    «Io coltivo pesche nei dintorni di Southern Pines, sapete, su nella Carolina del Nord. È una coltivazione che rende, per il momento».

    «Vivete da solo?»

    «No... Ho con me la mamma».

    «Inglese?»

    «Sì, inglese...»

    «E vostro padre?»

    «È morto, quattro anni fa...»

    «Francis e io siamo orfani da dieci anni».

    «Vorrei che veniste qualche giorno da noi, voi e vostro fratello... La mamma ne sarebbe felice».

    «Vi somiglia, vostra madre?»

    Jon rise.

    «No. È bella, lei».

    Gli occhi della ragazza lo guardarono gravi, le labbra si schiusero in un lieve sorriso.

    «Mi piacerebbe venire, ma non possiamo assentarci di casa tutti e due insieme, io e mio fratello».

    «Eppure» disse Jon, «siete tutti e due qui, ora».

    «Torniamo domani. Io avevo una gran voglia di vedere Camden».

    Gli occhi della ragazza ripresero a esaminar fermamente la faccia di Jon. «Perché non venite voi piuttosto» continuò, «a passare qualche giorno da noi? Vedreste com’è antica la nostra casa. Francis sarebbe felice se veniste...»

    «Siete sempre sicura di quello che può rendere felice vostro fratello?»

    «Certo».

    «Sarebbe bellissimo... Ma davvero mi ospitereste volentieri?»

    «Davvero! Perché no?»

    «Mi piacerebbe tremendamente... Odio gli alberghi. Voglio dire... Ecco, sapete...»

    Ma come lui stesso non sapeva, così non era sicuro che lo sapesse lei.

    E lei spronò il cavallo, l’animale si lanciò al trotto.

    Per le navate della secolare foresta di pini il sole batteva loro negli occhi. Un caldo profumo si alzava dagli aghi delle conifere, dalla resina e dalle erbe; il terreno era sabbioso e morbido; i cavalli di buon umore. Jon si sentiva felice. Quella ragazza aveva strani occhi incantatori, e cavalcava meglio delle Blair.

    «Credo che tutti gli inglesi cavalchino bene, non è vero?», fece la ragazza.

    «La maggior parte sì, quando cavalcano... Ma non si cavalca più tanto, oggigiorno».

    «Mi piacerebbe vedere l’Inghilterra. La nostra famiglia è venuta dall’Inghilterra nel 1700... Dal Worcestershire. Dove si trova?»

    «È come fosse il nostro Middle West», rispose Jon. «Ma così diverso dal vostro come non potreste immaginare... È una terra tutta di frutteti, bellissima; con le case di legno, e pascoli, campi, boschi, colline verdi. Vi sono stato una volta in gita con un compagno di scuola».

    «Deve essere deliziosa... I nostri antenati erano cattolici. Possedevano un posto detto Naseby, e per questo chiamiamo Naseby la nostra tenuta di qui... Ma la nonna era una creola della Louisiana. È vero che in Inghilterra credono che i creoli abbiano sangue nero?»

    «Siamo molto ignoranti in Inghilterra», disse Jon. «Io so che i creoli sono i discendenti delle antiche famiglie francesi e spagnole. Sembra che abbiate del sangue francese, voi due».

    «Sì. Francis soprattutto. Ma non avremo superato la collinetta? Credevo che si dovessero fare due miglia e ne abbiamo fatte almeno quattro».

    «Vi rincresce? La prima collinetta era piuttosto sopravvalutata».

    Le labbra della ragazza si schiusero in un sorriso; pareva che non ridesse mai del tutto.

    «Ci sono indiani, da queste parti?» chiese Jon.

    «Non so con certezza... Forse dei Seminoles... Ma Francis dice che le collinette risalgono a tribù più antiche delle presenti. Per quale ragione siete venuto in America, mister Forsyte?»

    Jon si morse le labbra. Svelare le ragioni? La faida di famiglia... l’amore troncato... No, non era proprio possibile.

    «Prima sono andato nella Columbia britannica», rispose. «Ma non mi ci son trovato molto bene. E allora ho sentito parlare delle pesche nella Carolina del Nord».

    «Ma per quale ragione avete lasciato l’Inghilterra?»

    «Immagino il semplice desiderio di vedere il mondo».

    «Già», fece lei. Fu un suono pacato, ma pieno di comprensione; Jon ne fu tanto più grato in quanto la ragazza non aveva certo capito. Egli adesso non era più troppo ossessionato dall’immagine del suo primo amore. Da circa un anno, ormai. Aveva molto da fare con le sue pesche. Inoltre Holly gli aveva scritto che Fleur aveva avuto un bambino. E d’improvviso disse:

    «Credo che si debba tornare indietro. Guardate il sole!»

    Il sole infatti era basso, dietro gli alberi.

    «Oh, sì... È vero!»

    Jon fece fare marcia indietro al suo destriero.

    «Mettiamoci al galoppo... Tra mezz’ora sarà tramontato, e la luna sorgerà più tardi».

    A galoppo tornarono sui loro passi, per il sentiero. Il sole calava ancora più rapidamente di quanto lui non avesse creduto, l’aria diventava fredda, grigia la luce. Di colpo Jon arrestò il cavallo.

    «Sono costernato, temo che questa non sia la strada da cui siamo venuti. Ho paura che siamo andati più a destra. Questi sentieri sono tutti uguali, e i cavalli sono arrivati solo ieri da Columbia e non conoscono il posto più di noi».

    La ragazza rise.

    «Ci perderemo!».

    «Mmm... Non sarebbe uno scherzo perdersi in questi boschi. Non finiscono mai!»

    «No, non finiscono mai da queste parti... Sarà un’avventura».

    «Sì, ma prenderete freddo... Fa un freddo terribile la notte».

    «E voi avete avuto l’influenza!»

    «Oh, non vi preoccupate! Qui c’è un sentiero sulla sinistra. Dobbiamo prenderlo, o dobbiamo invece proseguire sul nostro?»

    «Prendiamolo».

    Si misero al trotto per il nuovo sentiero. Ormai era troppo buio per galoppare, e presto sarebbe stato anche troppo buio per trottare. Il sentiero si snodava a lungo.

    «Che bell’affare» disse Jon. «Mi dispiace molto».

    E sbirciò lei che gli cavalcava al fianco; riuscì a vederla sorridere.

    «Ah! È divertente!»

    Era contento ch’ella pensasse cosi, ma lui non era dello stesso avviso.

    «Sono stato un asino. Chissà vostro fratello come sarà in collera con me».

    «Sa bene che sono con voi, mio fratello».

    «Se almeno avessimo una bussola! Così corriamo il rischio di restar fuori tutta la notte. Ecco qui un altro bivio... Santo Dio, come si fa buio!»

    E quasi mentre parlava l’ultima luce svanì. A stento vedeva la compagna a cinque metri di distanza.

    Le andò più vicino, ed essa gli toccò la manica.

    «Non vi preoccupate», gli disse «che si guasti».

    Riunendo le briglie in un solo pugno lui le strinse la mano.

    «Siete splendida, miss Wilmot».

    «Oh, chiamatemi Anne. I cognomi hanno un suono agghiacciante quando ci si è smarriti».

    «Grazie. Io mi chiamo Jon. Senza acca, sapete... È il diminutivo di Jolyon».

    «Jolyon... Jon... Mi piace».

    «Anne è sempre stato il mio nome preferito. Dobbiamo fermarci ad aspettare che sorga la luna, o continuiamo?»

    «Quando credete che sorgerà la luna?»

    «Non ci vorrà molto, a giudicare dalla sera scorsa».

    «Continuiamo allora, e affidiamoci ai cavalli».

    «Benissimo! Ho solo paura che se puntano da qualche parte sarà verso Columbia, che dev’essere a miglia e miglia da qui».

    Continuarono per lo stretto sentiero al passo. Era buio assoluto ora.

    E Jon chiese: «Avete freddo? Lo sentireste meno se andassimo a piedi. Andrò io avanti. Statemi vicina per non perdermi di vista».

    Andò avanti, e di lì a poco smontò di sella, perché aveva freddo anche lui. C’era un grande silenzio tra gli alberi senza fine.

    «Ora ho proprio freddo», fece la voce di Anne. «Scendo anch’io».

    Si erano trascinati avanti così per una mezz’ora, conducendo i cavalli per il morso, e come sentendo a fiuto il cammino, quando Jon disse:

    «Guardate! Sembra che ci sia una radura qui. E che cosa quella cosa scura a sinistra?»

    «È una collinetta».

    «Già... Ma quale? Quella che abbiamo visto oggi, o l’altra? O nessuna delle due?»

    «Credo che faremmo meglio a fermarci qui finché non sorge la luna. Forse allora potremo vedere quale sia, e troveremo la strada».

    «Avete ragione. Ci saranno delle paludi, suppongo. Legherò i cavalli sottovento, e cercherò un riparo. Fa freddo».

    Egli legò i cavalli e voltandosi si trovò la ragazza vicina.

    «Fa paura qui», disse lei.

    «Troveremo bene un posto comodo per sederci», fece Jon.

    Le infilò la mano sotto il braccio, e la condusse ai piedi della collinetta.

    «Qui», disse a un tratto. «Hanno fatto degli scavi qui. Sarà riparato...»

    Tastò il suolo. Abbastanza asciutto. «Sediamoci qui e chiacchieriamo».

    L’uno a fianco all’altra, con la schiena contro la parete dello scavo, accesero le sigarette, e restarono in ascolto del silenzio. Salvo qualche sbuffo o qualche lieve zampata dei cavalli, non si sentiva alcun rumore. Gli alberi erano troppo radi e il vento troppo lieve per far melodia, e sembrava non ci fossero che loro due e i loro due cavalli a vivere sulla terra. Qualche spruzzo di stelle in un cielo troppo scuro, e la più intensa oscurità dei tronchi dei pini era tutto quello che si poteva vedere. Ah! e le estremità luminose delle loro sigarette, che di quando in quando illuminavano l’uno o l’altro viso.

    «Ho paura che non me la perdonerete mai», disse Jon, in tono cupo.

    «Perché? Mi piace invece!»

    «Siete gentile a dir questo, ma dovete avere terribilmente freddo. Sentite... Mettetevi la mia giacca».

    E Jon aveva cominciato a togliersi la giacca, quando lei gli disse:

    «Se fate una cosa simile scappo nel bosco e mi smarrirò sul serio».

    Jon lasciò perdere.

    «Poteva capitarmi con una delle Blair!»

    «Lo avreste preferito?»

    «Per il vostro bene, sì che lo avrei preferito. Non certo per me... No davvero!»

    Si guardavano e le punte delle loro sigarette erano quasi in contatto. Egli riusciva appena a vederle gli occhi, ed ebbe un impulso piuttosto chiaro di passarle il braccio intorno alle spalle. Sembrava la cosa più naturale da farsi, ma naturalmente non si poteva fare!

    «Prendete un po’ di cioccolato», disse la ragazza.

    Jon accettò di mangiarne un pezzettino. Doveva restare riservato a lei, quel cioccolato.

    «È una vera avventura! Che buio! Avrei paura da sola... Sembra un posto da spiriti!»

    «Spiriti di antichi indiani!» mormorò Jon. «Soltanto che io non credo negli spiriti...»

    «Ci credereste se aveste avuta una bambinaia nera».

    «Voi l’avete avuta?»

    «Certo... E con una voce dolce come un melone. Abbiamo ancora un vecchio nero che fu schiavo nella sua infanzia. È il più bravo di tutta la zona... Ha quasi ottanta anni con i capelli tutti bianchi».

    «Non è possibile che vostro padre abbia partecipato alla guerra civile, vero?»

    «I nonni vi hanno partecipato... E il padre del nonno».

    «E voi quanti anni avete, Anne?»

    «Diciannove».

    «Io ne ho ventitré».

    «Raccontatemi della vostra casa in Inghilterra».

    «Non ho più casa in Inghilterra».

    Cominciò a raccontarle un’edizione riveduta e corretta della sua giovinezza, e gli pareva che Anne lo ascoltasse con incantevole attenzione. Chiese in compenso la storia di lei, e sentendola parlare si domandava se la sua voce gli piacesse. Era una voce morbida che indugiava e si raccoglieva; e aveva un forte sapore. Come poi essa ebbe finito il suo semplice racconto di ragazza che non si era mai mossa di casa, restarono in silenzio sino a che lui non esclamò:

    «Vado un po’ a vedere se i cavalli stanno bene. Intanto potreste fare un sonnellino».

    Andò ai piedi della collinetta e raggiunse i cavalli, e si fermò a parlar loro e a carezzarne il muso. Un caldo sentimento protettivo si agitava in lui. Quella era una brava e bella ragazza! Un viso da non dimenticarsi, che nascondeva tutto un mondo dietro di sé...

    Improvvisamente sentì la sua voce, bassa come se fingesse di non chiamarlo: «Jon, oh Jon!»

    Si fece strada a ritroso nell’oscurità. Incontrò le sue mani tese.

    «È così pauroso! Questo strano fruscio! Dio, mi dà i brividi nella schiena!»

    «Si è levato un po’ di vento... Sediamoci schiena contro schiena, vi riscalderete... Oppure, ecco, io mi siederò contro la parete, e voi vi appoggerete su di me... Così potrete anche addormentarvi. Non mancano più che due ore adesso... Appena ci sarà la luna riprenderemo a cavalcare».

    Si posizionarono come Jon aveva suggerito, lei con la schiena addossata a lui e la testa nel cavo tra il braccio e la spalla

    «Comoda?»

    «Certo. Non ho più i brividi»

    Fumarono e chiacchierarono ancora per un po’. Le stelle erano più luminose adesso, e i loro occhi più abituati all’oscurità. E si sentivano grati a vicenda del calore che si scambiavano.

    Jon godeva il profumo, come di paglia, che spirava dai capelli di lei non lontano dal suo naso. Poi cominciò un lungo silenzio, e il caldo sentimento di protezione per quella cara creatura crebbe e crebbe in lui. Avrebbe voluto passarle le braccia intorno al corpo e tenerla più stretta. Ma naturalmente non lo fece. Tutto quello che poteva fare era di rimanere un centro di calore abbastanza impersonale perché lei ci si affidasse con fiducia. Ed era la prima volta da quando aveva lasciato l’Inghilterra che sentiva un impulso di passare le braccia intorno al corpo di qualcuno, tanto malamente era rimasto scottato da quella vecchia storia.

    Il vento cresceva, borbottava tra gli alberi, si spegneva... E ogni volta il silenzio ne usciva più alto. Perfettamente sveglio egli trovava curioso che la ragazza potesse dormire, poiché certo si era addormentata... Era così immobile. In alto brillavano le stelle. Egli si mise a guardarle e a poco a poco si sentì le membra che cominciavano a dolergli e a irrigidirglisi, e all’improvviso capì che lei non era meno sveglia di lui. Lentamente la fanciulla volse il capo finché lui poté vederne gli occhi, profondi e attraenti.

    «Sono troppo pesante» disse la ragazza, e fece per tirarsi su, ma il braccio di lui la trattenne.

    «Ah no! Se state calda e comoda».

    Il capo di lei si riadagiò, e ricominciò l’attesa.

    Ora però parlavano un poco, di cose futili, ed egli pensò: È curioso come si possa vivere per mesi e mesi con la gente senza conoscerla la metà di quanto ci si conosce noi ora.

    Di nuovo tornò a stabilirsi il silenzio fra loro, ma stavolta egli la teneva circondata col braccio; era più comodo per tutti e due, così... E Jon ebbe l’impressione che sarebbe stato inopportuno da parte della luna sorgere. Aveva quell’impressione anche lei? L’avesse o no, certo la luna non ne tenne conto. E all’improvviso fu conscio che la luna era spuntata, si sentiva la sua presenza dietro agli alberi, e una specie di silenzioso scintillio strisciava nell’aria, sul suolo, attraverso i tronchi neri.

    «La luna!» disse Jon.

    Ma la ragazza non si mosse, e il cuore di Jon si mise a battere forte. Dunque, anche lei non desiderava che la luna sorgesse!

    Lo strisciante scintillio divenne lentamente luce, arrivò sino a loro, li rese visibili. Eppure rimasero ancora immobili, come se temessero di rompere un incantesimo. La luna acquistò forza e un freddo splendore, poi si levò di sopra agli alberi. Il mondo ritornò vivo.

    E se la baciassi? pensò Jon, subito scrollando via quel pensiero. Se lo avesse desiderato anche lei! Quasi indovinando il suo pensiero, essa si voltò a guardarlo negli occhi.

    «Siete sotto la mia protezione», disse senza fiato.

    La risposta della ragazza fu un piccolo sospiro e si alzò. Anche lui si alzò, ed entrambi stettero in piedi a osservare il misterioso bosco bianco.

    «Vedete», disse Jon «È proprio la collinetta. Ecco lì il sentiero che porta al fossato dove si è fatto il picnic. Ora ci sarà facile trovare la strada».

    Lei fece un suono ch’egli non fu in grado di interpretare, poi andarono insieme ai cavalli, li slegarono, montarono in sella. Cavalcarono fianco a fianco.

    «Avremo qualcosa da ricordare» disse Jon.

    «Sì, non lo dimenticherò mai».

    Non parlarono più, se non per consultarsi sul cammino da seguire, ma questo divenne in breve ovvio e tirarono avanti al trotto fino al campo di polo vicino all’albergo.

    «Voi entrate a rassicurare vostro fratello. Io lascio i cavalli in scuderia e vi raggiungo».

    Quando poi Jon entrò nella sala dell’albergo trovò che Francis Wilmot, ancora in tenuta da cavaliere, era solo. Aveva una faccia curiosa, non propriamente ostile, ma certo non amichevole.

    «Anne è andata in camera» disse. «Mi sembra che non abbiate uno spiccato senso dell’orientamento. Mi sono preso uno spavento».

    «Mi dispiace moltissimo» rispose Jon con umiltà. «Avevo dimenticato che i cavalli erano nuovi del luogo».

    «Bene!», fece Francis Wilmot e si strinse nelle spalle. Jon lo guardò dritto negli occhi.

    «Non penserete che l’abbia fatto apposta! perché avete l’aria di pensarlo...»

    Francis Wilmot si strinse nelle spalle un’altra volta.

    «Scusate» disse Jon «ma voi sembrate dimenticare che vostra sorella è una gentildonna, e che non ci si comporta da mascalzoni con una gentildonna».

    Francis Wilmot non rispose. Andò a una finestra e si mise a guardar fuori. Jon si sentì in collera. Sedette sul bracciolo di una poltrona; era molto stanco. E restò a fissare il pavimento con le ciglia aggrottate. Dannato tipo! Aveva fatto una scenata ad Anne? Se l’aveva fatto... dietro di lui una voce fece:

    «Non volevo dir nulla di simile... Mi dispiace... È solo che mi sono spaventato. Stringiamoci la mano».

    Jon tese d’impulso la sua, e Francis gliela strinse guardandolo dritto negli occhi.

    «Dovete essere molto stanco» disse Francis. «Andiamo in camera mia... Ho una bottiglia, ne ho già dato un sorso ad Anne».

    Andarono. Jon si lasciò cadere sull’unica sedia, Francis Wilmot sul letto.

    «Anne mi ha detto che vi ha invitato a venire da noi domani. Spero che verrete».

    «Ne sarei felice».

    «Benissimo!».

    Bevvero, chiacchierarono un po’, fumarono.

    «Buona notte» fece poi Jon d’un tratto. «Se non me ne vado mi addormento qui».

    Si strinsero di nuovo la mano, e Jon caracollò fino alla sua stanza. Si addormentò subito.

    L’indomani tutti e tre presero il treno e, attraverso Columbia e Charleston, arrivarono dai Wilmot.

    Era un posto sull’ansa di un fiume rosso, con tutt’attorno campi di cotone, in terreno piuttosto paludoso dove crescevano possenti querce malinconiche, addobbate di muschio della Florida. Intorno si vedevano ancora in piedi gli antichi alloggi degli schiavi, usati ormai soltanto come canili; la casa a due piani aveva scale di legno che salivano da ambo i lati dell’ampio portico sommerso di glicine e che necessitavano di una mano di vernice; e le stanze si aprivano l’una dentro all’altra, con antichi ritratti di defunti Wilmot e De Frevilles alle pareti: i neri andavano in giro mormorando il loro dolce linguaggio cantilenato.

    Jon fu più felice di quanto non fosse mai stato dal giorno in cui, tre anni e mezzo prima, aveva messo piede nel Nuovo Mondo. La mattina andava in giro con i cani al sole o provava a scrivere poesie, giacché i due Wilmot erano occupati. Dopo pranzo partiva per una passeggiata a cavallo con entrambi o solo con Anne. La sera imparava da lei a suonare l’ukulele davanti al fuoco del camino al tramonto, o si lasciava istruire da Francis sulla coltivazione del cotone. Il momento di animosità avuto con lui quella sera a Camden non aveva fatto che render migliori i loro rapporti.

    Tra Anne e Jon non c’erano molte parole. Sembravano

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