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Il carnevale delle anime
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Il carnevale delle anime

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About this ebook

Caos e Ordine. Santi e Peccatori. Spade Mascherate e Anarchici: rivali disposti sulla scacchiera. Oppositori e fazioni a cui tutti sembrano voler appartenere, simili a marionette. Ma non Rashid. Lui è il Sarto, un fuorilegge che vive di espedienti per le strade di Foyerlun e si muove in quello spazio grigio che è la libertà, seguendo i fili della trama del mondo; fili che solo lui può vedere e manipolare. Ma anche essere liberi ha un prezzo quando gli Angeli cadono dal cielo e le maschere danzano il loro folle carnevale.
LanguageItaliano
Release dateJun 18, 2018
ISBN9788898585601
Il carnevale delle anime

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    Il carnevale delle anime - Alessio Banini

    carne.

    Prologo

    Due anni prima

    I.

    Rashid spense il sigaro, ruotando il polso e spargendo la cenere per tutto il piattino.

    La donna al banco lo fissò sorridendo. Aveva le braccia conserte e aspettava una sua mossa.

    Allora, signor Rashid?

    Lui annuì, senza neppure guardarla. Continuava a osservare il tavolo e la Ruota di Tekram. Trentasei numeri suddivisi in colonne, una pallina che girava vorticosa in mezzo a un disco di legno. Il gioco d’azzardo preferito in tutte le province dell’Impero.

    Stiamo aspettando la sua mossa.

    Rashid puntò una moneta d’argento sullo zero. Gli altri giocatori seduti al tavolo fecero un cenno di soddisfazione. Anche la donna sembrò sollevata da quella scelta.

    Fine delle puntate, signori.

    La donna diede una spinta alla ruota di legno, quindi lanciò la pallina nel senso opposto. Una decina di giri, prima di perdere velocità e scendere verso l’interno del disco, dove erano segnati trentasei numeri, in ordine sparso. Seguirono altri due rimbalzi, poi si posò sullo zero.

    Dal tavolo si alzò un grido di stupore.

    Ma, dopo un ultimo balzo, la pallina cadde sul trentadue, dove si fermò.

    Trentadue rosso, signori. La vincita va a Lord Gustav disse la donna.

    Rashid sospirò amaramente. Il grasso nobiluomo che gli sedeva accanto si esibì in una risata fastidiosa, prima di afferrare le monete della vincita. Gli altri giocatori ricominciarono a puntare, in silenzio.

    Il gioco d’azzardo non fa per te, ragazzo. – lo derise il grassone – Attento a non perdere tutti i tuoi averi!

    Rashid non rispose alla provocazione. Il solo ingresso nella sala da gioco gli era costato tre monete d’oro, e non aveva ancora recuperato l’investimento. Quella non era una bisca clandestina della cinta esterna: era un tavolo di classe del quartiere nobiliare, con poltroncine comode e ruote di alta qualità.

    Fate le vostre mosse, signori ripeté la donna.

    Rashid sentiva gli occhi puntati su di sé. Era basso, con una corporatura snella e agile, profondi occhi castani, e capelli neri che ogni tanto gli ricadevano sulla fronte. Aveva poco più di vent’anni e la pelle scura: assieme agli abiti trascurati, era un elemento che attirava numerosi sguardi sospettosi, all’interno dei quartieri più altolocati di Foyerlun.

    Forza. – continuò Lord Gustav – Sei bravo solo a parole, o sai anche giocare?

    Il ragazzo lasciò di nuovo cadere la provocazione. Puntò una moneta di rame sulla prima colonna e una moneta d’argento sui numeri pari. La pallina girò vorticosamente attorno alla ruota, prima di fermarsi sul tre. Rashid perse di nuovo, mentre la ragazza al suo fianco, che aveva puntato sul cavallo, vinse diciassette volte la posta.

    È il mio giorno fortunato! esclamò, passandosi una mano tra i capelli castani e rivolgendogli un sorriso sensuale.

    La fortuna non c’entra. È solo il caso commentò lui.

    Già. E allora perché continui a perdere?

    È solo un caso.

    Rashid si rigirò in mano le monete rimaste, mentre gli altri giocatori facevano le loro puntate. Oltre a Lord Gustav e alla ragazza coi capelli castani, attorno al tavolo c’erano un uomo muscoloso dai bei lineamenti e un ragazzo calvo, che sudava vistosamente.

    Fate le vostre mosse, signori ripeté ancora il banco.

    La sala da gioco era avvolta in una cappa di fumo e i suoni di un pianoforte nella sala adiacente giungevano ovattati. La pioggia imperversava per tutto il quartiere, ma niente pareva distrarre i giocatori dalla speranza di sbancare la Ruota di Tekram.

    Rashid puntò due monete di rame sui numeri rossi. Uscì il diciotto rosso, e finalmente anche lui poté godere di una piccola vittoria. Appena quattro monete di rame, il doppio della posta. Fu l’uomo muscoloso a racimolare un bel mucchio di monete, grazie a una terzina.

    Complimenti, signor Kain. – si congratulò la donna al banco – Sa giocare molto bene.

    Tutta esperienza, mia cara. Tutta esperienza.

    Ancora una puntata e ancora una sconfitta per Rashid, che cominciò a spazientirsi. La ragazza al suo fianco gli rivolse un altro sguardo sensuale.

    Il famoso Rashid tradisce le aspettative? Credevo avessi una reputazione da difendere.

    Quale reputazione? Non sono mica un nobile pieno di soldi.

    No, ma sei famoso per le tue doti di baro.

    Rashid le scoccò un’occhiataccia. Gli altri uomini al tavolo non sembravano aver sentito. La ragazza riprese a parlare, con tono ancora più basso:

    Perché non fai uno dei tuoi trucchetti? Perché non fai cadere la pallina sul tuo numero?

    Forse dovrei preoccuparmi per la mia reputazione. Cominciano a girare strane voci, a quanto pare.

    Oh, non fare quella faccia! Non con me. Sanno tutti che sei solo un baro… i trucchetti magici sono truffe.

    Se lo dici tu.

    Signori, le puntate.

    La pallina schizzò in mezzo alla Ruota, quindi si fermò sul dodici. Ancora una sconfitta per Rashid, ancora una vittoria per Lord Gustav.

    Non che io abbia bisogno di soldi, sia chiaro. – sentenziò il grassone – Ma adoro vincere. È un’emozione stupenda!

    Rashid trattenne a stento l’impulso di dargli un pugno in faccia.

    Andiamo, Rashid – disse la ragazza – Fai la tua mossa. È tutta la sera che ti osservo.

    Sono un bel ragazzo, lo so. Ma dovresti far più attenzione alla pallina.

    So che hai in programma uno dei tuoi trucchetti.

    Tu non sai nulla.

    Ho sentito parlare di te. Il Sarto, un mascalzone che si aggira per le sale da gioco vantandosi di poter manipolare la realtà.

    La probabilità, non la realtà. Manipolare la probabilità.

    Be’, non è questo il punto. Cosa aspetti?

    Il momento giusto.

    Ancora due giri della ruota e ancora due sconfitte per Rashid. Lord Gustav, dal canto suo, aveva già un bel gruzzoletto.

    Vedi, giocare è divertente. – spiegò il nobiluomo, cercando di irretire Rashid – Soprattutto se si è fortunati.

    Non è soltanto fortuna. – si lamentò lui – Prevedere il funzionamento della pallina… non è impossibile. Basta considerare le variabili! La forza impressa dalla donna, la velocità di rotazione, l’attrito… non è soltanto un caso.

    E tu ne saresti in grado?

    Oh, no. Sarebbe troppo difficile, lo ammetto. Ma non è solo il caso.

    Nessuno ne sarebbe in grado. Tu sei solo un ragazzo sfortunato rise il grassone.

    E se qualcuno ne fosse in grado?

    Be’, non sarebbe un baro. Sarebbe un mago.

    Rashid sorrise. Si preparò a puntare l’ultima moneta d’oro.

    Ultimo giro, signori. – disse la donna al banco – Ultima ruota.

    Come da tradizione, l’ultima puntata era un numero pieno. Lord Gustav scelse il venticinque, mentre Kain puntò sul due. La ragazza dai capelli castani puntò sul diciannove, mentre il ragazzo calvo scelse il trentaquattro. Rashid rifletté per qualche attimo, poi puntò tutto sul diciassette.

    Aveva sempre pensato che la realtà fosse dominata dal caso. Senza studiare in maniera approfondita tutte le variabili e le probabilità, era impossibile scegliere la strada giusta per incidere sugli eventi. L’assenza di variabili costringeva all’abbandono totale al caso, mitigato dalla speranza di un intervento favorevole del Dio dei Cieli o della fortuna. Il modo che avevano gli stupidi, insomma, per credere di poter manipolare la realtà.

    Ma Rashid voleva qualcosa di più. Pianificare gli eventi, alterare le probabilità. Costringere il caso ad adattarsi alla propria volontà. Proprio come si aspettavano il grassone e la ragazza, seduti al suo fianco. E forse anche tutti gli altri in quella sala da gioco.

    La palla girò rapidamente. Più rapidamente del solito. Fece una quindicina di giri intorno alla Ruota di Tekram, poi rallentò.

    I giocatori si sporsero oltre il bordo del tavolo, emozionati. La pallina oscillò tra il diciassette e il trentaquattro. Poi cadde su quest’ultimo, e lì si fermò.

    Signor Seymour, complimenti. Ha sbancato la ruota.

    Il ragazzo calvo esultò. Madido di sudore, alzò le braccia al cielo e rimase a bocca aperta, estasiato. La donna al banco si rigirò la pallina tra le mani, sospettosa. L’uomo dai bei lineamenti sogghignò per un attimo, poi si alzò in piedi. Estrasse una piastrina militare e la gettò sopra la vincita.

    Seymour? Dovrei dire Simon il Baro, piuttosto.

    Il silenzio piombò sul tavolo. Seymour si ritrasse, cercando di scappare, ma l’altro gli balzò addosso e lo bloccò a terra.

    Signor Kain! urlò la donna al banco, spaventata.

    Caporale Kain. Esercito di Foyerlun. Questo schifoso baro è in arresto.

    Lord Gustav era impietrito dalla sorpresa, così come la ragazza. Seymour provò a divincolarsi, ma la presa del militare era salda.

    Lo stavo cercando da tempo. – spiegò – Ha già colpito in altre sale da gioco, nel quartiere dell’Accademia. Adesso non creerà più problemi.

    Lasciatemi andare! È un equivoco! Posso spiegare!

    Nessun equivoco. Ti tenevo d’occhio. Ti ho visto sostituire la pallina con una più leggera, mentre il banco pagava la vincita precedente. Sei rapido, lo ammetto. Ma ero qui per te, e non mi sono lasciato fregare.

    No! È tutto un equivoco!

    Kain rovistò nelle tasche del ragazzo e ne tirò fuori una pallina della ruota. La donna al banco la soppesò nella mano e annuì, il volto imbronciato.

    Questa è truffa, Simon il Baro. Annulleremo l’ultimo giro di ruota.

    Oh, bene. – disse Lord Gustav – Non fa mai piacere perdere soldi. Anche se ne possiedo già abbastanza, rivoglio ciò che mi spetta!

    Sei in arresto, Simon il Baro. Ti divertirai a giocare d’azzardo con gli altri detenuti. Ma, credimi, ci andranno più pesanti di me, se cercherai di truffarli.

    Rashid sospirò. La serata era finita in maniera inattesa, con il militare che portava via il baro e il grassone che si godeva i suoi soldi. Se ne andò quindi in silenzio, senza neppure riprendere la propria moneta, né salutare la ragazza.

    Uscì dalla sala, recuperando il cappello all’ingresso e salutando il portiere. Nuvole di fumo si alzarono in un cielo plumbeo, non appena aprì la porta. Una fastidiosa pioggia imperversava sul quartiere, rendendo le strade scivolose.

    Rashid si mise a sedere davanti a una lanterna. Quel baro aveva cercato di alterare le probabilità, ma non era stato abbastanza attento. La pallina non era la variabile più importante, a quel tavolo.

    Non aveva considerato i giocatori.

    Rashid, invece, sapeva benissimo cosa fare e come agire.

    Lord Gustav uscì dalla sala, accompagnato da due guardie corpulente. Salì sulla sua carrozza nobiliare, quindi ordinò al cocchiere di procedere.

    Rashid conosceva l’importanza di studiare le persone al pari delle probabilità. Per manipolare la realtà, a volte, era sufficiente considerare le persone attorno a sé e volgere gli eventi a proprio vantaggio.

    E quando il caso non rispondeva alla volontà, bastava una piccola spinta per ottenere l’effetto desiderato. Un rapido gesto della mano, muovendo un paio di fili delle possibilità, proprio come un sarto che tesse una tela. Rendere certo un evento che era solo probabile. Avvolgere un nodo, tirare un altro filo e manovrare le probabilità a proprio piacimento.

    Come un mago.

    Lord Gustav salì sulla carrozza, ma urtò la portiera con il pancione prominente. La corda del borsellino si staccò, ormai usurata dalla pressione con la cintura. Il borsellino cadde, mentre Lord Gustav richiudeva la portiera, senza che nessuno se ne accorgesse; rimase sul selciato scivoloso, proprio vicino a Rashid.

    Rashid, il Sarto.

    Anche se non c’era nessuno ad applaudirlo, aveva fatto la sua mossa al momento giusto, sbancando la Ruota di Tekram. Raggiunse il borsellino, mentre la carrozza si allontanava nella notte piovosa: venti monete d’oro. Una cifra trascurabile per un membro della corporazione dei banchieri, ma sufficiente per vivere due anni nei quartieri della cinta esterna, se si sapevano evitare i criminali. Una vincita che non aveva destato sospetto tra i militari o gli altri giocatori, né tra i proprietari della sala da gioco. Una vera vincita, ottenuta manovrando il caso.

    Rashid sorrise, nascondendo il borsellino nella tasca interna della giacca.

    Allora è vero, quel che si dice di te.

    Rashid sospirò, riconoscendo la voce suadente alle sue spalle.

    La ragazza dai capelli castani si sedette accanto a lui e gli rivolse un altro sorriso. La camicetta era bagnata dalla pioggia, e ne lasciava intravedere il seno prosperoso.

    Non sei un baro. Sei un mago.

    Non mi piace. Anche i maghi sono dei truffatori.

    Allora, cos’è che saresti?

    Rashid scrollò le spalle.

    Un giocatore d’azzardo. Uno di quelli bravi.

    Avresti potuto vincere alla ruota.

    Forse. Ma avrei attirato troppi sospetti. Bisogna essere cauti, in certe cose.

    La ragazza sorrise di nuovo. Rimase in silenzio per qualche secondo, mentre la pioggia le bagnava i capelli e i vestiti. Quindi si avvicinò a lui, rivolgendogli uno sguardo malizioso.

    Io sono Julia. Penso che dovremmo conoscerci meglio.

    Oh, mi dispiace. Sai, sono già impegnato. Ed è piuttosto gelosa… non vorrei che ti succedesse qualcosa di brutto.

    Julia rise di gusto.

    Ma che hai capito? No, no. Anche io sono già impegnata.

    Be’, non mi viene in mente nessun’altra attività divertente che potremmo fare assieme.

    Vorrei farti conoscere il mio compagno.

    Rashid aggrottò le sopracciglia.

    No, non quel genere di cose! – protestò – Ho già provato. Non sono divertenti come dicono.

    Lei non lo ascoltò neppure. Lo sguardo si era fatto più serio.

    Sono convinta che andrete d’accordo. Avete lo stesso nemico.

    Quale?

    L’ordine.

    II.

    Osservava in silenzio, annuendo tra sé e sé. Spaziava con lo sguardo tra i tetti e le torri di Foyerlun, esaminando con quieta serietà i suoi concittadini. Ogni tanto ne seguiva qualcuno in particolare, studiandone movimenti e comportamenti, poi si spostava su qualcun altro. Rimaneva a fissarli per ore, compiaciuto e soddisfatto, senza dire nulla.

    Dai terrazzi rigogliosi dei giardini del suo palazzo, Re Arthur II osservava la popolazione di Foyerlun. Altri uomini, nella sua situazione, avrebbero visto semplicemente una folla di persone affaccendate per le strade, sotto lo splendente cielo della Regione che avevano conquistato. Tuttavia, per Arthur non era così. Lui vedeva gli ingranaggi della società, il funzionamento globale dell’Impero, il comportamento delle masse così come veniva influenzato dalla storia.

    Quello che Arthur vedeva era la società stessa; come se, dall’alto di quelle terrazze, la Razza umana formasse un unico, enorme individuo. Un individuo sociale, che si muoveva lungo l’eterna linea dell’evoluzione, e i cui comportamenti potevano essere studiati e analizzati al pari di una legge di natura. E previsti, se si era sufficientemente esperti.

    Re Arthur si appoggiò alla balaustra, lasciando che la brezza serale gli gonfiasse il mantello. Piccolo e gracile, il sovrano non portava corone né scettri; solo le insegne cittadine sull’anello e i fregi imperiali sul corpetto di cuoio. Non aveva mai apprezzato i lussi della nobiltà, ma la vita di corte lo costringeva a interminabili riunioni, cene e assemblee politiche. Per non parlare delle costanti regole a cui doveva attenersi nel parlare con i nobili o i commercianti, dei precetti della religione a cui doveva obbedire e delle necessità militari sulla sua sicurezza a cui doveva affidarsi. Non apprezzava nulla di tutto ciò: a differenza dei suoi predecessori aveva avuto una formazione scientifica assieme ai Tecnarchi e ai filosofi di Foyerlun, non un addestramento militare con i guerrieri dell’esercito. Tuttavia, sapeva di doversi piegare a tali necessità, perché il suo ruolo gli imponeva di indossare una maschera. Nonostante rappresentasse la massima autorità politica di Foyerlun, era costretto a sottostare a regole, obblighi, precetti e indicazioni. Ma era necessario, lo sapeva bene. Aveva ceduto volentieri parte della sua libertà e aveva acconsentito a indossare la maschera del sovrano perché ciò era richiesto dall’ordine imperiale.

    La vedo pensieroso, sire.

    Arthur si voltò e si ritrovò faccia a faccia con Kelnozz Xarann. Alto e massiccio, protetto da una corazza nera che non sembrava intralciarne i movimenti; i suoi occhi seri e impassibili spiccavano su un volto largo, dai capelli corti e dai baffi neri.

    Generale… – disse il Re, dopo qualche attimo – Cosa la porta qui?

    Kelnozz si avvicinò, estraendo una pergamena dalla cintura.

    Il Re si soffermò a osservarlo, nascondendo il proprio turbamento. Il Generale dell’armata di Foyerlun esercitava una strana attrazione su di lui, era capace di metterlo in soggezione. La corporatura robusta e la tempra da condottiero risaltavano di fronte ad Arthur, che era l’esatto opposto: un uomo di mezz’età, magro e gracilino, con pochi capelli bianchi pettinati con cura e un paio di occhiali calati su un naso schiacciato.

    Kelnozz si fermò di fronte a lui e gli passò la pergamena.

    Una comunicazione urgente, da parte della capitale.

    Adesso il nostro Generale è costretto a fare le consegne?

    No, sire. È una questione di sicurezza.

    Lo immaginavo.

    Arthur srotolò la pergamena e la lesse con attenzione. Si corrucciò, massaggiandosi le tempie con le dita.

    Sa cosa c’è scritto?

    Il Generale rimase impassibile.

    Non mi fraintenda. So che non leggerebbe mai un dispaccio privato. Tuttavia, durante l’ultimo Consiglio Reale non abbiamo parlato di niente del genere. Pertanto, suppongo che sia stato il messo imperiale in persona a informarla.

    È così, sire.

    Il Re arrotolò la pergamena, poi tornò alla balaustra. Il sole stava per tramontare e le vie di Foyerlun cominciavano a svuotarsi.

    Un’Assemblea imperiale… – disse, dopo qualche minuto – A Valmut.

    Sì. Tutti i Governatori sono invitati.

    Arthur annuì. Il suo titolo era solo un’onorificenza, retaggio del vecchio regno di Foyerlun; dopo l’epoca repubblicana, la città era tornata a far parte dell’Impero, e come tutte le città dell’Impero era retta da un Governatore che rispondeva a un Consiglio, di cui facevano parte i principali rappresentanti militari, religiosi e nobiliari. Tuttavia, Foyerlun, orgogliosa della sua lunga indipendenza, aveva continuato a chiamare Re il proprio Governatore.

    Partecipare all’Assemblea è un mio dovere, e sono fiero di rappresentare la nostra città. – disse – Tuttavia, la capitale è distante. Potrei mancare per molti mesi.

    Si tratta di un importante impegno politico.

    Sì. So di lasciare Foyerlun in buone mani.

    Kelnozz Xarann si avvicinò alla balaustra, scrocchiando le dita. Il crepuscolo tingeva di rosso le mura della città e faceva risplendere l’armatura del Generale.

    In ottime mani, sire.

    Arthur annuì, incupendosi.

    Stia attento alle Spade Mascherate. Anche se hanno giurato di proteggermi, non mi seguiranno mai fino a Valmut. Non vorrei che questa fosse una mossa per allontanarmi dal Consiglio Reale.

    Non si preoccupi, sire.

    Arthur annuì di nuovo, abbozzando un sorriso.

    L’Impero, prima di tutto.

    Il Generale gli strinse la mano con forza, poi si allontanò dalla terrazza.

    Re Arthur tornò a osservare Foyerlun, cercando di fugare le proprie preoccupazioni. Imperiosa tra le sue mura, la città sorgeva nel punto più occidentale delle Piane Azhim, circondata da un lato da vaste pianure coltivate, e dall’altro da un enorme oceano, i cui flutti si infrangevano sugli scogli sotto gli scoscesi dirupi. Sebbene non fosse grande come la capitale, le sue difese non erano mai crollate sotto i colpi dei nemici della Razza umana.

    Proprio al centro delle affollate vie di quella città che si vantava di essere la più antica della Regione, si trovava il palazzo di Arthur II. Dall’alto dei suoi terrazzi, il Re vedeva la società e capiva la grandezza dell’Impero. La sua vita era per l’Impero, la vita di tutta la sua Razza era per l’Impero. Qualsiasi cosa fosse accaduta, l’Impero doveva continuare a esistere.

    III.

    La prigione era buia, fredda e umida. Come tutte le prigioni in cui era stato.

    Archon chiuse gli occhi per un momento, concentrandosi sulle grida d’agonia dei prigionieri torturati. Prigionieri che dovevano rivelare informazioni strategiche per la difesa dell’Impero, o semplicemente pagare con il proprio sangue le offese arrecate all’autorità.

    Archon non aveva paura di finire come loro. La sua cella non poteva che essere un ostacolo temporaneo, perché l’Impero non era pronto ad affrontare la belva feroce che aveva inconsapevolmente creato. Si sistemò il guanto sulla mano destra, che era tornata a fargli male. Come se qualcosa volesse uscire dalla sua carne, da sotto la pelle. Qualcosa che pulsava, quasi volesse unirsi alle grida degli altri detenuti.

    Una guardia superò l’angolo e alzò la torcia a illuminare la cella. Archon gli rivolse un sorriso beffardo.

    Oh, bene. Il nuovo prigioniero disse.

    Era un giovane militare, con una corazza di cuoio e l’elmo lucido sui radi capelli castani. Faceva sbattere la spada contro le sbarre e parlava con voce stridula.

    Come ti trovi nella tua cella?

    Bene.

    Non farci troppo l’abitudine. Tra qualche giorno ti taglieranno la mano, lo sai?

    Archon annuì. La mano gli faceva male, pulsava. Qualcosa ribolliva, nel suo corpo. Qualcosa di più grande di lui.

    Un furto non può essere perdonato. – continuò il soldato – Soprattutto se rubi a un nobile, lo sai?

    Perché? Rubare ai poveri è consentito?

    Il soldato scrollò le spalle.

    La legge è questa. Pagherai per i tuoi crimini.

    Archon si esibì in una risata sguaiata. La guardia batté la spada sulle sbarre, infastidita.

    I miei crimini! Che ne sai, tu, dei miei crimini?

    Sei soltanto un ladruncolo. Un tagliaborse. Ne vediamo tanti come te, da queste parti. L’Impero vi giudicherà tutti e vi punirà. Avete messo in pericolo la vita di tante persone e messo a repentaglio la sicurezza di Foyerlun.

    Oh, tutto questo per un furto?

    Per aver tentato di rubare il denaro al siniscalco, una settimana di prigione e il taglio della mano. È la legge. Che il tuo giudizio sia da esempio agli altri ladri.

    Ho fatto di peggio, mio caro.

    Il soldato lo guardò male.

    Ho rubato la carrozza di Lord Gustav, due anni fa. – spiegò il prigioniero – Ho preso a pugni un ufficiale delle Spade Mascherate. E poi ho saccheggiato un’armeria dell’esercito, il mese scorso. Per non parlare delle persone che ho ucciso. Almeno dodici sacerdoti, venti soldati, tre Spade Mascherate, due cortigiani.

    Sei pazzo? Ti vanti di aver commesso dei crimini nei confronti di tutte queste persone?

    Persone? No, noi non uccidiamo persone innocenti. Non facciamo del male ai poveri, agli schiavi, agli oppressi. Colpiamo soltanto chi è al potere. Chi è responsabile di questo che vi ostinate a chiamare ordine imperiale, ma che è solo una società ingiusta e crudele costruita dai padroni per tenerci nell’eterna servitù.

    Non scherzare con me…

    Noi non scherziamo.

    Noi?

    Archon sorrise. Si rizzò in piedi e avanzò verso le sbarre. Dimenticò il dolore alla mano e le grida dei prigionieri torturati. Aveva una missione da compiere, pertanto non poteva rimanere troppo a lungo in quel luogo.

    Sì, noi. Perché siamo in tanti.

    Io vedo solo te.

    La guardia avvicinò la punta della spada alla gola del prigioniero. Le celle erano buie, la luce delle torce illuminava appena le pareti spoglie. Archon rimase di fronte al carceriere, sprezzante.

    Siamo in tanti. E tu non ci conosci. Persino in queste celle, scommetto che non conosci tutti i prigionieri.

    Siete dei criminali. La feccia della società azhim.

    Feccia? Anche Mark, che è stato costretto a rubare un cesto di mele per la figlia morente, dopo che tutti i dottori si erano rifiutati di curarla perché le medicine costavano troppo?

    È la legge.

    Anche Jarvan, che ha urtato la carrozza di un nobile con la bancarella di pesce?

    Non è colpa mia se era distratto.

    Anche Julia, che si è vendicata del padre che ha abusato di lei per tutta l’infanzia?

    Gli omicidi vanno puniti.

    E Danny, Jenny, Omar… scommetto che non le conosci, le loro storie. Scommetto che non conosci neppure la metà dei tuoi prigionieri.

    E tu, credi di conoscerli?

    Noi siamo una cosa sola. Mille teste incoronerete, mille e una ne farem cadere.

    Il soldato fece uno scatto avanti, rabbioso, ma Archon non si spaventò.

    Questa tua arroganza… dovrei giustiziarti qui, adesso.

    Oh, certo. Perché tu hai il potere, mentre io sono chiuso nella cella. Perché credi che tutti siano schiavi della tua autorità. E sarei io, quello arrogante?

    Taci!

    No.

    Ti ammazzo!

    Saremo noi a ucciderti.

    E come credi di fare? Non farmi ridere!

    Siamo in tanti, te l’ho detto. Più di quanti crediate.

    La guardia rise. Poi, spalancò gli occhi. Il sorriso si tramutò in sorpresa, quindi in dolore. Tossì del sangue addosso ad Archon, mentre una lama gli trapassava il petto. Si accasciò lungo le sbarre.

    Mille teste incoronerete, mille e una ne farem cadere ripeté Archon.

    Dietro alla guardia apparve un ragazzino con un pugnale. Il volto teso, i capelli scompigliati. Uno dei tanti che affollavano i quartieri poveri di Foyerlun.

    Ottimo lavoro. Andiamocene da qui.

    Adesso… mi riporterai dalla mia mamma? chiese il giovane, con voce tremante.

    Archon sospirò.

    Puoi farlo?

    Vedi, Roddy… non posso farlo. È stato l’Impero a prenderla e a impiccarla, perché quelle erbe con cui curava gli ammalati non erano accettate dai sacerdoti del Dio dei Cieli. L’hanno trattata come una strega, come un demone.

    Ma era mia mamma!

    Lo so. Soltanto una mamma.

    E… adesso?

    Adesso vieni con noi.

    Il ragazzino abbassò il pugnale. Sembrava sul punto di piangere. Archon gli tese la mano, abbozzando un sorriso.

    Mia mamma mi diceva di stare attento agli estranei. Diceva che ci sono degli uomini che uccidono i bambini, a Foyerlun.

    Oh, è vero. Ma non siamo noi. Noi non li uccidiamo, i bambini. Li salviamo.

    Siete degli angeli, quindi?

    Se vuoi, puoi chiamarci così. Gli angeli delle fogne.

    IV.

    Adam Crow lavorava al suo veliero. E, come sempre, non desiderava essere disturbato. Si sedeva davanti al grosso tavolo, tirava fuori gli attrezzi e indossava un paio di occhialetti dalla montatura argentata.

    Quindi fissava il suo amato veliero, per qualche secondo: la riproduzione raffinata della Long Mary, vascello imperiale del secolo precedente, che aveva guidato la flotta nella guerra contro i pirati dell’ovest. Una costruzione di trenta centimetri di altezza, con le vele di stoffa e le piccole assi di legno.

    Adam aveva dipinto ogni bacchetta, ogni barile, ogni corda. Aveva installato con cura le insegne imperiali sui pennoni. Un lavoro di tre anni, che ancora non era giunto a conclusione: sul tavolo giacevano altri pezzi, tutto l’albero di trinchetto da montare e la polena.

    Quel giorno, era al lavoro proprio sulla polena. Aveva selezionato una sirena d’ottone dal fabbro di fiducia e stava applicando gli ultimi accorgimenti. Un lavoro preciso e paziente, che necessitava della massima quiete e attenzione.

    Per questo, quando il cameriere entrò nel salone, andò su tutte le furie.

    Non voglio essere disturbato! tuonò.

    Mi scusi, signor Crow. Ma c’è un ospite.

    Può aspettare.

    È quello che ho detto, ma…

    Adam sbatté con forza il pugno sul tavolo. Fece sobbalzare le asticelle di legno, e ciò lo innervosì ancora di più.

    Ho detto di no!

    Il Generale delle Spade Mascherate.

    Adam impallidì. Un uomo entrò nella stanza, senza ulteriori indugi. Indossava una corazza bianca e un mantello ancora più candido. Aveva lunghi capelli biondi e il viso era nascosto da una maschera dorata.

    Mi scusi per il disturbo, Lord Crow. Non volevo rovinare il suo divertimento.

    Adam congedò il cameriere e fece accomodare l’ospite. Gli preparò una sedia di fronte al tavolo con il veliero, poi si esibì in un inchino.

    Generale Mikael, se soltanto avessi saputo, avrei preparato un’accoglienza migliore…

    Non c’è problema. Non mi piace essere annunciato.

    A cosa devo il piacere di questa visita?

    Ho bisogno di parlare con lei.

    Adam Crow cominciò a sudare per l’ansia. Fissava l’uomo di fronte a sé, e si sentiva in soggezione. Gli occhi azzurri, gelidi e penetranti, erano l’unica parte del viso che la maschera dorata lasciava intravedere. Adam si sentiva giudicato, da quegli occhi.

    Ho fatto… qualcosa di male? osò chiedere.

    Spero di no.

    L’uomo passò in rassegna le proprie abitudini. Il suo lavoro, la sua vita, la sua famiglia. Non gli sembrava di aver fatto nulla di male. Si sentiva sempre più insicuro e ansioso. Sudava, e si agitava terribilmente. Prese in mano un pezzetto di legno del veliero, ma tremava, e non riusciva a tenerlo fermo.

    Non… non credo di aver mai attirato l’attenzione delle Spade Mascherate.

    Fino a oggi, no.

    Adam deglutì a fatica. Distolse lo sguardo dagli occhi di Mikael. L’uomo con la corazza e la maschera dorata si alzò dalla sedia e cominciò a camminare attorno al tavolo, osservando il veliero.

    Un ottimo lavoro, Lord Crow. Una splendida riproduzione.

    Grazie… è un lavoro di grande pazienza.

    E di grande ordine. Immagino sia necessario catalogare ogni pezzo, sistemarlo con cura, fare attenzione a ogni minimo dettaglio.

    Sì. Ma è anche un piacere.

    L’ordine è sempre un piacere.

    Adam non riusciva a capire le emozioni del Generale, per colpa di quella maschera. Non riusciva a capire se stesse sorridendo oppure no. Il tono della voce era serio e autoritario, ma il suo volto era un’incognita.

    Noi due la pensiamo alla stessa maniera, sa?

    In che senso?

    Amiamo l’Impero, Lord Crow. Amiamo l’ordine imperiale e questa città.

    Senza alcun dubbio.

    Eppure, vogliamo qualcosa di più. Non ci basta essere buoni cittadini imperiali. Vogliamo essere dei perfetti cittadini imperiali.

    Adam annuì, seppur titubante. Mikael continuò a passeggiare attorno al tavolo, lentamente, mentre parlava:

    Perché i nemici dell’Impero sono tanti. I peccatori, i demoni, i ribelli. Tutti coloro che si abbandonano al crimine, all’immoralità e al caos, vanno a ingrossare le fila dei nemici dell’Impero.

    Adam si guardò attorno, preoccupato. Continuava a ripensare alla sua vita, alle sue azioni. Non gli pareva di aver fatto nulla di male. In qualità di siniscalco redigeva i rapporti sul Consiglio Reale e svolgeva funzioni amministrative per conto del suo sire. Non aveva mai fatto sparire neppure una moneta d’oro dalle casse imperiali; non aveva mai tradito sua moglie, nonostante se ne fosse presentata l’occasione. Certo, aveva avuto qualche pensiero impuro, ma come potevano saperlo le Spade Mascherate? Forse l’uomo dietro quella maschera era capace di leggergli nella mente. Adam rigirò le mani nervosamente, continuando a sudare.

    Mikael si fermò di fronte al veliero e fissò l’uomo negli occhi.

    Non si preoccupi, Lord Crow. Non sono qui per giudicarla.

    Io… sono un buon cittadino imperiale.

    Lo so. Ma noi siamo simili, gliel’ho detto. Noi vogliamo essere dei perfetti cittadini imperiali. Come degli angeli, non crede? I migliori esemplari dell’Impero.

    Il Generale delle Spade Mascherate raccolse un piccolo pezzo di legno del veliero e lo studiò con cura. Poi riprese a parlare:

    Foyerlun può essere come questo veliero. La riproduzione di qualcosa di più grande. Un esempio per l’Impero. La nostra città può diventare il simbolo del Paradiso Celeste, qui nella Regione.

    Quando Mikael lo lasciò cadere, Lord Crow riprese al volo il pezzo di legno. Poi lo ripose con cura nella fila ordinata, vicino alla polena. Tremante, osò affrontare lo sguardo del Generale:

    Io… cosa dovrei fare?

    Mi serve il suo appoggio, Lord Crow. D’altronde, noi due la pensiamo alla stessa maniera. Lavoriamo con pazienza e precisione al nostro veliero.

    Il mio appoggio?

    Sì. La corporazione dei banchieri è già dalla mia parte. Con il suo aiuto possiamo raggiungere la maggioranza e assicurarci il controllo del Consiglio Reale.

    Il Consiglio? Ma io sono soltanto un siniscalco…

    Che, in caso di assenza del Re, svolge temporaneamente la sua funzione in Consiglio.

    Sì, ma devo rendere conto ad Arthur di ogni decisione. Non posso tradire la sua volontà.

    Tradimento? Non ne ho mai parlato. Il tradimento è un peccato imperdonabile.

    Ma allora… non capisco…

    Non c’è niente da capire. Pezzo dopo pezzo, costruiremo il nostro veliero.

    Adam Crow annuì. Da una parte, si sentiva sollevato: perlomeno le Spade Mascherate non erano venute a giudicarlo, come sempre più spesso accadeva ai cittadini accusati di immoralità. Ma Mikael non era l’unico a cercare di ritagliarsi uno spazio sempre maggiore all’interno del Consiglio Reale.

    Mikael incrociò le mani dietro la schiena e si piegò in avanti, per osservare meglio la Long Mary. Adam si adagiò sulla sedia, cercando di rilassarsi.

    Perché ha bisogno del mio appoggio, Generale?

    Nulla in particolare. Quando saremo nel Consiglio Reale, sarà importante agire in sintonia, verso il nostro comune obiettivo. D’altronde, aspiriamo entrambi a rendere migliori gli uomini e l’Impero.

    Sconfiggere tutti i nemici dell’Impero non sarà facile.

    Non è questo il punto, Lord Crow. Non basta imprigionare i criminali o condannare i peccatori. Dobbiamo fare di più. Una città di angeli, in carne e ossa.

    Adam non capiva il senso di quelle parole, ma non gli importava. Era già soddisfatto di aver scampato un’accusa di immoralità. Fissava la maschera dorata di Mikael e, nonostante la soggezione, si sentiva più sicuro di prima.

    Sarà un lungo lavoro ammise.

    Non è importante.

    Adam Crow non ne era certo ma, dietro quella maschera, avrebbe potuto giurare che l’altro stesse sorridendo.

    Non ho fretta, come le ho detto. Stiamo costruendo un veliero molto più grande del suo, Lord Crow. Con pazienza e precisione.

    Parte prima - Ordine

    Capitolo I

    I.

    La facciata della casa era ordinata, luccicante e splendente. Perfettamente incastonata tra i palazzi della strada, come un brillante in una collana. Un edificio basso, con il porticato e le colonne di marmo, i vasi di fiori ben disposti l’androne accuratamente ripulito dalla polvere e dalle foglie portate dal vento autunnale.

    Non sembra la casa di un assassino commentò Goran.

    I suoi due compagni lo fissarono, confusi.

    Perché? chiese Kain.

    Goran mugugnò. Si sporse ancora dall’angolo, osservando l’edificio.

    È troppo ordinata, troppo bella.

    Questo non significa nulla.

    Lo so. Eppure… c’è qualcosa di strano.

    Se lo dici tu, capo.

    Goran annuì. Tutto quest’ordine è sospetto. Qualcosa da nascondere.

    Si voltò verso i due uomini che lo accompagnavano. Kain era alto e muscoloso, dal volto affascinante. Snello e longilineo, indossava una leggera corazza e un lungo mantello grigio gli pendeva dalle spalle. Aveva un bel viso dai tratti affascinanti, deturpato solo da due cicatrici sulle guance. Tanith Aram era di corporatura minuta e aveva capelli neri lunghi fino al collo, lisci e ben curati. I lineamenti del viso erano delicati, simili a quelli di un bambino, e la faccia era piccola. I grandi occhi scuri erano sovrastati da folte sopracciglia, incurvate in modo tale da donargli un aspetto vagamente triste, anche quando sorrideva. Kain e Tanith, entrambi giovani, ma così diversi: l’uno sempre sorridente, l’altro sempre imbronciato. I miei migliori amici. I compagni più affidabili.

    Dal canto suo, Goran aveva la corporatura massiccia che competeva a un ufficiale dell’esercito, quasi quarantenne, le mani rudi ormai abituate all’uso delle armi. Sotto l’elmo, i corti capelli castani sovrastavano una fronte larga e piena di rughe.

    Che facciamo? chiese Kain.

    Entriamo. Abbiamo aspettato a sufficienza.

    Era una notte limpida e piena di stelle. Solo un fastidioso vento disturbava la quiete, sibilando tra le insegne dei negozi del quartiere di Rocca Vento. La strada era perfettamente normale, simile a tutte le altre di Foyerlun: pulita, ordinata, silenziosa.

    Ma quella casa suscitava dei forti timori dentro Goran. Era ossessivamente pulita, ordinata e silenziosa.

    Andiamo disse, rompendo gli indugi.

    I tre uomini si avvicinarono con circospezione all’androne. Goran fece un cenno a Tanith e quello andò subito a controllare il retro per assicurarsi che non ci fossero uscite secondarie. Kain sbirciò dalle finestre: entrambe erano chiuse con le imposte, senza un filo di ruggine o un chiodo penzolante.

    E questa dovrebbe essere la casa di un assassino? – domandò – Dove lo trova il tempo di uccidere la gente, se sta sempre a mettere in ordine la casa?

    E tu dove trovi il tempo di dire stupidaggini? Siamo qui per completare una missione, non per scherzare.

    Attesero il ritorno di Tanith, poi finirono di perlustrare i dintorni. Dall’interno non veniva alcun rumore. In strada non passava nessuno, a parte le occasionali folate di vento.

    Goran accennò ai compagni di sfoderare le spade. Kain indietreggiò di un passo per prendere la rincorsa, ma Goran lo bloccò. Caricò la porta e la sfondò con un calcio.

    Il salone era buio, ma la luce della luna era sufficiente a rischiararlo. Non c’era nessuno.

    Vieni fuori, Kamal! Non puoi scappare! urlò Goran.

    Perlustrarono la casa, ma non c’era nessuno. La stanza da letto era vuota. Il bagno e la cucina pure. I soprammobili sulle mensole rassettati, le stoviglie sugli scaffali lucidate, i libri archiviati per dimensione e colore.

    Kamal! urlò di nuovo Goran.

    Tanith rimase a piantonare l’ingresso. Kain controllò le stanze con una lanterna, per verificare la presenza di nascondigli. Spostò alcune candele da un tavolo, giusto per rovinare un po’ l’ordine ossessivo di quella casa.

    Rimaneva solo lo scantinato da controllare. Il posto perfetto per nascondere qualcosa. Goran scese le scale per primo. I gradini di legno scricchiolavano a ogni passo: oltre ad avere una stazza possente, indossava pure la corazza leggera di sorveglianza. Kain lo seguì con la lanterna, dando un’ultima occhiata alle stanze attorno.

    Quest’atmosfera è inquietante. Mi fa venire la pelle d’oca.

    Zitto!

    Lo scantinato era una grossa stanza che percorreva le fondamenta della casa. Non c’erano finestre né altre porte. Puzzava di umidità e muffa. L’acqua gocciolava dal soffitto, formando alcune chiazze sul pavimento di pietra.

    Dio dei Cieli… sussurrò Goran.

    Quella stanza era l’esatto contrario del piano superiore. Cianfrusaglie ammassate negli angoli, libri rovesciati alla rinfusa su tavoli scheggiati e ammuffiti. Pergamene strappate, scatole rotte, cocci di vetro. Più che una cantina, sembrava una discarica.

    Questo è ancora più inquietante.

    Già. E anche qui non c’è nessuno.

    Kain diede un calcio ai resti di una maschera di ceramica, quindi passò vicino a dei barili accatastati, cercando di capire se contenessero ancora del vino. Goran gettò via una pila di libri e guardò sotto i tavoli.

    Niente da fare, capo. Ci è scappato.

    Eppure, lo hanno visto entrare in casa. Deve essere qui.

    Avrà dei passaggi segreti. Ci avrà sentiti arrivare.

    Goran mugugnò, infastidito. Kain rovistò in una sacca di abiti ammucchiati, che puzzavano di muffa.

    È un mostro, no? Si sarà trasformato in qualcosa che non riusciamo a vedere.

    È un mostro perché uccide i bambini.

    Be’, qui non c’è.

    Dal piano superiore si sentirono alcuni scricchiolii, poi più niente. Kain alzò lo sguardo. Due gocce d’acqua caddero al suolo, ticchettando. Goran tornò a fissare le costine dei libri: storie del primo Impero, della Guerra delle Razze, racconti su angeli e demoni. Non è quello che mi aspettavo di trovare nella cantina di un mostro.

    Ancora altri cigolii, stavolta più forti.

    Hey, capo mormorò Kain, preoccupato.

    Che c’è?

    Non senti anche tu?

    Sì. Saranno i topi.

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