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Una Fata Morgana - Amman 2005
Una Fata Morgana - Amman 2005
Una Fata Morgana - Amman 2005
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Una Fata Morgana - Amman 2005

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L’opera si riconduce a un evento reale avvenuto nel novembre 2005 ad Amman, capitale della Giordania. Una serie di attentati sincronizzati colpisce tre grandi alberghi di una catena americana, provocando morte e distruzione. In uno di essi soggiorna un gruppo di medici italiani invitati a partecipare a un congresso scientifico internazionale. Tra loro Sandra e Mansour, i protagonisti del manoscritto, fra cui nasce una storia d’amore. Sandra si ritrova nel freddo buio della notte sulle strade deserte della città, con ancora accanto la ragazza giordana che ha soccorso e che ha perduto il fidanzato nell’esplosione. Ferita nel corpo e nell’anima, ripercorre il tremendo vissuto in una dimensione avulsa da qualsiasi criterio di misura. Nel difficile percorso che entrambe le donne dovranno affrontare, avviene il salto temporale nelle loro storie personali antecedenti l’evento. Metabolizzare la morte è difficile ma accettare che sia la mano dell’uomo a provocarla è intollerabile. Condividere l'esperienza di un attentato terroristico può aiutare a superarne l’orrore?
LanguageItaliano
Release dateJun 12, 2018
ISBN9788833281025
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    Una Fata Morgana - Amman 2005 - Paola Montagner

    mani"

    Prologo: 9 novembre 2005

    Riprende conoscenza lentamente, il corpo inerte su di una rigida superficie ghiacciata. La prima immagine che prende forma nella sua mente è il piano freddo, asettico, di una cella mortuaria. Non può rendersi conto di trovarsi all’aperto; un perfetto silenzio di tomba sostiene la macabra illusione. È un silenzio denso, fisico, racchiuso nella sua testa, che spinge dall’interno su tempie e orecchie come ovatta compressa, facendole pulsare di dolore al ritmo del cuore.

    Orribili sensazioni giungono in sequenza dall’oblio, sovrapponendosi e facendole vivere quel panico che accartoccia la gola, che ghiaccia il sangue, che può fare impazzire. Un’aria gelida e nemica, satura di pericolo, le si insinua nei polmoni a ogni respiro, percorre i muscoli creando spasmi di creta e raggiunge le ossa, facendola tremare in modo convulso dalla testa ai piedi. Lo stomaco è stretto da un ancestrale terrore mai provato prima. Non ricorda, ma sente molto, troppo.

    Dove sono? Cosa mi è successo? Ho tanto freddo. Perché tutto questo male?

    Teme le risposte ancor più delle domande ed è proprio la paura che non le fa aprire gli occhi. Sa di doverlo fare, non può essere che di aiuto, anche se dovesse vedere cose che sarebbe meglio non vedere mai.

    Un odore strano, dolciastro, proviene da tutt’intorno, forse anche dal suo stesso corpo. Odore di sangue? Un conato torce a vuoto il suo stomaco, ma gli occhi ancora non si aprono. Obbligata in quella rigida postura, con i muscoli morsi da spasmi di freddo e dolore, Sandra inizia ad avvertire alcuni rumori, che intaccano in modo incerto il silenzio opprimente, rotto solo dal battito dei suoi denti. Sono voci, concitate, gridate, lontane ma anche vicine. Urla.

    Blocca il respiro e stringe i denti per un attimo, nel tentativo di non coprire i suoni. Le voci giungono distorte, alcune risuonano in modo stridulo e trasmettono allarme e terrore. Concentra lo sforzo nell’ascolto per capire cosa stiano dicendo. E in quale lingua?

    «Allah, Allah!»

    Amman! Nel buio gli occhi si spalancano di colpo. Frammenti di un puzzle ancora astratto affiorano nella mente torbida, galleggiano tra le ondate di adrenalina che ora invadono come una marea il suo sangue. Le giunzioni muscolari non sono dunque in grado di accogliere l’invito alla fuga e l’unica risposta avviene nello stomaco e nella frequenza cardiaca, che accelera le implosioni all’interno delle tempie.

    È notte. Capisce di trovarsi all’aperto, a terra, sull’asfalto o su un marciapiede. A pochi metri di distanza passi rapidissimi fendono l’aria pervasa di elettricità. Nessuno bada a lei, è come se fosse invisibile.

    Uno di quei passi scaglia con violenza un oggetto duro e tagliente sulla sua guancia, ferendola. Forse una pietra. Lei, muta, non emette alcun suono. Inconsapevole, ha già adottato la tecnica del cadavere a terra. Continuare a sembrare un indistinto corpo, immobile in quell’angolo buio, non può che proteggerla, pur trovandosi in una posizione impossibile da sostenere a lungo. Stesa su un lato, con il fianco a ridosso di uno spigolo di cemento, la gamba di quel lato piegata in modo innaturale sotto l’altra, la testa pesantissima e dolente, posta più in basso rispetto alle spalle. Non esiste un punto del corpo dove il dolore possa definirsi tollerabile; le terminazioni nervose sono tutte tornate a sentire, a vibrare di vividi scambi febbrili.

    Con un movimento lentissimo porta una mano tremante, che non le pare nemmeno sua, alla guancia. La ritrae bagnata, lucida e nera: sta sanguinando. Invoca autocontrollo, tenta di ridurre il ritmo del respiro. Ha bisogno di tempo, per pensare, per ricordare. Giunge a desiderare di perdere di nuovo conoscenza, forse darebbe alla memoria il tempo di tornare e, intanto, riposerebbe un po’. Nulla però lascia presagire che questo possa avvenire, anzi.

    Gli occhi iniziano ad abituarsi un poco al buio e si accorge che ogni tanto l’oscurità viene interrotta da lontani palpiti di luce rossastra. Quella luce mette in debole evidenza i contorni di alcune cose lì attorno. Le radici nodose di un albero che deformano l’asfalto; una bicicletta a terra, con una ruota accartocciata; pezzi di materiale che non riesce a identificare; pietre sparse. Le retine acquisiscono un numero sempre maggiore di immagini, che con la testa in quella posizione appaiono distorte. Riesce a capire che la strana luce proviene da fiamme alte, lontane, che danzano senza voce. È davanti a quelle fiamme che si formano le velocissime figurine nere, le quali, man mano che si avvicinano, diventano drammatiche sagome umane in preda a una fuga sconnessa. La sequenza delle immagini in rapida trasformazione è resa così nitida e grottesca dai riverberi che fanno da sfondo da sembrare un cartone animato dalla tecnica perfetta. Ma lì, nulla è finzione.

    Urla e fiamme.

    L’adrenalina incendia le sinapsi, ma le mappe della sua memoria rimangono sommerse da un vuoto liquido. A ogni piccola scoperta, è come se quel liquido facesse da conduttore per un nuovo contatto che, come un cuneo rovente, va a unire trasversalmente le tempie. Per il momento i suoi tentativi disperati di ricostruire l’accaduto non stanno portando a nulla; rimangono solo tenebre interrotte qua e là da guizzi di un confuso chiaroscuro.

    Altri suoni si aggiungono. Sirene gridano stonate nella notte, pare si avvicinino a tutta velocità. Intravede appena un rapido lampo di luce bianca fra lei e le fiamme lontane. Scompare, portandosi dietro anche il suono.

    Dove vanno? Perché non si fermano?

    Urla, fiamme, sirene.

    Una nuova saetta le attraversa il cervello. Per la prima volta emergono immagini scomposte, frammenti di istantanee confuse e scollegate tra loro, che Sandra non riesce a trattenere che per pochissimi attimi: ascensori in movimento, numerose persone attorno a lei, la sua immagine riflessa in un grande specchio, valigie sparse. Trascinano con sé un pacchetto di emozioni, troppo intense per non appartenere a un recente vissuto. Una elettrizzante sensazione di libertà, di gratitudine, profumi, colori. La pellicola del film si srotola ora velocissima e le immagini prendono a scorrere in sequenze logiche; l’ordine si ricompone e con esso le spirali che la risucchiano verso il luogo dove tutto ha avuto inizio.

    Improvvisa, la luce sul palcoscenico. Il Grand Hyatt Hotel di Amman! Il convegno scientifico internazionale, l’arrivo in albergo, la tavolata con i colleghi. Una brusca interruzione. Dovuta a cosa, non lo ricorda. Forse in quell’interruzione si trova tutto il significato della situazione in cui sta annaspando.

    Cosa era successo?

    Dolore! Il dolore oltre la soglia della tollerabilità, specie alla testa e alla gamba, le impone con urgenza un cambio di posizione. Ha paura, ma è costretta a rinunciare al progetto di immobilità; lo fa pianissimo, tentando di estrarre l’arto ferito dalla morsa, ma una lancia di fuoco le scuote il corpo, facendole sfuggire un gemito. Sarà impossibile spostarsi senza aiuto.

    È un medico, e il non poter controllare la gamba le fa temere la presenza di fratture. Si guarda attorno furtiva, per assicurarsi che nessuno la osservi; con estrema cautela si piega su un fianco per spostare il baricentro e trovare la forza per muovere di qualche centimetro le gambe. Cerca di arrivare a esplorare il punto dolorante, con un movimento tanto incerto e faticoso da sembrare interminabile. Trova i jeans bagnati, gelidi, e ritira spaventata la mano.

    È nel brusco movimento di rientro che urta con il gomito qualcosa di molto vicino a sé. Anzi, qualcuno. Da lì dietro si alza un lamento gutturale, sommesso, che si prolunga in singulti di pianto trattenuto. Tutta la tristezza del mondo pare si raccolga in quel corpo rannicchiato. Quel pianto alza del tutto il sipario e la nuda sequenza dei fatti scorre ora in modo chiaro nella sua mente, la pellicola rallenta, diventa interpretabile e, nell’attuale ritmo, spaventosa. Ciò che affluisce alla sua memoria le fa salire un fiotto di saliva in bocca, guida con intensa compassione la mano rimasta a mezz’aria a cercare la ragazza al suo fianco, la sfiora con delicatezza e i singhiozzi si fermano un poco.

    Con enorme difficoltà Sandra impone al proprio corpo un movimento di torsione verso di lei, e nel pauroso vuoto nero di quell’angolo desolato di strada si apre improvviso il chiarore di due grandi occhi che pare la riconoscano. Sì, perché la giovane si avvicina ancora di più al suo fianco, come cercando di sottrarsi a qualcosa di troppo grande per potervi resistere da sola. Può riprendere a respirare ora e le riaffida il suo pianto da bambina.

    Sandra la abbraccia, la mente sgombra di domande.

    I

    Il Grand Hyatt era un hotel da Mille e una Notte, forse il più elegante che Sandra avesse mai visto. Prima della partenza per Amman, aveva letto in rete che era la sede usata dal Re di Giordania quando sostava da quelle parti, un ulteriore stimolo per la sua insaziabile curiosità. Si presentava come un’occasione eccitante, anche perché non avrebbe potuto permettersi un soggiorno di tale prestigio.

    La comitiva di medici era giunta ad Amman con un volo diretto dall’aeroporto di Milano. Il percorso dall’aeroporto alla zona alberghiera, dove si sarebbero tenuti i lavori congressuali, era avvenuto in pullman, lungo un percorso piacevole e tranquillo, lontano dal traffico del centro. L’ultimo tratto scorreva lungo un ampio viale, verso un’altura su cui sorgevano gli alberghi di lusso. Mentre salivano, la città a valle appariva splendida, con i suoi minareti dorati dall’ultimo sole, sullo sfondo dell’orizzonte crepuscolare. La Giordania si stava presentando ai loro occhi con una superficie irregolare e a dislivelli, con ampie e curate zone verdi. Il paesaggio era sorprendente, in particolare per Sandra, abituata alle zone desertiche del Medio Oriente, aride nudità in cui l’occhio è distratto solo dal confuso roteare dei cespugli strappati dal vento, come meteore spinose impazzite. Quella era davvero un’eccezione al quadro abituale.

    Ogni volta che credevano d’avere raggiunto il loro hotel rimanevano delusi, perché il mezzo proseguiva il suo cammino. Era il terzo lungo l’ampio viale che si snodava fra lievi pendenze e l’emozione nel riconoscere quella che sarebbe stata la loro residenza per tre giorni era stata davvero forte. Dominava sugli altri dalla collina, e non era solo la sua posizione a renderlo privilegiato. Era il più maestoso di tutti ed era incantevole.

    C’era stato un discreto ritardo nei voli e avevano poco più di un’ora per prendere possesso delle camere e prepararsi per la cena, che si sarebbe tenuta alle 20:30 in una piccola sala ristorante affacciata sulla hall dell’albergo.

    Sandra era l’unica nel gruppo a essere rallentata da un certo numero di bagagli, nonostante vi fosse sempre qualche anima gentile pronta ad aiutarla. Il suo carico non era dovuto a esigenze di vanità femminile, come qualcuno avrebbe potuto pensare osservando la classe che la distingueva. Il motivo reale era il protrarsi del suo viaggio oltre i quattro giorni di convention in Giordania. Aveva già il volo di trasferimento prenotato e il visto di ingresso per la Siria, dove avrebbe soggiornato per una settimana ricca di impegni. Un viaggio denso, ben diverso da quello ameno dei suoi colleghi, attratti più dalla curiosità per un paese sconosciuto e dall’occasione di visitarlo in regime di sicurezza, che dall’evento scientifico in sé. Al giorno d’oggi non è necessario fare tanta strada per essere scientificamente aggiornati.

    In lei si univano il senso di responsabilità per l’impegno professionale che l’avrebbe vista partecipe come docente in Giordania – l’invito l’aveva lusingata, ma le metteva anche un po’ d’ansia, specie per l’obbligata esposizione in lingua inglese – e le forti emozioni affettive che l’attendevano in Siria, facendola fremere al contempo di apprensione e nostalgia.

    La Siria aveva un grande ruolo nella sua vita, tale che lei lo considerava la sua seconda patria. Una terra di incredibili ricchezze, sociali, storiche e culturali. La priorità assoluta del programma itinerante era rivedere gli amici conosciuti molti anni prima, nel centro sanitario di primo soccorso in mezzo al nulla della steppa, a nord del grande Eufrate. Lì aveva condotto la sua prima fortunata esperienza come medico volontario.

    Giovane dottoressa in terra straniera, aveva saputo farsi ascoltare dalla gente del luogo nel suo tentativo di limitare le continue e sfiancanti gravidanze delle donne-bambine, presentando pragmatiche motivazioni di scienza medica ed economia socio-familiare a cui era difficile controbattere. L’insegnamento del metodo di Ogino-Knaus e i chiarimenti sulla riduzione della fertilità durante la fase di allattamento, erano risultati decisivi. Non avrebbe mai dimenticato gli occhi attentissimi delle giovanissime donne durante quegli incontri, per nulla turbate dai suoi chiari discorsi sul sesso. La sua dedizione al problema era così appassionata e competente da far spesso dimenticare al pubblico maschile di trovarsi di fronte a una donna. Spesso, non sempre. Nei confronti degli anziani dei villaggi era necessaria una perseveranza di intenti che a volte Sandra, sfinita, smarriva. Eppure erano risultate armi sufficienti per un contenuto controllo delle nascite, senza eccessivo rischio di far insorgere la popolazione maschile.

    Sempre lì aveva conosciuto Cesare, colui che sarebbe diventato suo marito e il padre dei suoi figli. Di vent’anni più anziano di lei, era come se facesse parte da sempre di quei luoghi, tanto quella filosofia di vita gli si confaceva. Lo smisurato amore che nutriva per il Medio Oriente aveva ingigantito ai suoi occhi il fascino dell’uomo, la cui semplice presenza rappresentava una garanzia per una lettura privilegiata delle differenze che incontrava, ricche di significati profondi, difficilmente comprensibili da sola.

    Certo, la parola semplice, riferita a lui, era un modo di dire: il suo sguardo e i suoi protratti silenzi erano il simbolo stesso della sua forza carismatica. L’attesa della sua parola, densa e conclusiva, poteva durare interi minuti, durante i quali nessuno perdeva di vista il suo viso concentrato. Nessuna arroganza in lui, solo una gradevole autorevolezza.

    L’amore tra loro era iniziato adagio, al passo con il ritmo con cui scorre il tempo in quei luoghi. Un amore ponderato, maturo. Fino ad allora Sandra aveva conosciuto l’amore nelle sue forme travolgenti. Quello che Cesare le donava non era fatto di brividi, assomigliava più a una calda coperta in cui avvolgersi quando si è molto stanchi, a una tazza di cioccolata calda quando si ha freddo e fame, a un porto sicuro durante una burrasca. Era un nutrimento dell’anima, a cui era arrivato accarezzando con dolcezza la superficie. Di quella linfa vitale non aveva più potuto fare a meno. La nascita di forti e duraturi rapporti affettivi aveva poi suggellato il legame con quella terra. Legame che non aveva perduto la sua forza nemmeno con la prematura scomparsa di Cesare.

    Nel suo piano di viaggio erano comprese alcune tappe di grande interesse storico. La prima sarebbe stata proprio lì, in Giordania. Petra, il gioiello storico-architetturale del paese per eccellenza. Molti anni prima, alla vigilia del suo ingresso nel paese, programmato da tempo, Sandra era stata colta da febbre improvvisa. Il marito si era rifiutato di compiere il viaggio senza di lei e alla fine non erano mai più riusciti a raggiungere il desiderato traguardo. Ora che era giunto il momento tanto atteso, lui non le era più accanto, eppure lo sentiva molto vicino. Per questo, in aereo, aveva impegnato tutto il tempo nella lettura della storia di Petra, pur sapendo che sarebbe stato opportuno dedicarsi alla relazione che avrebbe dovuto tenere il giorno dopo. Con Cesare lo avrebbe fatto; per loro l’approfondimento prima di ogni viaggio era una gradevole abitudine, che consentiva di assorbire significati e suggestioni di ciò che avrebbero visto e toccato con mano.

    La seconda tappa era in Siria, Palmyra, l’attuale Tàdmor, a cui non avrebbe rinunciato per nulla al mondo. Atterrando nell’aeroporto di Damasco, la "Hadiqat al-yasimin" (il giardino dei gelsomini) del Medio Oriente, non avrebbe potuto esimersi da un rapido saluto alla meravigliosa città. L’avrebbe celebrata attraverso una visita al Suq al-Hamadiyyeh, il più grande mercato coperto del mondo, dalle altissime volte d’acciaio scuro, e alla moschea degli Omayyadi, splendido gioiello d’architettura senza tempo, che compare quando meno te lo aspetti sul confine del mercato, abbagliando gli occhi di bellezza e riflessi solari, dopo tanta penombra.

    Sandra sapeva che contenere il tempo della visita in luoghi il cui fascino è tale da calamitare per ore anche chi le ha viste cento volte, sarebbe stata una vera sfida. Ancor di più, non poter visitare tutto ciò che di magnifico Damasco offriva. Si sarebbe consolata percorrendo poi le viuzze interne che portavano al suo ristorante preferito, sfiorando i giardini nascosti, inebriandosi dei loro profumi d’arancio e gelsomino. In quel locale una donna sola, specie se straniera, non poteva entrare senza il rischio di essere messa al rogo da occhiate di bruciante curiosità, in parte forse di invidia. Si sarebbe seduta al secondo piano, per continuare a godere, attraverso la grande vetrata, della vista sulla movimentata città, mangiando malfuf (involtini di foglie di vite) e mehsci (verdure ripiene di riso e carne). Una birra, una fumatina di narghilè, e poi via, verso la steppa.

    E dopo trecento chilometri di arida steppa, sarebbe apparsa Palmyra, unica nel suo splendore! Con un po’ di fortuna ci sarebbe arrivata al tramonto, per ammirare i templi dell’antico regno dell’Impero Romano nel momento in cui l’arancio dorato vira verso il viola, attraversandone tutte le sfumature nel giro di qualche minuto, lasciando chiunque senza fiato.

    Quei pensieri le facevano luccicare gli occhi.

    Le sue valigie strabordavano di doni e farmaci, per i quali aveva rinunciato a mille altre cose che avrebbe voluto portare con sé. Sapeva bene quanti e quali bisogni avesse la gente che andava a visitare, e il pensiero di portar loro dei sorrisi e rientrare nei loro cuori le procurava felicità. Il pensiero degli scorpioni che si infilavano rapidissimi sotto ai giacigli, un po’ meno. A forza di insegnamenti dispensati dagli anziani, con grande divertimento di grandi e piccini davanti ai suoi occhi sbarrati dal terrore, aveva però imparato a difendersi con maggior disinvoltura da quel pericolo.

    Quei momenti e quelle emozioni erano inchiodati nella sua memoria. Per tutto questo e per l’originale invito a visitare Amman in veste professionale, era eccitata come una bambina, nonostante nel suo cuore non vi fossero solo luci e colori.

    Alcune zone d’ombra lo offuscavano.

    II

    Le pareva di aver pianificato e previsto tutto, nella complessità dei problemi che si era lasciata alle spalle, e si sentiva tranquilla sull’indipendenza dei due figli per una decina di giorni. Questo era il pensiero più confortante.

    Non altrettanto poteva dire di quello che da certi punti di vista avvertiva, specie negli ultimi tempi, come un altro figlio, quello problematico. In realtà, il suo ruolo era in naturale contrapposizione con loro. Giacomo, il suo attuale compagno. Giovane. Troppo giovane. I timori che la differenza d’età le aveva suggerito fin dall’inizio della loro storia erano stati a lungo soverchiati dall’intensità della passione ma, nel tempo, si erano rivelati fondati. Agli occhi di chi la conosceva risultava evidente che qualcosa stesse alterando il suo stato d’animo. Era spesso deconcentrata e facilmente irritabile, e i suoi movimenti nervosi tradivano una vivacità compressa. Non era da lei. Sandra era una donna energica, solida, in perfetto equilibrio fra il bisogno d’amore e una strenua difesa della sua indipendenza, fra espressioni di femminilità e forti ruoli decisionali. I grandi occhi dal taglio allungato, la cui magnetica iride verde era punteggiata di macchioline scure, la rendevano bella, nonostante gli zigomi marcati, le labbra piuttosto sottili e un viso non proprio regolare, spruzzato qua e là di efelidi. Da qualche tempo qualcosa toglieva luce a quegli occhi e anch’essi, come il suo corpo, si muovevano con nervosismo. Esprimevano una silenziosa ricerca di vie di fuga. La sua armonia era rimasta da qualche parte lì fuori, mentre la sua relazione amorosa si era trasformata in una prigione.

    Una lunga telefonata dall’Italia, una delle tante di Giacomo, era giunta nel momento in cui entrava nella camera d’albergo. Sandra aveva risposto, le spalle appoggiate alla porta, lo sguardo rapito dalla gonfia nuvola di seta color ambra che faceva sembrare enorme il letto al centro della stanza. Eleganti, lucidi cuscini dai colori chiari erano distribuiti con eleganza sui tappeti persiani e sulle poltrone. Un accogliente salottino vicino al balcone, con poltroncine e soffici poggiapiedi, era illuminato in modo soffuso con lampade a stelo. Vi erano ben due bagni degni di un re (appunto!), color seppia e oro, al centro di uno dei quali troneggiava un’ampia vasca circolare con idromassaggio. Le pareti in vetro, coperte in parte da ricche tende in satin chiaro, trasportavano l’ambiente in una accattivante dimensione di vedo-non vedo. Il tutto era una sapiente combinazione tra la ricca ospitalità orientale e la raffinata eleganza occidentale. Sperava che le maniglie delle porte non fossero rivestite d’oro, come poteva sembrare; sarebbe stato un vero affronto alla povertà e Sandra conosceva la passione degli arabi per lo sfarzo.

    Aveva appena sfiorato il letto con un dito, lasciandovi un’impronta puntiforme, come avrebbe fatto un bambino, perché progettava di buttarcisi sopra con un balzo. Un pensiero infantile che davvero ci voleva per alleggerire il peso di quella telefonata.

    Giacomo.

    Non era mai stata capace di chiudergli il telefono in faccia, anche quando se lo meritava, ma quella volta avrebbe dovuto farlo sul serio. In slip e camicetta di seta, i bagagli aperti in disordine sulla moquette, lo supplicava di lasciarla andare – era già in forte ritardo -, provocando in lui frasi taglienti, nutrite da una irrazionale gelosia. Uno dei principali motivi della loro crisi.

    Con il telefono ancora all’orecchio, si era osservata allo specchio.

    La sua immagine riflessa le suggeriva che, oltre a vestirsi, avrebbe dovuto dedicare del tempo anche alla chioma ribelle. A quel pensiero un po’ frivolo faceva però da sottofondo un’angoscia che pareva senza fine e i suoi occhi, per metà coperti dagli scomposti riccioli vermigli, esprimevano tutta la tristezza che la consapevolezza comportava. Era egoista a pensare che almeno lì, in quella situazione, avesse diritto a essere lasciata in pace? Forse sì. E questo aumentava il vago senso di colpa che la accompagnava da quando aveva accettato la proposta di viaggio che l’avrebbe allontanata da lui in un periodo così difficile. Le lunghe gambe la portavano avanti e indietro nella camera, alla ricerca della pazienza necessaria per sopportarlo ancora, senza dare in escandescenze. Non ne poteva più di quella situazione. Si sentiva un animale in gabbia, ostaggio di un amore che da sempre si trascinava appresso qualcosa di morboso. Nei primi tempi aveva giustificato quel lato misterioso del loro rapporto con l’eccessiva differenza d’età, che in fin dei conti lo movimentava in modo singolare. I contrasti che ne derivavano potevano risultare meravigliosi e tremendi al tempo stesso, arrivando a sfociare in situazioni eccessive. E anche gli eccessi, proprio come la noia, possono portare alla fine di una storia.

    Era accaduto altre volte che il temperamento geloso di Giacomo generasse momenti di imbarazzo, anche in situazioni professionali. Ora le sarebbe stato difficile giustificare un così forte ritardo a cena.

    Come quella volta a Trieste, mentre con tre colleghi tornava in auto verso l’albergo, alla fine di una giornata di lavori congressuali. Era già passata la mezzanotte, la cena era stata abbondante e si erano appena ripromessi di chiedere un digestivo in albergo, prima di andare a dormire. Ancora sulla strada, lo aveva riconosciuto davanti all’ingresso, illuminato dalle luci dietro e sopra di lui: alto, ben piantato, fascinoso. Incazzato, anche. A quella visione, un lamento le era sfuggito di bocca, sollevando la curiosità dei colleghi. Il suo passo deciso verso l’auto, con quell’espressione incerta che conosceva così bene, in bilico tra amore e gelosia,

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