Il frigorifero
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Leonardo Cocchieri è nato a Roma nel 1972. Ha passato i primi anni convinto di seguire le orme paterne in ambito architettonico. Per anni ha potuto ammirare il padre alle prese con immense tavole di carta lucida, con le piante delle strutture ospedaliere di mezza Italia. Risvegliato da questo sogno infantile, ha iniziato a cibarsi di razionalità e concretezza. Al momento si occupa di Qualità in un’azienda del settore della Difesa. Oggi, con qualche anno sulle spalle, più lucidità indotta dall’esperienza, può dirsi finalmente divertito nello scrivere.
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Il frigorifero - Leonardo Cocchieri
world..."
Capitolo 1
Una boccata d’aria aiuterà
Un altro giorno come quello e forse la bussola l’avrebbe persa davvero. Alzarsi la mattina, uscire per respirare a pieni polmoni distogliendo la mente dai quei pensieri che inspiegabilmente da tempo erano diventati la sua zavorra, gli sembrava il modo migliore per scuotersi e reagire.
E così, dopo avere rispettato con disciplina un rituale marziale, costellato di micro attività, dal quale sperava di ricavare un effetto rassicurante, aveva finalmente varcato il portone dell’antico e imponente palazzo di via Marcello Prestinari.
Era deciso a farsi scuotere dal contatto imprevedibile e spesso scioccante con il mondo e la giornata sembrava propizia.
Come mille altre giornate feriali, il trambusto del traffico, l’affanno degli indigeni per recarsi in luoghi inevitabilmente lontani da quelli di partenza, regalavano al quartiere quella frenesia talvolta letta come fervore dell’Economia.
Esattamente l’opposto di quanto accadeva nelle sonnecchianti giornate di festa quando, qualche palazzina edificata negli anni ‘60, i pini secolari sopravvissuti allo smog feriale e qualche siepe traboccante, regalavano ai dintorni le sembianze delle periferie residenziali prossime al mare.
Non aveva in mente un’idea precisa sulla destinazione da raggiungere, anzi, aveva pensato che non averne una avrebbe reso lo smarrimento che stava cercando, ancora più facile da realizzare.
Carlo, salutandolo dalla sua guardiola angusta e male illuminata, che ne faceva più che altro un esemplare in via di estinzione protetto da una teca ed esposto ciclicamente a scolaresche poco interessate, sembrava aver capito che quella era un’altra di quelle giornate in cui il nostro era partito in tromba cercando l’impossibile: sbloccare e riorganizzare l’inorganizzabile, la sua mente ingolfata.
Tutto, secondo la diagnosi veloce, tanto soddisfacente quanto fallibile che Andrea si era propinato, aveva avuto inizio da quando aveva deciso di cimentarsi con quel benedetto libro di fantascienza.
Il terreno e l’arma da usare in questo duello con se stesso, li aveva scelti proprio lui e questo in qualche modo rendeva il peso del suo stallo ancora più insopportabile. La fantascienza infatti era stata, secondo una logica razionale che davvero poco aveva a che fare con una fase creativa e auspicabilmente libera, una opzione considerata per non avere, in teoria, nessun tipo di vincolo storico, sociale o culturale nel suo sforzo creativo.
A conti fatti, era vero che non doveva preoccuparsi di verificare che ad esempio un soldato prussiano, nel bel mezzo di un conflitto mitteleuropeo che aveva indirettamente dato i natali alla realtà continentale in cui era immerso, potesse o meno aver utilizzato un certo tipo di moschetto. Quello che aveva sottovalutato però era che l’apparente libertà espressiva che quel tipo di narrativa sembrava garantirgli, gli avrebbe chiesto molto in cambio.
Nel momento stesso in cui aveva iniziato a concepire il suo mondo futuribile, il palcoscenico virtuale in cui far agire le sue creature secondo un canovaccio ancora poco chiaro, aveva capito che sì, in quel modo l’ispirazione non aveva briglie, ma nemmeno fonti da cui nascere e da cui periodicamente ricaricarsi.
Mondi evolutissimi dove viaggiavano astronavi ipertecnologiche, vivevano creature con sistemi immunitari upgradabili
come il software di un cellulare e in grado di sconfiggere facilmente qualunque malattia, sembravano diventare una costrizione claustrofobica, più che un’opportunità per galoppare in modo libero e creativo.
Carlo, al corrente delle sue difficoltà e del suo blocco creativo, così come del terreno di confronto che Andrea si era scelto, accoglieva ogni suo sfogo sul tema con l’abusatissima espressione romanesca che citava la pronipote del velocipede e la necessità di utilizzarla con vigore, dopo averla tanto voluta.
Pedalare sì, ma per andare dove?
Capitolo 2
dacci oggi la nostra telefonata quotidiana
La passeggiata, come da copione, non aveva sortito gli effetti desiderati. Si era ritrovato a casa, davanti alla tastiera inquisitrice, con alcune ore di ritardo sulla sua tabella di