Viaggio di una sconosciuta
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About this ebook
in cui sono nati ed entrare con disinvoltura nella contemporaneità, lo devono alla profonda e matura lingua che li incarna.
Con la prefazione di Giulia Caminito.
Completa il volume l’opera poetica omnia a cura di Maurizio Gregorini.
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Viaggio di una sconosciuta - Livia De Stefani
Biblioteca
5
Livia De Stefani
Viaggio di una sconosciuta
Prefazione di Giulia Caminito
e con una nota di Maurizio Gregorini
Titoli: Viaggio di una sconosciuta (1963); Poesie in diesis (2002).
Autrice: Livia De Stefani
Questo libro è pubblicato secondo accordi presi con i legali detentori dei diritti di pubblicazione.
Progetto grafico di Cristina Barone
Illustrazione di copertina di Riccardo Fabiani
www.riccardofabiani.com
isbn: 9788899729196
© 2018 Cliquot edizioni s.r.l.
via dei Ramni, 26 – 00185 Roma
P.Iva 14791841001
www.cliquot.it
cliquot@cliquot.it
Prefazione
Livia De Stefani è stata una grande scrittrice, a rileggerla oggi si rimane colpiti dalla sua modernità perfettamente adatta a chi ha cambiato secolo, dalla sua lingua, dalle ossessioni che riesce a raccontare, la maniera in cui tratta i temi più scabrosi, le più assurde fisime, i crucci, le cattive abitudini umane.
Di lei purtroppo la maggioranza delle lettrici e dei lettori sa molto poco, pur essendo stata animatrice del dibattito e della vita culturale romana degli anni Cinquanta e Sessanta, insieme a personalità come Savinio, Brancati, Maria Bellonci e Elsa Morante.
Anche per De Stefani è successo quello che è toccato in sorte a molte delle donne scrittrici di quegli anni, sono state poco valorizzate dalle pubblicazioni nel corso degli anni, nonostante la loro indubbia qualità di scrittura e se ne sono perse le tracce.
Molto amata dalle studiose e gli studiosi, Livia De Stefani è una personalità preziosa, una penna innovativa, che è importante riportare in libreria e riproporre alle nuove generazioni.
La scrittrice nasce poco prima dello scoppio della Grande guerra, nel 1913, in Sicilia, la sua è una famiglia agiata che possiede molte terre, e gli scritti di Livia saranno costellati da questo rapporto con il territorio, le tradizioni, le superstizioni siciliane.
Da La Vigna delle uve nere, suo primo romanzo, il più celebre, scritto a quarant’anni, quando già viveva a Roma da molto tempo insieme al marito Renato Signorini, fino a La mafia alle mie spalle, il suo ultimo, il diario della lotta contro la mafia che voleva appropriarsi delle sue eredità terriere, si può trovare qualcosa della Sicilia in quasi ogni sua pagina. Come una sottotraccia, la mentalità, la gente, i sapori e i colori di quelle terre rimangono e vengono raccontati ferocemente e senza sconti.
Ma De Stefani è anche una scrittrice eccellente di racconti, due esempi molto vividi sono quelli de Gli affatturati (1955) e la raccolta qui ripubblicata, cioè Viaggio di una sconosciuta (1963).
Nel primo, tre racconti sulle fissazioni che arrivano a diventare malattia, come fatture lanciate da una donna antica o da un uomo malvagio. Dalla pulizia della casa fino all’amore non corrisposto, ogni personaggio è il portatore di un malessere tipicamente borghese, quello della fisima e della pantomima, dell’introiezione di ogni dolore, che non vede oltre il proprio palmo e si fa stregare dalle proprie convinzioni malsane.
Nel secondo, questo filone, quello dei fantasmi psicologici e le manie di persecuzione, è ancora presente, ogni personaggio maschile o femminile ha in sé un segreto, un’oscurità, che viene messa in mostra. La scrittrice apre le porte delle case per far vedere cosa si nasconde nelle famiglie, nei matrimoni, nelle valigie, e negli armadi, oltre i muri e dentro ai tendoni del circo.
All’interno del racconto che dà il titolo alla raccolta, che è quello in realtà scritto più tardi rispetto agli altri, nel 1962, una donna si aggira affannata per Roma, il caldo torrido la stanca, porta con sé una valigia dal terribile contenuto e se ne deve liberare, ma non sa come e non sa quando, la città sembra non darle tregua, né sui mezzi pubblici, né nelle vie, c’è sempre qualcosa o qualcuno che disturba il suo girovagare, fino all’incontro con un uomo anziano vestito di marrone che arriva a importunarla, leggendo male uno scambio di sguardi tra loro.
Il vagabondare della donna è appunto il viaggio di una persona qualunque, per il lettore una sconosciuta, ma anche per sé stessa, nel turbinio di ricordi dolorosi e di un presente atroce che non sembra avere una via di fuga.
Roma è famelica, bollente e appiccicosa, frastornante, mette addosso alla protagonista ansia e confusione, la fa vagare senza meta, la rende passante costretta e non le dà tregua, è sensoriale e angusto il suo peregrinare.
Tutto il racconto si può leggere come la parabola di una violenza, quella sulle donne, incastrate nei loro ruoli di mogli o di amanti, prese in giro dalla società maschile, inseguite per le vie con false promesse di gentilezza e doppi fini sessuali e goliardie, imprigionate nel loro futuro di madri piene di rimpianti e scelleratezze. Una violenza che qui non è mai fisica, ma è mentale in primo luogo e questo rende il racconto attualissimo e da rileggere oggi con molta attenzione.
Altro pregio: la scrittura.
Articolata e sperimentale, piena di numerosi cambi di persona, dalla prima alla terza, anche nella stessa frase, vengono introdotti liberamente pensieri e flashback della protagonista, alcune parole e immagini tornano ossessivamente nel corso della narrazione spuntando anche quando non evocate direttamente, i dialoghi e i ricordi viaggiano sullo stesso piano narrativo del presente in cui si svolgono le azioni. Tempo e spazio sono fluidi e scorrono come attraverso vasi comunicanti, spostando di continuo la linearità della lettura. In questo modo modernissimo viene evocata la vita di una donna come se fosse un mosaico, tassello dopo tassello si compone l’immagine di quello che lei ha vissuto e perché.
Anche in questo caso: una lettura necessaria per ripensare allo stile contemporaneo e all’utilizzo della lingua nelle scrittrici del presente, l’eredità delle grandi del Novecento come è stata recepita, chi ne ha preso ispirazione. De Stefani ha una capacità di usare la lingua e le immagini che ogni nuovo autore o autrice dovrebbe sempre tenere presente.
La seconda parte della raccolta invece mette insieme una serie di racconti scritti alcuni anni prima tra il 1955 e il 1958, in questi troviamo una carrellata di personaggi incredibili come una donna ossessionata dagli averi del marito defunto che controlla maniacalmente armata di rivoltella, una sartina che si cruccia del suo amore immaginario ormai perduto, un uomo ricco che durante una seduta spiritica viene contattato da Giuseppe Verdi, e i viaggiatori di un inquieto giro in autobus tra nausee, spintoni e inciviltà.
Questi ritratti sono sì impietosi, ma mai appiattiti sulla crudezza e questo grazie all’uso molto acuto dell’ironia. Infatti il vocabolario alto, a volte pomposo, serve proprio a mettere a ridicolo e sottolineare la drammatica assurdità delle misere vicende dei protagonisti.
Tutto il libro permette di leggere i vari registri dell’autrice e di percepire come la sua sensibilità e il suo stile siano cambiati nel corso degli anni, anche se è rimasta sempre l’ottima capacità del ritmo e della centralità narrativa.
Questa raccolta, quindi, può essere un punto di partenza per conoscere meglio o conoscere per la prima volta un’autrice valida e piena di sorprese, che ha saputo raccontare mostruosità, menomazioni, cattiverie, sogni e tenerezze dell’Italia di quegli anni, ma anche, a ben leggere, del presente.
Giulia Caminito
Livia De Stefani
Viaggio di una sconosciuta
Parte prima
(1962)
Viaggio di una sconosciuta
Ad A.B.
Su per la salita dell’Acqua Acetosa la valigetta si fece pesante. La passò nell’altra mano, con grande cautela. Agostino, l’avrei chiamato Agostino. Agostino Amirru dice che i nati d’agosto sono leoni. Ma lui ha la faccia di cavallo, lunga lunga, i dentoni gialli. E il cuore di cane. Quella volta che gli rubai un ficodindia dalla cesta abbandonata sullo stradone, mi corse dietro, si prese il ficodindia e me lo strofinò sulle labbra, piantandoci tutte le spine. Che caldo.
Due garzoni con le parannanze, lassù, davanti alla trattoria del Pescatore. Guardavano verso il fondo della strada, i pugni sui fianchi. Temette che aspettassero proprio lei e l’ombra delle acacie si rizzò sull’asfalto, prese a ballarle intorno, dietro vi avanzavano e vi retrocedevano i garzoni, tic, tac, con movimento di pendoli. Com’era accaduto poco prima, presso il fiume, quando stava per farvi scivolare la valigetta. Giù dal dorso melmoso dell’argine, morbido, nemmeno una pietra. Ed era apparsa gente, sulla scarpata. Il nero triangolo del Soratte, tic, tac, aveva fatto allo stesso modo là lontano, dove s’alzava tutto quell’irrefrenabile chiarore dell’alba. Perché, perché, s’era notte.
Aveva avuto paura d’essere riconosciuta dai due che scendevano attraverso il canneto: La sardegnola, la donna dei Targiani, all’ultimo piano di via San Valentino
. I due si fermarono nel punto dove il fiume faceva un’ansa. Lei aveva tagliato per un sentierino, prima scivoloso, poi tutto polvere. Ed era sbucata infine sulla strada asfaltata. Una bicicletta, montata da un uomo che si fa correre a fianco un grosso cane ansimante. Si era voltata per guardare se il cane correva appresso alla bicicletta per il suo piacere, o perché lo costringeva il guinzaglio. Non poté capirlo. A causa di quel velo, come di sonno, che le appannava la vista; da quando, staccatasi dal bimbo con quel morso al cordone che lo congiungeva ancora ai suoi visceri, si era alzata per sistemare la stanza alla svelta, prima che venisse giorno. Tutto quel sangue, nel letto e in terra. Si partorisce così. Le donne, le pecore, le cavalle, tutte in un modo. Aveva visto nascere tanti agnelli, e puledri; e Giovannino, il figlio di mia sorella Lucia. Tanto sangue. Non è questo il male. Il male era passato: quegli ultimi mesi trascorsi nella strettoia del busto, perché i padroni e il resto della gente non si accorgessero di nulla. Faticando come al solito; anzi, di più. Per scacciare i sospetti, se mai ci fossero stati; e irrobustita, si capisce, il buon vitto e un anno di più, diciotto ormai. Irrobustita e non ingrassata, come poteva apparire a voi, gente di città, che non dà merito alla forza, anzi non mangia pane e pasta per mantenersi debole, senza sangue. Le donne, le pecore, le cavalle.
I garzoni non aspettavano lei. Aspettavano il lattaio, che arrivava in bicicletta, dalla curva sul viale Parioli, con un gran tintinnio di bottiglie dagli scompartimenti del cesto di lamiera. Indugiavano, nello sfilarle dai graticci; perché la ragazza non era ancora arrivata a tiro, volevano studiarsela. Benché non fosse niente di speciale, e in più strascicava i passi, come una vecchia obesa; ma forse soltanto per via di quel fango impastato di fili d’erba che l’era rimasto ingommato ai piedi. Tuttavia, bella o brutta, era pur sempre una ragazza; una rarità, a quell’ora. Lei passò, aveva la camicetta scura di sudore sotto le ascelle e lungo il filo della schiena. Un garzone disse:
«A’ mora, quello ch’hai pescato giù ar fiume, che d’era, un elefante?».
Jumbo, l’elefante Jumbo, che ubbidisce agli ordini. Alberto gli mostra la carota, e poi comanda: Jumbo, in ginocchio! L’elefante piega quelle due colonne di zampe, ci casca sopra come un masso, poi si alza e allunga la proboscide in cerca della carota. Il signore coi guanti, chi ce lo immischia. Disse: l’elefante è il gigante della foresta, non si può buttarlo in ginocchio, per una carota. Disse: quel colosso, per un fantasma di carota. Oddio che ridere, Alberto sbarra gli occhi sulla carota, finge che gli fa spavento, l’indicava, a me e agli altri, col dito tremante, balbettando: mamma mia, il fantasma, il fantasma! Il signore coi guanti lo minaccia col bastoncino, e Alberto fa finta che la carota vuole scappare, finalmente l’acciuffa con l’altra mano, dice: stia a vedere, ci dà un morso, se lo mastica facendo smorfie di meraviglia, dice: il fantasma di su’ nonno, eccellenza.
Dai primi platani del viale Parioli s’alzò con un gran crepitio una folata d’uccelletti. L’ombra del fogliame smosso sparse sul marciapiede una visione di vento. Si addossò al primo tronco e guardò in alto, nel verde. Le foglie conservavano l’eco di quel crepitio che s’era perso nell’aria: uno stormire come di frange di aquilone. Ai ragazzini sì, manco l’aquilone avesse avuto il motorino e il volante, l’aquilone s’alza svelto sulla tramontana, gira al largo delle cime dei pioppi e poi sale, un’impennata dietro l’altra, sale, sale, che non si vede più il filo, e la coda diventa un ciuffetto. I ragazzini sì, e lui no, non ci riesce. Che ci guadagni, Alberto, a bestemmiare la Madonna. Azzurro, con la coda bianca e rossa. Dà due o tre sgropponate, fa un volo fiacco, fiacco e pesante; e poi ricade sul prato, il prato di Grottarossa. C’era il sole, ma faceva freddo, cade con un grande scroscio di carta. Disse che la colpa era mia, che gli facevo il malocchio guardandolo in quel modo, che non so com’era, perché diventava così, se io in quel momento pregavo dentro di me san Michele arcangelo di spingergli l’aquilone in alto, più in alto di tutti.
Il