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Storie di draghi e di Sembrò
Storie di draghi e di Sembrò
Storie di draghi e di Sembrò
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Storie di draghi e di Sembrò

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Fantasy - romanzo (129 pagine) - Essere ragazzi, a cavallo fra gli anni ’60 e gli anni ’70. La storia di un amore giovanile che si svolge in un piccolo paese ligure-piemontese, nella cornice incantata della “grande” storia...


Questa è una storia di anni ’60, ormai favolosi, come la giovinezza di allora. E così, nel sogno e nel ricordo, essi si animano di draghi antichissimi e di draghi molto più moderni, ovviamente più piccoli del drago primitivo perché, nel mondo di oggi, c’è meno posto per loro… Eppure, essi esistono, nascosti in un tempio sotterraneo, e accompagnano nelle loro vicende streghe e stregoni, satanisti e patrioti risorgimentali, e per ultimi dei giovani ragazzi alle prese con la scoperta di un passato favoloso, di sé stessi, e dell’amore.


Laila Cresta, 42 anni di scuola e una passione per l’italiano e per la scrittura, ha pubblicato gialli di ambiente genovese e ligure, saggi sull’educazione, sulla poesia e sugli haiku, sillogi di poesia premiate in concorsi prestigiosi. È l’autrice del best-seller La grammatica fondamentale (Delos Digital).

LanguageItaliano
PublisherDelos Digital
Release dateJun 19, 2018
ISBN9788825406290
Storie di draghi e di Sembrò

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    Storie di draghi e di Sembrò - Laila Cresta

    9788825404272

    Una dedica e una specie di prefazione

    Anni '60, così lontani, così vicini

    Dedico questo libro (essenzialmente autobiografico) ai miei cugini Sembrò, Arquatesi e Rigorosini, e ai miei amici di ragazzina, ma anche a tutto Vocemola. In particolare, lo dedico a Rosetta cugina di papà, e a Carmelino, straordinario coreografo della mia compagnia. Il nome Gantelm lo devo a quell’erudito che è mio figlio, mentre il nome Marina è un omaggio a qualcuno che non c’è più.

    Questa è una storia estiva, e non ha niente di impegnato, anche se siamo agli albori del ‘68. I personaggi sono in gran parte reali: lo sono i componenti della famiglia della protagonista e quasi tutti i ragazzi. Oggi, sembrano alieni.

    Ogni generazione di giovani è unica, molto diversa da quelle che l’hanno preceduta e ancor più da quelle che la seguiranno, e io capisco comunque di avere avuto una prima giovinezza privilegiata: se la mia compagnia di Genova era composta di bravi ragazzi, cioè di studenti che si vedevano soprattutto per andare a scuola e al G.O.S. (Gruppi Organizzati Studenteschi), quella di Vocemola comprendeva addirittura solo amici d’infanzia, e spesso parenti. A quell’epoca, l’amicizia era considerata rara e preziosa (non c’erano ancora i social network…). E a Vocemola c’era.

    Vocemola (Usembra, il paese dei Sembrò), frazione di Arquata Scrivia, è uno strano paese contadino, con appena una striscia di terreno davvero buono, lungo il fiume. Lo Scrivia fa una grande ansa per tenere il paese separato dal mondo, lì, contro i bricchi liguri-piemontesi. Per questo, però, Vocemola potrebbe anche essere una straordinaria postazione difensiva e, secondo me, lo è stata davvero. Del resto, attorno all’anno 1000, era un avamposto militare anche Arquata, la cittadina dall’altra parte del fiume che è a cavallo di questa ansa, di questo arcus aquae.

    Ho studiato sul campo il nucleo più antico del paese, Castello, quando ancora era relativamente intatto. Ho studiato, ho riflettuto. Questo romanzo fantastorico è il frutto di questa ricerca, e dell’amore per il paese della nonna. La descrizione di Castello (com’era) è straordinariamente fedele. Anche la Polla delle Fate, l’acquaio del triskelion, l’Orto Nascosto, la Cappella della Vergine Immacolata, il Pozzo Sacro e il Forno, nel racconto sono esattamente quali apparivano nella mia prima giovinezza. Ed è fedele anche la descrizione della vecchia casa dei Da Ponta, con l’abeighin, l’armadio a muro e tutto il resto. La Tana del Drago invece è fantastica, ma anche storicamente caratterizzata, e Castello se la sarebbe meritata davvero.

    Laila Cresta

    Cap. I

    Stagno di pietra e di legno

    Alcune gocce di pioggia caddero su Marina che leggeva all’ombra di un cespuglio, ma lei non se ne dette per inteso: cos’era mai, un po’ d’acqua a luglio? Poi una goccia cadde anche sulle pagine che stava leggendo e la ragazza sbatté le palpebre, come risvegliata. Un senso d’urgenza la prese: eh, no, sul libro no! Oltre tutto non si trattava di un’edizione moderna facilmente sostituibile, ma di uno dei vecchi volumi che scovava dentro l’armadio che si nascondeva nello spessore inusitato di uno dei muri della Stanza Grande degli zii. Il libro era Il Generale Durakin, della Contessa de Ségur, un romanzo che rigurgita di buoni sentimenti peggio del libro Cuore, ma comunque un libro ben scritto come tutti quelli della Contessa e interessante proprio perché di ambientazione così vecchia: la seconda metà dell‘800.

    Ormai distratta dalla pioggia, Marina in quel momento avrebbe voluto correre a casa per mettersi al sicuro nella propria camera, in cima agli scalini consumati che portavano sotto il tetto della casetta della nonna: era una costruzione come l’avrebbe fatta un bambino, a piccole stanze impilate fino al terzo piano, proprio come una torre. Come a volte succede in estate, era però evidente che il temporale sarebbe diventato subito pazzo furioso, e allora i chicchi di grandine avrebbero certo dato all’aia un’aria invernale, rendendola bianca come di neve. Per rincasare, sarebbe senz’altro stato meglio non dover attraversare il tratturo che divideva Castello in tutta la sua lunghezza e che, in pendenza com’era, con una pioggia così aggressiva poteva anche diventare un fiume. Istintivamente, Marina decise dunque di fermarsi molto più vicino, dagli zii che abitavano sull’aia. Tra l’altro, doveva frugare di nuovo fra i vecchi libri della Stanza Grande: ormai il suo romanzo era praticamente finito, e le serviva un altro libro da leggere.

    Nella camera delle zie, nella stanza al piano superiore nella quale si entrava direttamente dalla scala esterna incassata nel muraglione, guardò appena le due vecchissime immagini a soggetto sacro che pendevano sui letti gemelli. Una delle due in realtà le piaceva molto, con i suoi angioletti piccoli e teneri che portavano Maria Bambina dentro una culla d’oro degna di una piccola principessa, ma sul letto vicino l’immagine era feroce: un uomo torturato e grondante sangue del quale aveva avuto molta paura da piccola, anche se era un Santo. A testa bassa, Marina si affrettò a entrare nella grandissima stanza adiacente a quella delle zie che, di fatto, era diventata con gli anni una specie di monumento ai vecchi Signori della prozia Paolina, una stanza da sbratto in cui era finito tutto ciò che loro non usavano più ma che avevano dato alla loro vecchia governante, non avendo il coraggio di buttarlo. Su un grandissimo cassettone di legno molto elaborato, fra i pizzi antichi dei centrini, c’era anche un cestino di vetro dai colori delicati, con graziosi uccellini che sostavano sul bordo come sul pozzo di Biancaneve nel film di Walt Disney, pensava Marina da piccola: lo adorava.

    L’armadio che era la sua meta era nascosto nel muro divisorio fra la Stanza Grande e quella delle zie. Era chiuso da due pesanti scuri che non si aprivano neppure bene, e non era facile frugare tra quegli scaffali. Da tempo, forse più di quanto non immaginassero gli abitanti della casa, nessuno cercava lì dentro qualcosa da prendere: semplicemente, vi infilavano a casaccio gli oggetti che per qualche motivo non volevano buttare.

    Per Marina, quell’armadio a muro si rivelava sempre come una specie di magico stagno i cui cerchi immobili si animassero vorticosi appena toccati, per regalarle sempre nuove sorprese. Adesso che la ragazza cercava un altro libro, ne vide quasi subito uno che apparteneva evidentemente alla stessa collana di quello che stava leggendo: aveva la stessa copertina telata di verde, adornata delle immagini un po’leziose di bambini ottocenteschi con i riccetti biondi e le maniche brevi orlate di pizzo.

    Non era facile prendere il volumetto, incastrato com’era fra altri libri e oggetti curiosi e, cercando di tirarlo a sé, Marina fece cadere un altro volume. Fece una smorfia dispiaciuta, ma prima di raccoglierlo diede un’occhiata a quello che aveva in mano. Eureka! Si trattava di La Locanda dell’Angelo Custode, in un’edizione del 1929, proprio il libro che la Contessa aveva scritto prima di quello che lei aveva quasi terminato di leggere. Contenta, la ragazza si chinò a prendere il volume caduto… No, era un finto-libro, notò subito. L’imitazione del tomo di pagine, resa con una serie di sottilissime strisce di bambù, era pregevole e originale, ma non poteva reggere a lungo l’inganno. Quel cofanetto era una cineseria, come si diceva un tempo: le pagode stampate sull’elegante copertina di seta ricordavano le leggiadre costruzioni contemporanee della sua Contessa che Marina aveva visto sul laghetto di villa Pallavicini, a Genova. Ma vie précieuse, La mia vita preziosa, dicevano le lettere d’oro del titolo. Probabilmente anche quel bellissimo oggetto era ottocentesco, nato per contenere dei gioiellini o delle lettere, si disse Marina.

    In quel momento la ragazza si accorse che l’acquazzone estivo era già terminato, così decise di tornare a casa, e di corsa, per osservare con calma i tesori che aveva pescato. Fu allora che notò su uno scaffale un altro volume, che fino a quel momento era stato nascosto dal finto-libro. La incuriosì perché pareva particolarmente vecchio: mancava della copertina frontale, purtroppo, e la costola pendeva tristemente, ma il frontespizio era disegnato come la facciata di un tempio. Lesse l’anno di stampa in numeri romani… MDL… 1587? Marina era affascinata. Come mai era finito lì dentro, un libro così antico? All’epoca di Paolina (e per molto tempo anche dopo) la Val d’Aosta, il Piemonte e la Liguria, zone di confine, avevano avuto una lingua piena di gallicismi, e una cultura che guardava Oltralpe: i libri della popolare Contessa De Ségur erano stati tradotti dal francese, e quel libro veniva direttamente dalla Francia. Sul frontespizio c’era scritto: Sur le Dieu Dragon, de Michel Du Semis, Abbé (Sul Dio Dragone, di Michel Du Semis, Abate).

    Ignara della catena di avvenimenti insoliti che quel gesto innocente avrebbe innescato, Marina strinse al petto le sue scoperte, passò velocemente attraverso la camera delle zie, uscì sul pianerottolo e si precipitò giù per le scale ripide, adesso fiocamente illuminate da un sole lucido e come nuovo che cercava di farsi strada nello spessore del muraglione, e che nonostante tutto riusciva appena a rendere agibile quel buio. Nell’aia, la ragazza lasciò il passo sorridendo alla chioccetta della zia, che in quella stagione era libera dai suoi impegni materni: i pulcini che la zia Albertina le dava da covare e da allevare (e nessun gatto mai era stato capace di rubargliene uno) parevano sempre singolarmente grandi, mentre era lei a essere piccola, un ibrido di gallinella americana.

    Arrivata in casa, Marina salì le scale fino alla propria camera. La scrivania-toeletta gliel’aveva fatta la mamma con un vecchio tavolino circondato dal tulle che nonno Mario aveva restaurato, ma lo specchio che vi pendeva sopra era stato degli zii, e le immagini vi apparivano come immerse in una nebbia spettrale. A Marina quello specchio piaceva davvero molto: a volte le sembrava che le storie che nascevano nella sua mente quando era sola, scaturissero proprio dal fantastico mondo di quella nebbia.

    Appoggiò davanti a sé i nuovi regali che la Stanza Grande le aveva appena fatto, poi si sedette. Passò velocemente la spazzola fra i capelli biondo scuro che la mamma non voleva lei lasciasse crescere troppo, e che in quel momento erano scomposti (ora capiva l’occhiataccia della nonna). Ristette un attimo indecisa, non sapendo da dove incominciare, ma poi finì per rivolgere la sua attenzione all’oggetto più originale fra tutti quelli di cui si era appena appropriata: il finto-libro. Frugando all’interno piena di curiosità, dopo aver spostato un libriccino che mise da parte come fanno i bambini con la ciliegina del pasticcino, vi trovò una preziosa collana di piastre d’oro tutte uguali: pensò potesse essere una di quelle che nel Rinascimento fungevano anche da scorta di danaro, oltre che da ornamento personale, perché ognuno degli elementi che la componevano valeva quanto l'unità di moneta corrente. Valore economico a parte, in realtà non era tanto bella esteticamente, si disse Marina, solo costosa e curiosa. Aveva visto una volta al collo di una signora, appeso a una lucente catena, grossa che pareva da buoi, un ciondolo d’oro molto grande, a forma di lingotto, e le aveva fatto la stessa impressione. Marina ammirò molto di più, e con più attenzione, la sua seconda scoperta: un medaglione d’argento massiccio dal quale un raffinato lavoro di cesello aveva fatto scaturire un imponente drago dalle ali dispiegate, con mille spire che ritornavano su sé stesse: quello sì, che era bello! Lo stesso drago lo trovò inciso anche nella corniola incastonata in un grande anello, anch’esso d’argento, che era senz’altro un sigillo per la ceralacca. Legato con un nastro di seta rossa, c’era infine l’oggetto che intrigò la ragazza più di tutto il

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