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Non vado di fretta
Non vado di fretta
Non vado di fretta
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Non vado di fretta

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About this ebook

Due ragazzi si incontrano, si innamorano. Ma fanno presto a scoprire l'amaro sapore del conflitto: l'attrazione si contrappone alla difficoltà di essere coppia, le affinità contrastano con le differenze. Un delicato romanzo di formazione in cui i due protagonisti procedono dai banchi di scuola alla maturità interrogandosi costantemente sul senso della vita, sul significato dell'amore e dell'amicizia, sull'importanza della libertà e della realizzazione personale. Gianluca e Francesca non sono personaggi, ma persone che impariamo ben presto a conoscere e che ci rammarichiamo di dover lasciare andare via in un finale ricco di speranza.

LanguageItaliano
Release dateJun 4, 2018
ISBN9781386656210
Non vado di fretta

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    Non vado di fretta - Valeria Venturi

    Non vado di fretta

    Valeria Venturi

    Non vado di fretta

    ©2018 Valeria Venturi

    Immagine copertina: rilasciata con licenza CC0 da Silvia & Frank / pixel2013 e pubblicata sul sito Pixabay.com - URL originale immagine: https://pixabay.com/it/uomo-donna-controversia-riflessivo-2933984/

    Foto originali della composizione:

    - https://pixabay.com/it/uomo-studio-ritratto-luce-di-1253004/

    - https://pixabay.com/it/fotografia-di-ritratto-profilo-657116/

    Prima edizione e-book: giugno 2018.

    Ultima modifica effettuata il: 18 luglio 2018.

    Realizzazione e-book a cura di Giovanni Venturi.

    Quest’opera è coperta da copyright, ne è vietata perciò la modifica, duplicazione, ripubblicazione, anche parziale, senza previa autorizzazione dell’autrice.

    Questo romanzo è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni presenti nel testo sono invenzioni dell’autrice. Qualsiasi analogia con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è da ritenersi puramente casuale.

    dedicato alle fondamenta

    della mia vita: Andrea,

    Samuele e mio marito Lino.

    PROLOGO

    22 giugno 2009

    È possibile liberarsi dei ricordi?

    Razionalmente sì. Sembra che appartengano a un passato lontano, apparentemente rimossi, ma vivono nel presente e arrivano nella mente e nel cuore in modo inaspettato, impetuoso, e al tempo stesso strisciante.

    Ma cosa fa rivivere il nostro passato?

    Un odore? Un suono? O un’immagine.

    Porto di Genova (Liguria)

    Gianluca

    Pioggia. Sta piovendo.

    Le fitte gocce d’acqua scendono giù in maniera copiosa, tuoni lontani e lampi dimostrano che il temporale non cesserà facilmente e ho la sensazione di un lavacro purificatore che rigenera tutto, persino l’animo umano, un comunicato d’addio, una tristezza che il cielo condivide con me.

    Vado a ritroso a molti anni fa. Troppi anni fa.

    Esco per fare quattro passi e allora ti vedo…

    Piove ancora.

    I ricordi diventano vividi e ti ritrovo seduta in terra con le gambe incrociate mentre canticchi, deponendo la barchetta in una pozzanghera, frutto della pioggia notturna, un guscio di cocco in cui ingegnosamente hai incollato una bandierina. Fai finta di vogare, azionando remi che non sono altro che esili bastoncini di legno.

    Nel cortile, durante le ore prefissate da un severo regolamento condominiale, discretamente te ne stai in disparte e appena ti rendi conto di essere osservata, scappi infastidita e dopo un po’ ti sporgi dalla finestra sollevandoti sulle punte, per osservare senza farti vedere. Noi giochiamo a nascondino rivolgendoci parole di sfida e tu segui attenta. Non so spiegarmi il motivo per cui in quei caldi pomeriggi assolati, il mio solo desiderio è conoscere quella silenziosa bambina del portierato in fondo alla strada.

    Ancora pioggia.

    Oggi la barchetta e tu siete cresciute.

    Sei su uno yacht da sogno e sei diventata ormai una donna bellissima, tu, che sei stata la mia amica d’infanzia, la mia famiglia, la mia ispirazione, la mia forza, il solo prodigio nei miei giorni, la sola speranza nella mia vita.

    Francesca

    Lo yacht è approdato nel porto ieri sera, e io me ne sto qui, seduta sul ponte di poppa con lo sguardo fisso sul mare increspato dalla pioggia.

    Ripenso alla mia vita, a dove sono arrivata, a ciò che ho conquistato, ma anche al tanto che ho perso e che mi è mancato.

    Accendo la radio e, incredibile coincidenza, si odono quelle parole inglesi di cui conosco bene il significato. Quella canzone, un rock dolce che Bon Jovi ha dedicato all’amore, quante volte l’ho ascoltata, è parte della mia vita ormai.

    Scherzo della mente o no, mi sembra di rivederlo, adesso come allora, Gianluca… lui, con quei due occhi sinceri, veri, che dal cortile mi osserva curioso, col sorriso un po’ incerto da ragazzino occhialuto che al primo giorno di scuola mi offre metà della sua merenda.

    Lì sul molo anche lui come me guarda verso il cielo, una vastità minacciosa colma di nubi scure, grigie e cariche d’acqua.

    Ora il suo sguardo è fisso su di me, accigliato e incredulo.

    Siamo cresciuti, ma i suoi occhi sono gli stessi, spalancati sulla vita, inalterati, e inconfondibili.

    1.

    Gianluca 2009

    I ricordi mi conducono verso un periodo in cui amavo annotare tutto su un quaderno che serbavo ben nascosto. Avevo dato un nome a quel diario: Mr. Book. In quelle pagine ho raccontato lunghi frammenti delle mie vicende e lo conservo come qualcosa di prezioso.

    Napoli, 8 ottobre 1987

    L’odore del caffellatte fumante viene a cogliermi a letto. Gli fa eco la sveglia, con quel cinguettio artificiale che vorrebbe simulare un dolce risveglio, invece mi fa solo incavolare. Mi dice che è già mattino, che le ore di sonno sono volate rapide come un falco, e la stanchezza non fa ancora in tempo a congedarsi che devo già essere in piedi.

    6.40: ancora cinque minuti. Infilo la testa sotto il cuscino e chiudo gli occhi.

    6.50: la sveglia si fa sentire di nuovo con un fittizio canto di volatili. Ancora un po’, sono davvero troppo stanco: la notte sui libri, i pensieri morbosi.

    7.00: l’aggeggio persiste. Che palle! Uno di questi giorni lo riduco in mille pezzi.

    7.10: non si arrende. Non è possibile. Mi infurio e lo lascio cadere sul pavimento, magari è la volta buona che si rompe, ma il solo risultato è che non smette più di cinguettare. Cavolo, un po’ di rispetto per la stanchezza degli altri!

    7.20: «Gianluca!» questa è la volta della sveglia umana, che insiste fino alle 7.30, ora in cui mi alzo dal letto ancora mezzo addormentato.

    Barcollante e con un paio di occhiaie da paura entro in bagno, getto acqua sul viso, ma niente da fare. Mia nonna bussa prepotente per entrare. Possibile? Ma lo fa apposta? Si alza un’ora prima di me, ma si decide ad andare in bagno giusto quando devo andarci io.

    Sono costretto a prepararmi in meno di dieci minuti, vagabondando da un bagno all’altro, elemosinando i brevi attimi in cui se ne libera uno, tra i miei genitori e lei.

    In cucina il televisore trasmette le ultime notizie, che sono sempre disastrose, tra omicidi e attentati varrebbe la pena di tenerla spenta, se non altro per vivere nell’illusione di un mondo diverso. Tre, quattro spot di alimenti gustosi che ti mettono l’acquolina in bocca e inizia l’oroscopo. Il mio segno dice che in amore ci sarà un incontro e che gli affari andranno bene. Stronzate! Non crederei agli oroscopi nemmeno se fosse l’ultima cosa a cui appigliarmi.

    Mia madre traffica tra le stoviglie, già esaurita. I miei al mattino sono intrattabili, faccio un tentativo di conversazione, ma è inutile, tanto non mi risponde nessuno.

    La mattina non si parla è una regola familiare.

    Mi siedo e metto dello zucchero di canna nel caffellatte scremato e vi intingo dei biscotti dietetici. Mia madre ha la fissa per l’alimentazione sana, cibi biologici e naturali. Come alternativa ai biscotti senza zucchero, tante fibre e niente sapore, c’è succo di frutta e yogurt dal sapore acre. Mi illuderò di essermi nutrito e, tempo un’ora, sembrerò un lupo famelico.

    Per ultimo arriva mio padre e puntualmente sorge un battibecco con mia nonna perché non gli lascia neanche un goccio di caffè.

    «Sempre la stessa storia. Dovrò prenderlo in ufficio. Ma non è possibile!».

    Nessuno risponde, mia nonna è troppo impegnata a tormentare la mamma con le sue raccomandazioni giornaliere, mentre lei, sbuffando, infila tutto in lavastoviglie dandoci a stento il tempo di finire la colazione.

    Esco di casa veloce e mi precipito giù per le scale, come al solito l’ascensore è occupato e non ho tempo di aspettare il prossimo turno. Sembra una congiura.

    Qualche volta mi dà uno strappo mio padre, e io annoiato me lo devo sorbire mentre si lamenta del traffico e della città.

    Vorrei infilarmi in un pullman dove diventerò sardina tra i cattivi odori, ma la sola idea mi fa rabbrividire, quindi vince l’esigenza di camminare a piedi. Accelero, perché il tempo è tiranno, rischiando di spintonare qualche vecchia signora che già fa la fila per i negozi, trascinando con lentezza borse e carrello che fanno inciampare. I passi sono veloci, quasi volo verso il liceo che mi attende con le sue sbarre di ferro, dove resterò rinchiuso per le prossime quattro ore. Ma per fortuna è solo il penultimo anno!

    Quando arrivo incontro regolarmente il custode che sta per chiudere il portone.

    «Un momento… eccomi!» grido da lontano, come da copione, correndo come un atleta verso il traguardo. Entro. Il fiato è corto, affanno da infarto, salgo le scale, poi attraverso il corridoio, la classe è l’ultima, proprio lì in fondo.

    La noia dei ritardi è quella di doversi sottoporre al defilé davanti alla classe per raggiungere il banco. Tutti gli occhi sono puntati sui colori abbinati, la marca dell’abbigliamento, le scarpe indossate. Io deludo sempre. Non sono bravo a vestirmi, spesso e volentieri sbaglio gli accostamenti. Francesca è la mia stilista di fiducia, mi dà sempre delle dritte sui colori e scherzosamente si diverte a farmi notare che i miei abiti sono superati, ché le pieghe devono toccare il terreno, e ché i calzini, devono essere rigorosamente di fondo scuro.

    Siedo al mio banco in seconda fila e trattengo uno sbadiglio.

    La scelta dei posti non è casuale. Ai primi banchi siedono i lecchini e i secchioni, al secondo quelli interessati, al terzo gli eclissati, ovvero coloro che si mostrano e si nascondono a seconda della loro preparazione, al penultimo gli impreparati e, infine, agli ultimi i casinisti.

    Matteo, appena mi vede, inizia già a parlare a raffica. Come fa? Secondo me a colazione si ciba di radio e tv. Io annuisco ma non lo seguo.

    Puntualmente mi dice: «Oggi mi interrogano. Lo sento. Se succede, mi rovinano di sicuro. Sono impreparato».

    È il suo modo per esorcizzare la paura, una specie di rito scaramantico, perché regolarmente non accade.

    Oggi i miei amici sono tutti presenti. C’è appunto Matteo, il mio compagno di banco e di sorte. Un tipo simpaticissimo: insieme sembriamo una versione moderna di Stanlio e Ollio. Io troppo magro, lui troppo in carne. Grazie alla sua parlantina frenetica e la sua battuta pronta, riesce a rubare voti alti e affascinare le ragazze. Inoltre conosce mezzo liceo: è molto popolare.

    Lei è alla mia sinistra, sempre più bella. I suoi capelli corvini si sono allungati parecchio, ora cadono in morbide onde setose che spesso mi sfiorano mentre le scosta dal viso. È cambiata molto, ha assunto le sembianze di una donna.

    I miei amici sono le persone più importanti per me. Se non ci fossero forse starei sempre chiuso in casa. Per fortuna mi coinvolgono e mi trascinano con la loro allegria. Ancora rido del pigiama party organizzato a casa di Matteo, a cui abbiamo preso parte io, Francesca e Zelica.

    Ci siamo ingozzati di tutte le schifezze più svariate, del genere vietato da mia madre, abbiamo raccontato storie dell’orrore. Ci siamo divertiti a fare telefonate anonime a sfondo sessuale, facendoci riempire di parolacce d’ogni tipo, per poi sbudellarci dal ridere. Verso le tre abbiamo visto un film; al mattino finalmente siamo crollati esausti.

    Che nottata!

    Al fianco di Francesca è seduta Zelica.

    A prima vista sembra un manichino scappato da una vetrina: veste grandi firme, non trascura nessun particolare, cura gli accessori fino alla paranoia. Super viziata, vive nel mio palazzo. I suoi genitori sono divorziati e lei è in lotta con tutti perché evidentemente ne soffre molto. Il padre è un chirurgo estetico e le ha ritoccato il naso. Sua madre è ginecologa, le ha già prescritto la pillola, di cui fa uso. Matteo è innamorato di lei, che purtroppo non se lo fila per niente: Zelica è in coda con Francesca per Paolo, il che è motivo di lite fra le due.

    Nel banco davanti al mio c’è Eleonora. Una cascata di riccioli biondi, pelle di velluto e occhi come il cielo. Anche lei, come gli altri, vive all’interno del mio parco, ma non ci eravamo mai incontrati perché è una ragazza riservata, taciturna, amante dello studio e della musica.

    Dietro di me, invece, siedono Marco, Giulia e Daniele. Loro tre sono amici da una vita e condividono la passione per il grande cinema americano, appena arriva nelle sale un colossal con grandi effetti speciali, sono i primi ad andarci. Daniele è un tipo alternativo, casinista, un allegrone, è molto alto, con lunghissimi capelli rame, un piercing al naso e sul mento una barbetta riccioluta. Marco, invece, è il suo opposto: viso lavato, come dice Francesca, pallido e troppo da bravo ragazzo. Giulia, invece, è la classica romantica, si riempie la testa di letture rosa e racconti strappalacrime, non è molto carina, un po’ robusta, naso importante che tenta di nascondere dietro una grossa frangia.

    Mr. Book, eccomi.

    Sono Gianluca Grimaldi, ho diciassette anni, vivo a Posillipo, finalmente ho detto addio ai brufoli e tra poco anche agli occhiali perché mi sono deciso a mettere le lenti a contatto. Mi sono iscritto al liceo scientifico dietro insistenza di mio padre che spera che segua le sue orme da ingegnere, mentre io ero più tendente al classico. Come sempre l’ho accontentato. In campo sentimentale sono una schiappa, o meglio, sono eternamente cotto di lei.

    Francesca… Francesca…

    La prima volta che vidi Francesca fu nel luglio del 1982. Quella notte piovve copiosamente. Ricordo bene quel giorno.

    Nei pomeriggi assolati il parco si popolava di ragazzini che chiacchieravano e scambiavano figurine dei calciatori, in cerca di libertà.

    Lei se ne stava sull’uscio di casa e giocherellava con una barchetta costruita con la sua fantasia. Qualche giorno prima avevo mostrato ai miei amici del cortile il mio modellino, una barchetta a vela creata artigianalmente, perfetta nei minimi particolari. Aveva destato clamore e si erano radunati in tanti ad ammirarla. Anche lei, da lontano, l’aveva guardata attenta, per imitarla, perché evidentemente le sarà piaciuta.

    Con lo sguardo posato sulla sua invenzione si accovacciò a terra, poi, infastidita dai capelli ribelli, portò dietro l’orecchio una ciocca scura caduta sul viso. Quel gesto mi immobilizzò.

    La osservavo. Era carina, lo era molto. Mi sbirciava anche lei di sottecchi, poi si voltò dandomi le spalle, forse seccata, e andò via.

    Il giorno dopo la vidi ancora. Era concentrata su una lunghissima fila di formiche che si muoveva sulla terra polverosa e bruciata dal sole cocente, accanto ai suoi piedi. Prese un rametto e lo conficcò nel foro da dove provenivano, per bloccarne il via vai. Immaginavo lì sotto le loro abitazioni, lunghi cunicoli in cui vivevano famiglie numerosissime. Si svegliavano al mattino laboriose e tutte in gruppo andavano al lavoro in cerca di cibo, poi ritornavano a casa dove iniziavano lunghi banchetti fino al calar della notte, per poi riposare, oramai stanche. Sicuramente si vogliono bene, collaborano per il benessere comune e si preoccupano di alleggerire l’una il lavoro dell’altra.

    Forse sarebbe bello essere una formica.

    Lei mi doveva aver letto nel pensiero perché alzò il viso sorridendo. «Lì sotto deve essere bella la vita!».

    Mi sedetti accanto a lei a osservare silenzioso quei piccoli insetti.

    «Abiti qui?» riprese.

    «Sì, e tu?».

    «Adesso sì, e non andrò più via!» sbottò decisa.

    Tutte le mattine cercavo di scorgerla dalla mia finestra; appena la vedevo uscire in cortile, inventavo una scusa per incontrarla. Il pomeriggio lo passavamo a chiacchierare e ci divertivamo a tormentare lucertole e insetti. Insieme restavamo a guardare come spettatori la vita che scorreva. Lei nell’orrore di cui non parlava e io nel mio bel quadretto familiare, dove si è tutti attenti a portare avanti il proprio ruolo rigorosamente. Mio padre in quello del lavoratore dedito alla famiglia, mia madre la casalinga perfetta, mentre mia nonna l’anziana che racconta favole. In realtà siamo un gruppo di pazzi costretti a una convivenza forzata caratterizzata da malumori e incompatibilità di carattere.

    23 febbraio 1988

    Apre il libro, ma non lo guarda, vi depone la Bic al centro e, poggiando il pugno chiuso sotto il mento, se ne sta a fissare l’insegnante, ma la mente è altrove. Starà pensando a Paolo. E non so se mi faccia piacere.

    La prima ora abbiamo matematica, il basso e pelato professor Marcuzzi è alla lavagna a copiare il compito prima di distribuire quelli già corretti e condannati. Qualcuno già si dispera e immagina un bel due.

    Alcuni approfittano per mangiare, altri per ascoltare musica in cuffia, altri ancora scorrono foto di ragazze più o meno carine accompagnate da racconti di sesso, qualcun altro schiaccia un pisolino, mentre i lecchini ripassano per l’interrogazione dell’ora successiva.

    Matteo mi coinvolge all’impiccato erotico, un gioco ideato da lui. Disegna una sequenza di trattini che nascondono parole che io devo indovinare, lettere che danno vita a titoli peccaminosi e a ogni errore mi disegna appeso a una forca, se completa il disegno sono morto, quindi ho perso. Ha una fervida fantasia.

    La prima ora si conclude bene. Ho conquistato un bel sette, altrettanto i miei amici a cui ho passato il compito. Ma neanche un grazie da quegli ingrati!

    Arriva la seconda ora tanto temuta. Lei è in ritardo, forse è un buon segnale.

    Qualcuno prega che si sia spiaccicata sul marciapiede o abbia contratto malattie infettive varie. Il mio piede balla esasperato e nervoso sotto il banco, qualcun altro corre al bagno colto da un attacco di viscere. Francesca ha un piccolo battibecco con Eleonora sul questionario, io le stronco passando loro il mio. Lei sorride per ringraziarmi sussurrando che sono il suo angelo custode.

    Bizzi che se ne stava a sbirciare alla porta, rientra pallido in volto e dice: «Non si è truccata».

    Il trucco è il segnale del suo stato umorale e come tale della nostra sorte, quindi arriva la condanna.

    Un boato di protesta, parolacce, brontolii, frasi irripetibili, poi, il silenzio.

    La belva fa capolino dalla porta e, senza perdere un minuto, senza spendere nemmeno un saluto per noi comuni mortali, va a sedersi, dopo aver ordinato a Graziani la secchiona di chiudere la porta. Il plotone d’esecuzione esegue il rullo dei tamburi. La classe è immobile, quasi non si respira. Qualcuno si nasconde dietro la schiena di chi è seduto davanti. C’è sempre chi finge un’emicrania improvvisa e si massaggia le tempie per impietosirla. Preghiere si levano nell’aria silenziosa, qualcuno fa cadere la penna e si china per raccoglierla, ma evitando accuratamente di rialzarsi per incontrare il suo sguardo allucinato. Agli ultimi banchi volano battutacce per stemperare la tensione, ma nessuno ne coglie il senso.

    Sbatte sulla cattedra il registro e ci osserva con lo sguardo assassino di chi ha voglia di rifarsi della giornata iniziata male riempiendoci di brutti voti. Nessuno sostiene il suo sguardo, neanche io. Preferisco nascondermi dietro i riccioli biondi di Eleonora.

    Secondi interminabili, cuori quasi prossimi all’infarto, poi la ghigliottina è pronta.

    «Graziani» prorompe alla fine. «Vieni tu».

    La paura cresce. Silenzio tombale, poi: «Bizzi». La penna della Vicedomini puntella il registro senza pietà.

    Povero Daniele, a malincuore si alza e raggiunge la compagna.

    Sembra lo faccia apposta a far salire e scendere la penna sulla fila dei nomi sul registro, per creare suspense. Se fossimo in un film dell’orrore si udirebbe musica macabra e al suo termine improvviso, il nominativo dell’ultimo sfortunato.

    «Esposito». Francesca è condannata.

    La loro interrogazione dura pochissimo, vista la strage annunciata.

    Barbara Graziani prende un sette, gli altri un due, a cui seguono, un quattro e un tre, presi da altri compagni.

    La campanella ci libera con il suo trillo.

    Francesca è incazzata e scarica l’amarezza litigando di nuovo con Eleonora, poi si precipita in corridoio, forse nella speranza di incrociare Paolo il fighetto.

    Francesca

    Napoli, 19 febbraio 1988

    Un primo raggio di sole fa capolino tra le tapparelle della mia finestra, mi raggiunge a letto e mi bacia il viso. Sbatto le palpebre lentamente e guardo la sveglia che di lì a pochi minuti suonerà.

    Mi volto dall’altro lato e cerco ancora di recuperare un po’ di sonno prima di alzarmi.

    Mia zia ha l’abitudine di posizionare le lancette 10 minuti avanti; dice che in questo modo non si fa mai tardi. Quindi ho ancora un po’ di tempo per sognare.

    Sono le 7.10, la lancetta è arrivata al limite, meglio prepararsi. Tiro via le coperte e corro in bagno.

    Zio Raffaele e zia Rita sono in cucina e sorseggiano caffè.

    Ormai vivo con loro da qualche anno, e ho compreso il significato di avere qualcuno che si prende cura di me.

    Quando avevo nove anni il risveglio mattutino nella mia vecchia casa era ben altro, in quella che doveva essere la mia famiglia naturale.

    Ricordo certi avvenimenti come fosse ieri, fotografie del passato che mi bloccano: mio padre che dormiva supino sul divano, attaccato alla solita bottiglia di alcool, con indosso gli abiti di due giorni prima, trasandato e con la barba incolta.

    Mi alzavo dal letto un po’ prima del solito, mi stropicciavo gli occhi ancora assonnati e mi preparavo in cucina un po’ di pane secco rammollendolo nel latte caldo.

    Ero già smaniosa di diventare grande, incuriosita dal mondo e, ancor di più, desideravo uscire di casa, allontanarmi dagli adulti confusi che mi rendevano triste. Illudermi per qualche ora di avere una famiglia normale, come i tanti miei coetanei accompagnati ai cancelli da genitori affettuosi che preparavano loro la merenda.

    Con la maturità di gran lunga superiore alla mia giovanissima età, poggiavo sul corpo inerte di mio padre una coperta e mi accingevo ad andare. Mia madre doveva essere uscita molto presto, chissà per quale destinazione, e ancor più ignoto sarebbe stato l’orario del suo ritorno.

    Camminavo per i Quartieri Spagnoli a passo lento, osservando le botteghe appena aperte, le finestre delle case ancora serrate, le voci acute degli ambulanti e la biancheria stesa al vento come bandiere colorate.

    Mi piaceva osservare la gente, il mio quartiere, mi divertivo a calpestare le pozzanghere per lasciare le orme sull’asciutto, mentre andavo a scuola.

    Giunta in classe, come un fantasma mi sedevo agli ultimi banchi, quasi in disparte, così da avere modo di fantasticare in santa pace.

    I miei compagni avranno pensato che me la tiravo o, peggio, che forse non fossi normale, avranno creduto opportuno estromettermi dai loro stupidi giochi.

    Al rientro a casa la situazione non era diversa. Ricordavo quel vuoto.

    Dove erano i miei genitori? Perché non tornavano?

    Piangevo, tormentata da un’atroce sensazione di abbandono, lo stomaco che brontolava con insistenza e le palpebre

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