Oracoli
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Storia, mito e fantasia sono le basi da cui si dipanano le avventure narrate in “Porpora”, “Il dono dell’aruspice”, “Sibilla” e “I libri fatali”.
Gli Dei sembrano aiutarci, ci mandano segnali, ci parlano, esigono da noi preghiere e sacrifici, ma alla fine nulla cambia: siamo burattini nelle loro mani capricciose, sempre e comunque. A cosa serve allora conoscere quello che accadrà? A cosa serve dedicare loro le nostre devozioni?
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Book preview
Oracoli - Alessandra Leonardi
casuale.
Porpora
Mediterraneo, VIII-VII sec. a.C.
Il mare, così profondo e mutevole nelle molteplici sfumature di colore e nelle forme originate dalle correnti, esercitava ai miei occhi di bambino un fascino magnetico a cui ero impossibilitato a resistere.
Durante il nostro viaggio sull’imbarcazione che ci avrebbe condotto a una nuova casa e a una nuova vita, trascorrevo ore a osservare gli spruzzi di schiuma e il movimento dell’acqua che sembrava spostarsi al nostro passaggio, remissiva e ossequiosa; lo sciabordio aveva un effetto ipnotico e la mia mente volava lontano, immaginando le terre meravigliose che avrei scoperto prima di arrivare all’isola chiamata Shardan.
In realtà, in quei guizzi, in quei repentini cambi di colore e direzione, cercavo altro: squarci sul futuro.
Mia madre era, come tutti noi, originaria dell’isola di Alashiya, ma anziché provenire da Kition come mio padre era nata a Pafo ed era una discendente del sacerdote Tamiras, il veggente del mitico re Kyniras. Se non avesse conosciuto mio padre, e se non si fossero innamorati e poi sposati, sarebbe diventata una sacerdotessa del tempio di Ashtart.
Era in grado di prevedere gli eventi osservando l’acqua, oppure interrogava la Dea tramite i betili. A volte le rispondeva subito, altre in sogno.
Mio padre, invece, era un mercante e anche proprietario della nave su cui viaggiavamo: aveva deciso che ci saremmo trasferiti in una delle nuove città fondate dal nostro popolo a Shardan, isola ricca di murici e minerali preziosi; qui ci attendevano suo fratello e altri conoscenti, partiti mesi addietro. Durante il viaggio avremmo fatto tappa in altre città, per vendere la mercanzia nei vari mercati: ci saremmo fermati a Melath, a Mothya, a Qart-Hadash e infine saremmo giunti a destinazione.
Una delle attività che preferivo era dondolarmi sull’asta del timone, lasciare che il vento mi scompigliasse i capelli, osservando il rigonfiarsi della grande vela colorata che campeggiava sull’albero maestro.
Mio padre mi richiamava spesso all’ordine: «Akebr! Lascia in pace il timoniere e vai in coperta a controllare le merci».
Mi sentivo importante mentre svolgevo il compito assegnatomi. Mi piacevano le soffici stoffe dipinte di quella tonalità di rosso così apprezzata da tutti i popoli del Mare Grande, e anche quei piccoli portafortuna di vetro rotondi, su cui venivano dipinti grandi occhi, capelli riccioluti ed espressione sorridente. Pensavo che mi assomigliassero.
Mia madre stava sempre sottocoperta col mio fratellino nato da pochi mesi, Arish; di rado usciva ad ammirare il panorama. Restava sulla nave anche nei giorni in cui approdavamo nelle città per il mercato. Ero io che aiutavo mio padre con le merci.
Il mercato però non mi piaceva molto, c’era troppa confusione: tutto quel vocio in diverse lingue mi intontiva e mi annoiavano le trattative coi compratori. Amavo invece il lungo procedimento per estrarre dai murici quel colore che ha fatto la fortuna del nostro popolo: la pesca dei molluschi nei fondali bassi, frantumare le conchiglie nella vasca, pressare la polpa e farla bollire per giorni nei contenitori insieme ad acqua salata, infine tingere le stoffe mi divertiva molto di più. Quando poi si univano all’acqua altri ingredienti, come miele o licheni, per creare le tante sfumature di colore, non stavo nella pelle nell’attesa di scoprire la tonalità che ne sarebbe venuta fuori.
Nei grandi occhi neri di mia madre c’era però un velo di paura e tristezza.
«Madre, perché sei così taciturna? Ti dispiace avere lasciato la nostra casa per trasferirci altrove?» le chiesi. Lei scosse la testa, facendo tintinnare i monili d’oro e pietre preziose con cui si adornava. «Domani ci fermeremo a Qart-Hadash, non puoi restare a bordo. Dicono tutti che è magnifica».
Anche mio padre desiderava che scendesse dalla nave.
«Ummiashtart, non ti fa bene stare sempre sottocoperta: vorrei che tu e Arish prendeste un po’ d’aria e di sole. Inoltre, Qart-Hadash è un luogo da vedere assolutamente: ha delle costruzioni bellissime, mura fortificate e torri, molti templi e un approdo per le imbarcazioni unico nel suo genere. C’è anche un tempio di Ashtart».
«Va bene, Baalyaton, verrò» cedette mia madre.
«Ne sono felice. Io sarò impegnato nella vendita delle stoffe agli strateghi e ad altre importanti personalità, ma voi tre potrete girare per la città».
Mio padre non esagerava nel descrivere la bellezza di Qart-Hadash: le case erano bianche e avevano tutte un terrazzo; i templi erano numerosi e grandi, sorretti da robuste colonne; gli abitanti vestiti e adornati in maniera raffinata. Tutti si voltavano ad ammirare la bellezza e l’eleganza di mia madre: fasciata in un morbido abito purpureo ricamato in oro, e adornata dei suoi monili più preziosi, sembrava una divinità incarnata.
Il tempio di Ashtart si trovava in un punto alto della città, da cui si poteva ammirare un panorama splendido. Il mare si congiungeva col cielo e il sole dardeggiava le lievi onde che rilucevano in un movimento continuo. Mia madre fissava un punto lontano e indefinito; aveva in braccio Arish e temevo potesse caderle da quanto sembrava assente e lontana.
«Madre, cosa ti succede? Sei stanca?»
«Sarà distrutta. Tutto sarà raso al suolo» disse, con lo sguardo perso oltre l’orizzonte.
«Ma cosa dici, madre? Hai avuto una delle tue visioni?» le chiesi, scuotendola per farla riprendere.
Riuscii nel mio intento.
«Questo è ciò che ho visto: navi, sangue, fuoco, distruzione, cenere e sale. E un esercito oro e porpora. Ma non è questo a preoccuparmi, caro figlio mio: succederà tra centinaia di anni».
«Allora cos’è che ti turba?»
«Non ne ho alcuna certezza, ed è inutile parlarne se rimane solo un timore scaturito dalla mia ansia e dal mio affetto per voi, i miei figli».
Mia madre aveva avuto anche una bambina, qualche anno dopo la mia nascita, morta a causa di una malattia che nessuno era riuscito a curare; la nascita di Arish le aveva restituito il sorriso, ma ora era di nuovo triste. Decidemmo di tornare al mercato, dove mio padre stava concludendo un grosso affare coi notabili della città.
Il giorno