Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Sposerò Gary Barlow
Sposerò Gary Barlow
Sposerò Gary Barlow
Ebook207 pages2 hours

Sposerò Gary Barlow

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

È l’estate del 1993, Alice ha quindici anni ed è ancora acerba. E per lei essere acerba è diventata una colpa.
Alice non ha le mestruazioni. Alice non può dire parolacce. Alice non può crescere. Alice non può amare, se non un volto in un poster, che non potrà mai deluderla. Il volto è quello di Gary Barlow: il “grasso” dei Take That.
Tra la ritardata femminilità, una madre che indossa solo fuseaux leopardati e le verifiche a sorpresa della professoressa Sferzaferri, Alice si avventura come un personaggio di Mark Twain tra i pericoli di reggiseni imbottiti, gli improbabili inseguimenti ai Take That e la cotta per il compagno di scuola.
Un romanzo che rappresenta un’epoca, passando attraverso la musica, l’amore e anche il cancro, abilmente raccontata dalla penna spontanea, tagliente-comica di Luisa Cartei, che dietro alla festosità del tutto ci fa intravedere sempre profonde verità.

Luisa Cartei è una copywriter con diciassette anni di esperienza in pubblicità. Ha vissuto tra Londra, San Francisco, Milano e Sydney, lavorando per le maggiori agenzie pubblicitarie internazionali. È blogger, mamma e surfista accanita. Vive a Bondi, in Australia, il suo paese di adozione. È cresciuta negli anni Novanta ascoltando i Take That e il suo sogno segreto (ormai non più segreto) è quello di sposare Gary Barlow. Il suo consiglio per l’umanità è quello di non smettere di sognare.
LanguageItaliano
Release dateJun 21, 2018
ISBN9788899706425
Sposerò Gary Barlow

Related to Sposerò Gary Barlow

Related ebooks

Humor & Satire For You

View More

Related articles

Related categories

Reviews for Sposerò Gary Barlow

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Sposerò Gary Barlow - Luisa Cartei

    forget

    PREFAZIONE

    Ho due notizie: una buona e una cattiva. Quale volete sapere per prima? Vabbè, faccio io. Partiamo in quarta con la notizia cattiva per investirla sul colpo. Mi è stato diagnosticato un carcinoma squamocellulare scarsamente differenziato. Come scarsamente differenziato? L’ho preso come un insulto a chi, come me, è uno strenuo difensore della differenza come base per una qualsiasi unione. Comunque non preoccupatevi, ho intenzione di ribaltare il cancro come un calzino all’interno di una Adidas sudata puzzolente. La notizia buona è che il libro che ho appena letto è luminoso, in parte anche anticancerogeno. Il solo fatto che il padre di Alice, la protagonista, sia un oncologo empatico è già di suo rasserenante.

    Chiusi i conti col personale, passiamo al pubblico e al pubblicato. Mi credete? No? Fate bene.

    Dopo aver letto Sposerò Gary Barlow, di Luisa Cartei, che non ho mai visto di persona, ma conto di rimediare a breve, sono pervaso da affetto e amicizia grazie alla sua scrittura.

    Alice, la protagonista del romanzo, insegue follemente e riesce a raggiungere il più brutto dei Take That. Ciapà chi, si potrebbe tradurre in milanese. Lo so che questa trama, sintetizzata, accennata potrebbe sembrarvi una stronzata. Non è così. È il termometro di un decennio sapientemente riassunto e pompato da un’entomologa emotiva e motivata che sa scrivere e descrivere la sua ingenua e genuina passione fatale per gli scarafaggi (Beatles in English) della sua adolescenza.

    C’è una profonda differenza. Il mio piatto preferito è l’adolescenza di chi è pronto, disposto e in grado di cucinarcela in letteratura. Luisa Cartei non è una sedicenne innamorata persa di quel bamboccione di Gary Barlow, ma una scrittrice premestruale, finalmente mestruata, di conseguenza bipolare. La giovane Alice non ha ancora avuto il ciclo, al contrario dell’autrice, quindi si sente esclusa dal circo(lo) delle coetanee. Non ha le tette, solo degli spunti di seno in divenir, fortemente protetta da un sense of humor di kevlar. Si avventura come un personaggio di Mark Twain tra i pericoli di reggiseni rinforzati e leggings leopardati del guardaroba materno.

    Luisa Cartei, che scopro in questo momento essere blogger, non è una influencer. È una scrittrice pura che sa raccontare un’influenza o le mestruazioni come Stephen King in Carrie, lo sguardo di Satana e la paura di non avere abbastanza benzina come in Christine, la macchina infernale.

    E, a proposito, la paura del primo bacio, diabolicamente rimandato, la consapevolezza che il padre oncologo, mannaggia al cancro, la costringa a distribuire fuori dalla scuola adesivi di dinosauri antitumore, la rendono un’eroina. Una in grado di dire: «Ehi, ragazzi, volete un adesivo gratis?» Non mi ero mai sentita così sfigata in vita mia. Come Giorgio Mastrota nelle televendite dei materassi. Non c’è nulla di peggio di qualcuno intelligente che sa di fare qualcosa di estremamente stupido.

    Tra settimanali tipo Oggi e Cioè, cioè oggi, i bozzetti diventano ritratti e viceversa nella scrittura di Luisa Cartei a cui presenterò Giorgio Mastrota, un caro amico, che sono sicuro sia assolutamente in sintonia col suo pensiero. Ecco, ci siamo finalmente arrivati: questo è un romanzo sintonico, gintonico, con chi, come il sottoscritto, per ora non ha mai avuto le mestruazioni dolorose, ma liberty, per chi ha letto il libro Iside svelata Helena P. Blavatsky o ascoltato Finalmente tu di Rosario Fiorello. E non è un finale.

    Andrea G. Pinketts

    CAPITOLO 1

    1993

    Era l’estate del 1993, avevo quindici anni e non ero ancora signorina.

    Mia nonna diceva così, signorina, per dire che ancora non avevo il periodo o le poppe.

    Famiglia di medici, la mia. Famiglia che si preoccupava della mia fanciullezza in maniera clinica. Ero stata sottoposta a ecografie e visite ginecologiche per stabilire se fossi normale, dato che, attorno a me, le ragazzine erano tutte già sviluppate. Come rullini Kodak trasformati in splendide fotografie di donne.

    Finita la scuola, i miei genitori mi avevano spedita a Pisa, dalla nonna, sperando che l’aria toscana avesse su di me lo stesso effetto che ha sui pomodori, che sono più maturi e saporiti laggiù.

    Erano mesi che si preparavano all’avvento del fiume rosso che mi avrebbe impetuosamente trasportata verso la maturità, come l’Arno che porta giù i ratti e i detriti.

    Avevano prenotato la torta, comprato le candeline, imbustato gli inviti e immaginato le congratulazioni al Sono Signorina Party.

    Così, a quindici anni, aspettavo nervosamente anch’io di diventare donna.

    Ogni mese, un ginecologo diverso si avventurava dentro di me come un minatore con la torcia sul capo, alla ricerca della sorgente nascosta della maturità.

    Ma io ero ancora acerba. Ed essere acerba era diventata per me una colpa vergognosa.

    «Non c’è nulla che non va, professoressa.» Diceva la ginecologa rivolgendosi a mia nonna Tilda, con la faccia infilata in mezzo alle mie cosce.

    «Qui non si vede nulla. Ma prima o poi arriveranno.»

    Aveva la voce roca della fumatrice o della pornostar. Indossava una lente di ingrandimento sull’occhio destro e pareva Sherlock Holmes nei meandri del mio canale vaginale.

    Io stavo così, con le gambe aperte sui poggia-coscia di metallo, aspettando l’ennesimo verdetto sulla mia imminente femminilità.

    Alcuni termini clinici erano affascinanti. Arriveranno.

    Le mestruazioni che arrivano. Non so se mi facessero più simpatia o paura. A volte me le immaginavo come gli zombie del video di Michael Jackson. Altre volte come bistecche di manzo sanguinolente lanciate da una fionda.

    Come sarebbero arrivate? Quanto si sarebbero fermate? Come ci saremmo presentate? Sarebbero state gentili o inopportune?

    Era strano. Sapevo che facevano parte di me, ma era come se fossero delle estranee.

    Mentre tornavamo a casa, il solito film: la nonna cercava di consolarmi con frecce di involontaria crudeltà.

    «I peli ci sono… questo è un buon segno. I capezzoli, però, sono ancora due punti…»

    «Ssssst… nonna! Puoi abbassare la voce?» La supplicavo di non comunicare il mio gradiente di femminilità in autobus, ma lei si limitava a deviare verso battute di ironica toscanità.

    «Certo, non sarai mai una maggiorata! Ma esistono i reggiseni imbottiti… e i chirurghi plastici!» E concludeva ridendo da sola, mentre io sprofondavo nell’imbarazzo e in un senso di generale inettitudine alla vita.

    Ogni anno passavo il mese di giugno dalla nonna Tilda. A San Benedetto, frazione di San Frediano a Settimo, comune di Cascina, provincia di Pisa, regione Toscana e nazione italiana. Mi veniva sempre in mente in questo ordine, perché la nonna Tilda mi faceva scrivere in media cinquantasette cartoline da inviare ai nostri parenti di Boston, Sydney e Rio De Janeiro. Discendenti della dinastia Innocenti di cui a malapena ricordava il nome o il senso esistenziale. «Ma un domani, chissà, ti potrebbero servire», diceva.

    Intratteneva da anni rapporti epistolari con un network internazionale composto principalmente da:

    - famiglie di ebrei rifugiati che aveva nascosto in soffitta durante la Seconda guerra mondiale;

    - compagne di università del corso di Pediatria che erano migrate in Calabria;

    - riviste di cultura generale, per cui aveva una vera e propria ossessione.

    Era l’abbonata più antica del Readers Digest, di cui mi mandava regolari ritagli su articoli che avrebbero potuto interessarmi, con i suoi commenti in allegato. Ad esempio: Lavare i capelli troppo spesso fa male alla salute.

    In quell’occasione, oltre all’articolo, aveva allegato una sua treccia del dopoguerra – mozzata, inquietante, antica – aggiungendo «Ci si lavava una volta al mese e guarda che bei capelli che avevo da giovane!»

    Ma con la nonna Tilda riuscivo anche a divertirmi. Queste erano le mie attività preferite:

    - portarla in pasticceria da Rosa e farmi comprare dodici cannoncini alla crema, dei quali almeno cinque finivano sotto al suo materasso e venivano consumati di nascosto impiastricciandole i bordi della bocca;

    - passare interi pomeriggi assolati in soffitta a cercare vecchi giocattoli;

    - farmi applaudire durante le mie lezioni di tennis, mentre la povera anziana si scioglieva sotto il sole del primo pomeriggio, ma aveva ancora la bontà d’animo di sorridermi;

    - convincerla a regalarmi cinquantamila lire;

    - farmi dare il controllo totale della cucina per i miei fallimentari esperimenti culinari, tra cui la mia famosa torta di riso con riso crudo;

    - scommettere con lei che ormai non ce la faceva più a prendermi in braccio.

    Quest’ultima attività era la mia preferita. Mi avviluppava in una copertina di lana con fantasia floreale dopo avermi posato sul letto. Si chinava concentrandosi sullo sforzo imminente, chiudeva gli occhi e, con tutta la forza presente nel suo esile corpicino da Audrey Hepburn, mi tirava a sé, fino al collo. E io sentivo l’odore soffice della sua pelle da anziana, misto al profumo dolciastro di Chanel.

    L’ultima volta che ci riuscì, io avevo nove anni. Forse perché mentre crescevo, lei si rimpiccioliva in una vecchietta di quaranta chili e centocinquanta centimetri.

    Eppure, quanto mi sarebbe mancata la sicurezza di quei pochi centimetri di collo.

    Quel giorno, come premio per essermi prestata alla mia ennesima visita ginecologica, la nonna mi aveva autorizzato a passare un pomeriggio fuori porta.

    Era appena uscito Freak – un titolo in cui potermi identificare – e Samuele Bersani lo presentava alle sedici alla Feltrinelli di Pisa. Era un avvenimento straordinario in quelle lande di pacata monotonia.

    E soprattutto c’era Carmela che mi passava a prendere.

    Era un’amica dell’estate. Una di quelle che vedevo una volta l’anno quando dal Nord scendevo in Toscana a passare giugno dalla nonna Tilda.

    La nonna era stata la pediatra più illustre del paese, i genitori di Carmela erano semplici contadini, ma Carmela aveva la mia età e le era stato imposto di farmi compagnia nelle mie settimane di trasferta.

    Di colpo, le barriere sociali erano cadute, la nonna si soffermava a scambiare qualche parola con i contadini all’uscio di casa e i contadini riferivano in paese di essere amici della dottoressa Innocenti. Ma per la nonna, rimanevano produttori di pomodori.

    «Montate dietro che se la polizia ci vede mi ammazza.»

    Carmela era venuta accompagnata dal fratello di diciotto anni.

    Ruggero ci diede il benvenuto a bordo della sua Seicento rosso ruggine. Guidava lui. Aveva appena preso la patente. Era un bel ragazzo. Anche se aveva sempre le unghie sporche di culo di gallina. Faceva il contadino e ogni mattina andava a raccogliere le uova nel pollaio. E nelle dieci ore successive, la sua strada non incrociava mai quella di un sapone.

    Ruggero mi piaceva, ma rifuggivo immediatamente qualsiasi pensiero sentimental-passionale. Mi sentivo trasparente, asessuata, infantile. Innocente, come il mio cognome. E stralunata, come il mio nome: Alice.

    Sapevo di essere piatta, di avere le unghie troppo corte e il viso angelico di una bambina delle elementari.

    A voler essere onesti, avevo anche due occhi verdi da gatta e lunghi capelli biondi, che brillavano al sole. Fuori dal contesto, potevo anche piacere, ma il contesto non mi abbandonava mai: cerchietto della Naj-Oleari, zaino di Barbie, gonne a lampadario con fantasie floreali, calzini bianchi e scarpe da ginnastica con chiusura a strappo.

    Il prodotto di una madre ossessionata dal fitness e di una figlia ipodotata di spirito di ribellione.

    «Scusa ma non hai la patente? Guarda che possiamo sederci dove vogliamo, non abbiamo mica tre anni, idiota.» Carmela, al contrario di me, era in piena contestazione ormonale.

    «Sì, ma voi siete minorenni e io che cosa ne so. L’ho appena presa e non ho ancora letto le regole. Mettetevi dietro e fate silenzio che mi voglio ascoltare Bersani.»

    Tanto a noi, di Bersani, non ce ne fregava nulla.

    Ci accalcammo di buon grado sui sedili posteriori, con la testa poggiata l’una sull’altra, per ascoltare il walkman in due.

    I finestrini erano abbassati e si respirava l’odore della Toscana d’estate, fatto di pioggia fresca, agrumi, focaccia appena sfornata. Ad ogni semaforo, un odore diverso entrava a coprire la puzza di culo di gallina di Ruggero.

    Il più memorabile, in quel tragitto, fu il profumo dolciastro che indossava la signora grassa col foulard arancione, sul motorino accanto a noi. Era come

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1