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Shoefiti: Street art o altro?
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Shoefiti: Street art o altro?
Ebook178 pages2 hours

Shoefiti: Street art o altro?

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About this ebook

Diana, una ragazza che aveva tutto nella vita, si sveglia stordita in una clinica di salute mentale e si ricorda subito il motivo del suo ricovero. Si ricorda delle sue amiche e della sua famiglia. Si ricorda di Samuel e di come la sua vita fosse cambiata in meno di un mese. Lo psichiatra che aveva seguito il suo caso fino ad allora, aveva trovato un posto di lavoro migliore, ma si diceva che il nuovo medico, a differenza del precedente, fosse più umano. Lei ancora non lo aveva conosciuto, ma aveva riposto ogni sua speranza per farsi credere. Doveva uscire di lì, e doveva farlo prima della prossima luna piena.

LanguageItaliano
PublisherTania
Release dateDec 18, 2020
ISBN9781547535491
Shoefiti: Street art o altro?
Author

Tania M. Crespo

(Madrid, 1982) Madrileña de nacimiento y breana de corazón. Estudiante de Grado de Lengua y Literatura españolas, escritora en prácticas y lectora compulsiva. Inconformista y reivindicadora nata. Cocinillas y madridista confesa.

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    Book preview

    Shoefiti - Tania M. Crespo

    A Sergio, che è arrivato nella mia vita per renderla più facile.

    REALTÁ O FINZIONE

    ––––––––

    Si svegliò stordita. Quando aprì gli occhi ci mise un po’ per capire dove si trovasse. Osservava il soffitto distante che si elevava come se sfiorasse il cielo. Una fitta rete di condotti e tubi dell’aria condizionata sostituivano le stelle. Le solide pareti con cui era costruita la facciata dell’edificio superavano i quattro metri di altezza e su di esse dei grandi finestroni le collegavano al tetto. Anche se erano irraggiungibili, e per questo motivo di ossessione patologica di vari pazienti, facevano del recinto un luogo meno lugubre. Oltre ad essere quello l’unico contatto che avevano con la luce del sole.

    Una spessa porta di metallo separava quella fredda stanza dal corridoio centrale. La porta aveva un piccolo oblò attraverso il quale poteva solo vedere l’intenso e onnipresente colore grigio della parete. L’edificio fu progettato per evitare qualsiasi tipo di contatto, anche quello visivo tra i pazienti. Anche se nella condizione in cui si trovavano non potevano nemmeno provarci.

    Nel centro della stanza, come se potesse vederlo attraverso il sistema dei condotti, si vide legata al letto. Solo altri tre oggetti arredavano la cella: un piccolo lavandino, un water di metallo e una padella di poliuretano appesa dietro la porta.

    Le faceva male ogni parte del corpo. Le cinghie di cuoio rigido che tenevano bloccate le sue estremità coprivano a loro volta le molteplici ferite ed escoriazioni che si era provocata nel cercare di liberarsi.  Aveva dolori in ogni parte del corpo, ma le sembrava più doloroso passare le ore sentendo la sua disperazione crescere. In quel momento si ricordò il perché si trovasse lì, ma non si ricordava quante lune fossero passate. 

    Come tutte le mattine due infermiere erano vigilate da una guardia fino alla porta della cella, dove lui rimaneva a sorvegliare mentre le donne entravano per lavarla. Le allentavano le cinghie quanto necessario per curarle le ferite. Sembravano robot, non parlavano mai, non incrociavano mai il loro sguardo col suo.

    Era consapevole di trovarsi nella sezione di massima sicurezza e conosceva il protocollo di comportamento che il personale doveva seguire con le pazienti, ma ciò che non smetteva di sorprenderla era che nessun dipendente lì dentro si permettesse alcun tipo di avvicinamento. Non cedevano mai, non mostrano nessuna vena di umanità, anche solo per pura curiosità.

    Pochi minuti dopo un’altra infermiera, anche lei sorvegliata da una guardia, le portò la colazione e la liberò nuovamente dalle cinghie. Biscotti, un bicchiere di latte e un piccolo bicchiere di plastica con le sue medicine. Sempre lo stesso.

    Nonostante i modi freddi si sentiva meglio da tre giorni. Gli stessi tre giorni da quando lo psichiatra che si occupava del suo caso aveva lasciato il Centro per accettare un’offerta irrifiutabile da parte della più prestigiosa clinica di salute mentale della capitale. Per questo avevano riassegnato il suo caso a un altro medico. Si sentiva meglio perché la prima cosa che fece il nuovo psichiatra fu abbassarle le dosi dei sedativi. Si vociferava, se si potevano chiamare voci quelle che giravano nel cortile di quel posto, che al nuovo dottore piacesse parlare con i suoi pazienti, anche se lei non ci aveva ancora mai parlato. Aveva sentito che era giovane e da poco laureato; immaginò che si trattasse del classico caso del medico al primo anno che non aveva ancora perso l’empatia, e sperava che questo giovane dottore fosse la sua chiave per uscire da lì. Era quello che più desiderava. 

    Una volta indossata l’uniforme dell’istituto, una tuta grigia di cotone, l’eterno vigilante della sua cella le indicò che era l’ora della passeggiata mattutina. Camminò di spalle verso la porta affinché il suo carceriere le mettesse le manette alle caviglie e ai polsi; poteva sembrare umiliante, ma almeno non era una camicia di forza. Le manette erano simili a quelle viste nei film: una catena fina univa caviglie e polsi, girava intorno alla sua vita fungendo così da guinzaglio per la sentinella. «È ora di portare a spasso il cane!» pensò.

    Paradossalmente quella mattina, quando uscirono dall’edificio di massima sicurezza dove si trovavano le celle, non si diressero verso la palestra dell’edificio attiguo, o quello che per lei era stato il cortile fino ad allora.  Entrambi gli edifici si ergevano uniti da un corridoio di vetro situato al primo piano.  La guardia, per sua sorpresa, si diresse verso il vero cortile situato all’aria aperta. Era un piccolo cortile con dell’erba, circondato da una recinzione molto alta sulla quale passava il filo spinato. Probabilmente non era il luogo più accogliente del mondo, ma a Diana sembrò meraviglioso, visto che dal suo arrivo al Centro non era più tornata all’aria aperta.

    Ci mise alcuni secondi per adattarsi alla luce del sole, aveva difficoltà a mettere a fuoco, quando ci riuscì poté solo distinguere sagome senza forma. Batté le ciglia più volte di seguito. Dall’altra parte del cortile le sembrò di vedere due sedie di legno e man mano che si avvicinava distinse che in una di quelle c’era una giovane seduta. Quando arrivò vicino alle sedie aveva recuperato completamente la vista. Guardò a lungo come quella giovane donna, dal viso dolce, teneva tra le mani una cartellina e una penna. In modo un po’ goffo, probabilmente dovuto al semplice nervosismo, si alzò.

    «Mi chiamo Paula», si presentò sorridente. «Prego, siediti.»

    «Piacere, Diana», rispose la paziente sedendosi.

    «Va bene, può toglierle le manette», disse al vigilante che senza dire una parola procedette a liberarla dal suo dolore.

    La giovane dottoressa osservava la paziente in modo esaustivo, ma prudente allo stesso tempo e dal suo viso si intravedeva che era impressionata. Attraverso la sciatta tuta grigia si poteva apprezzare il seno abbondante, sodo e liscio di Diana, il giro vita stretto e i fianchi prominenti e tondi. Non era molto alta, ma le sembrò esuberante malgrado la sua evidente magrezza. I suoi capelli erano lunghi e castani e anche se tirati su con una coda di cavallo, le punte le accarezzavano la metà della schiena. La sua carnagione era scura e vellutata, aveva il naso piccolo e all’insù e le labbra carnose e pronunciate. Ma c’era un dettaglio nella sua anatomia che le sembrò davvero inquietante: il suo sguardo. I suoi occhi erano spettacolari, non tanto per la loro grandezza e la loro forma arabeggiante, quanto per quel color miele, che metteva in risalto le pupille sull’iride, come se i suoi occhi fossero due medaglioni d’oro brillante, con due zaffiri neri incastonati nel centro.

    «Ci può lasciare da sole», ordinò nuovamente la dottoressa mingherlina. La guardia si allontanò il massimo consentito, circa dieci metri, mentre Diana si accarezzava i polsi indolenziti.

    «Ti fanno male?» domandò la dottoressa.

    «Abbastanza», rispose timidamente.

    «Posso?» domandò avvicinandosi alle sue fasciature. Diana rispose con un gesto di approvazione.

    La dottoressa tolse le bende con una delicatezza sorprendente, e anche se ci provò non riuscì a nascondere la sua espressione di orrore quando vide le ferite.

    «Ho bisogno che venga un’infermiera con una valigetta dei medicinali», disse alla sentinella con tono esigente mentre si ritirava su. Diana la osservò mentre gironzolava in modo ansioso, senza distogliere lo sguardo dalla porta. Non sembrava spaventata per la momentanea assenza della sentinella, ma sembrava seriamente preoccupata per le sue ferite. La sentinella tornò con un’infermiera e una cassetta di primo soccorso arancione molto grande. Paula si avvicinò alla porta, prese la cassetta, sorrise all’infermiera e tornò da sola vicino a Diana.

    «Devo documentare le tue ferite, così sarà più semplice far sì che ti vengano tolte le cinghie che le provocano», le spiegò serenamente.

    «Non ci sono problemi» rispose Diana.  La dottoressa tirò fuori il suo cellulare e fece diverse fotografie delle ferite; poi cominciò a farle una medicazione che non aveva niente a che fare con quello che le facevano ogni giorno le infermiere. Concluse spalmandole delicatamente una pomata antibiotica.

    «Questo aiuterà la cicatrizzazione e farà sì che non si infetti», spiegò. Le ferite dei suoi polsi e delle sue caviglie erano abbastanza profonde. La dottoressa terminò con il cambio delle bende. Diana era sorpresa, il suo breve periodo in quel luogo le aveva fatto dimenticare il tratto cortese delle persone.

    «Come può essere?» si domandò a voce alta e con tono arrabbiato. Diana rispose solo con uno sguardo. Che le sue ferite non migliorassero non aveva niente a che fare con le medicazioni, perché cicatrizzavano più che bene. Era dovuto ad ogni secondo che passava da sola nella cella impegnandosi per liberarsi dalle cinghie.

    Non riusciva a smettere di osservare quella donna, trasmetteva calore. Paula era una donna minuta, magra, con i capelli rosso ramato e gli occhi marroni. La sua pelle era così bianca come il suo sorriso, ma quello che più colpì Diana fu il suo odore di miele, perfino il suo odore era dolce.

    «Da quanto tempo hai quelle ferite?» le domandò distogliendola dal suo scrutare.

    «Non sono sicura, praticamente dal giorno dopo essere arrivata qui», rispose prontamente.

    «Ventuno giorni, non ci posso credere», disse sussurrando in modo quasi impercettibile. Sul volto di Diana si dipinse un’espressione di angoscia, perché questo significava che le restavano solo cinque giorni per fuggire, iniziando da quel momento il conto alla rovescia.

    ««Ti senti bene?» domandò la gentile dottoressa.

    «Sì, grazie.»

    «Bene, devo farti alcune domande; ho letto la tua cartella clinica, ma è piena di contraddizioni», spiegò. 

    «Sai il tuo nome e cognome?»

    «Diana Herrero Castro.»

    «La tua data di nascita?»

    «28 luglio 1987.»

    «Sei consapevole del... perché ti trovi qui?»

    «Sì», disse ad alta voce.

    «Puoi spiegarmi qualcosa in più per favore?»

    «Che vuole che le dica? La verità o quello che vuole sentirsi dire?», domandò sarcastica.

    «Entrambe.»

    «Quello che tutti vogliono che dica è che sono matta, che soffro di disturbo della personalità e che sono una psicopatica pericolosa e un’assassina.»

    «E la verità?»

    «Ha detto di aver letto la mia cartella.»

    «Sì», garantì la dottoressa.

    «Allora conosce già la mia verità», disse con fermezza Diana.

    «La tua verità?» le domandò con uno sguardo illuminato come se avesse toccato il nocciolo della questione. Diana sorrise ma non rispose. «Ti ho fatto una domanda», insistette la dottoressa.

    «E io ho deciso di non rispondere, non voglio che la mia risposta mi porti a stare vari giorni nella mia stanza senza poter uscire», disse sincera.

    «Perché pensi che a seconda della tua risposta decida di isolarti nella cella?»

    «Perché è quello che faceva lui.»

    «Lui chi?» domandò incredula.

    «L’altro dottore.»

    «Va bene», disse scuotendo la testa da un lato all’altro mostrando disapprovazione verso la linea di condotta del collega precedente. «Non ti farò domande che pensi possano comprometterti. È vero che ho letto la tua cartella clinica, ma mi piacerebbe conoscere tutta la storia da te.»

    Diana respirò profondamente, questo lo aveva raccontato prima e nessuno le aveva creduto, ma qualcosa le faceva pensare che questa donna minuta avrebbe potuto cambiare tutto; forse se glielo avesse raccontato esattamente come lo aveva vissuto.

    «Tutto ebbe inizio il giorno del mio compleanno, sabato 28 luglio», cominciò. «Il sole brillava con tanta forza che abbagliava. Secondo i meteorologi ci si aspettava di raggiungere temperature storiche. Il paese intero si trovava in uno stato di allerta arancione e rossa e avevamo passato tutta l’estate con indici superiori a quelli dell’anno precedente. Madrid era un brulichio e, come si sa, i madrileni nei giorni così fuggono dalla grande città come se l’asfalto stesse per trasformarsi in lava e distruggere tutto al suo passaggio. Alcune volte sembra accada davvero. Tutti i madrileni almeno una volta, uscendo per strada con le infradito e dopo aver camminato per la città, hanno notato come le suole si attaccano all’asfalto dando la sensazione che passo dopo passo si vadano fondendo con esso. Per questo per noi è non cambia se la meta sia il mare, la montagna o il paese. Non importa se andiamo in albergo, in pensione, in campeggio, nelle seconde case o a casa di quel familiare o amico che un giorno ha deciso che la città non era per lui». Paula accennò un sorriso e la invitò a continuare.  «I miei genitori se ne andarono molto presto per andare a trovare una coppia di amici che da cinque anni avevano deciso che Madrid non faceva per loro; adesso vivevano a Cartaya, Huelva. Mi costò convincere mia madre, le dissi che la data non era importante e che era lo stesso se per una volta non avessimo mangiato tutti e tre insieme, anche se era la tradizione e lo facevamo da ventidue anni. Ci riuscii insistendo sul fatto che il

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