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L'Illibato: Vita e avventure di un Robinson Crusoe dei sentimenti
L'Illibato: Vita e avventure di un Robinson Crusoe dei sentimenti
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L'Illibato: Vita e avventure di un Robinson Crusoe dei sentimenti

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About this ebook

Fine anni ’70, Leon è un giovane di ricca famiglia milanese, arrestato in Iraq per droga insieme a Luneide, una sconosciuta ragazza con gli occhi color delle mammole. Durante un brutale interrogatorio i soldati minacciano di far violentare la ragazza da un dobermann, il giovane la salva in un modo bislacco, vengono rilasciati.

L’anno seguente il giovane si ritrova nella Sardegna meridionale, aveva lasciato la famiglia e si è trovato un lavoro nella zona di Capo Teulada dove rastrella le dune e le spiagge ficcando le immondizie dentro un lunghissimo sacco che si trascina dietro come uno strascico. Abita in una capanna di canne, unico amico un ricco pastore errante di capre che parla solo in versi. L'esistenza di Leon è selvatica, alla Robinson Crusoe, vive di natura e nella natura bellissima di quei luoghi, con un vecchio gozzetto pesca di frodo, affronta il maestrale e sfida il sole in una sorta di cupio dissolvi, una protesta contro se stesso per il suo carattere ispido che tende a ideali di sincerità, di purezza e di "per sempre", tanto che non ha ancora fatto all’amore con una donna, è illibato. Sulle dune ritrova la ragazza con gli occhi a mammola che sta consumando gli ultimi giorni di vacanza, si trasferisce nella capanna insieme vivono un amore puro, tribolato per le asprezze e le incertezze di lui e per il bisogno di certezze che agitano Luneide. Leon la conduce alla scoperta di un mondo impensato e colmo di avventure meravigliose oltre che pericolose. L’incanto si rompe quando, il giorno della partenza, Leon scopre un innocente segreto che lei gli ha tenuto nascosto.

Per Leon segue un periodo terribile: rischia la vita in una burrasca di maestrale e viene salvato in mare dal caprone preferito del suo amico pastore, la mamma di un lupetto mannaro gli brucia la capanna, perde il lavoro, perde il pastore poeta, viene ospitato in una casa di riposo abitata da indomabili centenari dove conosce una rusticissima prostituta. Distrutto dagli avvenimenti rientra in famiglia a Milano, ritrova Luneide e vanno a vivere insieme. L’ordinata ordinaria quotidianità distrugge la coppia. Di nascosto Marco torna in Sardegna per un’assurda conclusione, perfetto ossimoro della sua vita.

RECENSIONI

Plinio Perilli
Poeta saggista
e critico letterario
Leggere porta con sé il desiderio di svagarsi, divagarsi, depurare le menti confuse, sclerotizzate. Gasparri pratica con abilità questa sorta di narrativa vacanziera e autoironica, genere delizioso sempre, a petto di una vanitosa romanzéria culta e pseudoimpegnata, quasi sempre retorica e ipertrofica. Lo stile è scanzonato, divagante e svagato, è davvero gustoso –primo pregio d'ogni degno menu narrativo– assaggiare, spilluzzicare sapori sopraffini e una perfetta cottura speziata. Insomma, armi e delizie à gogo... Raro e godibile caso, L'Illibato è testo (e pre-testo) eccellente per riconquistare i lettori, infastiditi sia dalle plasticate serie televisive, sia dai presunti capolavori dei nuovi scrittori.

Nicolò Bratovich
Filosofo gran lettore
e grande viaggiatore
Si sviluppa passando con naturalezza e facilità da pagine descrittive che evocano cartoline d’altri tempi a situazioni emotive forti ed intense intervallate da attimi di dialogo serrato. Uso acuto e imprevedibile dell'ironia e della fantasia onirica.
LanguageItaliano
Release dateJun 23, 2018
ISBN9788828339687
L'Illibato: Vita e avventure di un Robinson Crusoe dei sentimenti

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    L'Illibato - Gianluigi Gasparri

    Gasparri.

    INTRO

    La mia prima volta in Sardegna da banale vacanziere fu un colpo di fulmine, un’ubriacatura di profumi colori sapori, amicizie gentili curiosità emozioni dilatate. Fra le mille cose da godere c’era un giovane che batteva le spiagge e le dune rastrellava i rifiuti lasciati dai bagnanti. Era un tipo schivo taciturno e solitario che al massimo accennava un saluto e poi spariva tra le macchie dei ginepri. A volte, sui sentieri che portavano al mare lo vedevo entrare o uscire da una baracca fatta di canne, dove evidentemente conservava gli attrezzi del mestiere.

    L’inverno di quello stesso anno al rientro dalla Sardegna dove ero tornato per una questione legale, riconobbi sul traghetto quel giovane e fu abbastanza naturale scambiare qualche parola. Sembrava triste oppresso dai suoi pensieri.

    Arrivò il maestrale, il traghetto procedeva lentissimo contro il vento e contro le onde. Come se la bufera avesse abbattuto le sue difese, quel giovane cominciò a parlare della sua vita lontana e della sua vita presente. Era un racconto bellissimo, in alcuni momenti tristissimo, dominato da una vena di orgoglioso pessimismo che talvolta virava verso il nichilismo o forse verso un confuso desiderio di autodistruzione.

    Gli detti il mio numero di telefono, lui mi dette la mano disse che non aveva telefono e non sapeva bene dove sarebbe andato a vivere.

    Dopo qualche tempo, con la mente ancora intrisa del suo racconto scrissi questo libro mi ripromettevo di parlargliene quando si fosse fatto vivo. Si fece vivo alcuni anni più tardi con una telefonata in cui mi raccontò la sua vita presente, più pessimista che mai più autodistruttivo che mai, diceva che era in Sardegna e che ci saremmo rivisti l’estate successiva. Non gli dissi del libro perché il dattiloscritto era andato perduto in un paio di traslochi e sapevo che non sarei stato capace di riscrivere le cose che avevo scritto quando avevo nella testa e nel cuore la bellezza del suo racconto.

    Anzi, io che non credo nel destino, avevo preso quella perdita come un segno del destino. Non ho mai più visto né sentito quel mio strano e affascinante amico, ma il dattiloscritto è saltato fuori da un vecchio scatolone come un misirizzi stufo di essere rimasto al buio e sdraiato per almeno venticinque anni.

    Anche stavolta, io che continuo a non credere nel destino credo che il ritrovamento sia un segno del destino.

    CAPITOLO I

    Correva l’anno ‘78, un cane rideva

    «Passport, passport please!»

    Sporco sudato magrissimo il caporale avanzava nel vagone, allungava verso i passeggeri una mano scura e controllava i documenti. Nel bollore di agosto un tanfo acido esalava dalla sua uniforme e si rifiutava d'imboccare la via dei finestrini abbassati, fluttuava sullo sventolio dei ventagli e dei giornali si aggrappava alle retine portapacchi alle maniglie ai cernecchi rossastri di due anziane inglesi afflosciate a occhi chiusi contro lo schienale.

    Dal suo posto in fondo allo scompartimento Leon fiutava l'afrore di aglio, tutto in quella regione gli sapeva di aglio vecchio. Le zaffate si rincorrevano e si arrampicavano tremule come onde di calore sull’asfalto liquefatto di un'autostrada. Guardò il soldato, le gambe stecchite che nuotavano nelle brache corte e larghe, le rotule erano due protuberanze quasi oscene inerpicate in cima agli stinchi.

    Quei polpacci legnosi gli facevano venire in mente Pinocchio e mastro Geppetto poi pensò alle cicogne perché il caporale sollevava di continuo un piede all'indietro in equilibrio su una gamba sola sistemava l’orlo del calzettone calato a bracaloni.

    C'era una vaga minaccia nei movimenti sussiegosi e insieme brutali con cui esaminava i passaporti e a malincuore restituiva quei libretti sbavati d'inchiostro grasso, forse rammaricato di non trovare una foto posticcia un visto scaduto un nome fasullo.

    Leon sbadigliò. Il treno era fermo da due ore in una stazioncina nell'Iraq settentrionale quasi a confine con la Siria. Una sosta fuori programma senza alcun preavviso e senza la minima spiegazione una pattuglia armata era salita a bordo, un'altra era rimasta fuori e impediva a chiunque di scendere. Il caporale guadagnò un'altra fila di sedili. Le due inglesi spalancarono gli occhi si raddrizzarono sullo schienale e arricciarono il naso, una muta protesta contro l’invasione delle tanfate di aglio e sudaticcio. E subito abbassarono lo sguardo, una prudente soggezione alle pupille nerissime del militare che le fissava si aggiustava il revolver alla cintura e palpava il taschino gremito di penne multicolori burocratico rimedio alla totale assenza di nastrini e decorazioni.

    Adesso il graduato era vicino. Dal turbante spuntavano ciocche di capelli unticci quasi code di topo alle quali il riverbero del sole strappava riflessi di arcobaleno.

    I peli delle gambe brillavano controluce, un'aureola fosca scintillava su quelle rotule ossute Leon pensava chissà se pure l'anima di questo fetente sarà magra e pelosa.

    Alle sue spalle un ringhio, lui sobbalzò, a un palmo dalla sua faccia il muso aguzzo di un dobermann tenuto a catena, nero d'inferno pieno di zanne, gli occhi gialli straripavano cattiveria. Leon inciampò sulle gambe dei compagni di viaggio, calpestò la gonna variopinta di una placida contadina i dobermann lo atterrivano, da piccolo era stato azzannato da uno di loro e ne portava la cicatrice su una caviglia. Pure adesso il panico lo azzannava, scariche di adrenalina lo spingevano a una fuga isterica.

    Il soldato intimò halt, stop lie down, a cuccia bastardo!

    Leon credeva che l'ordine fosse rivolto al cane, rallentò. Un lampo nero gli piombò alle spalle, con uno scatto secco i canini del dobermann gli trapassarono il colletto della camicia, lui avrebbe voluto gridare respingere l'ansito che gli scottava la nuca la bava lumacosa che gli colava sulla schiena. Era come rivivere gli incubi notturni quando sognava di essere imprigionato in un bossolo di cristallo, lui nudo senza nulla e nessuno cui appigliarsi. Mille volte in sogno si era accanito con i pugni contro quelle pareti, mille volte aveva gridato di paura e tutte le volte le grida erano morte di spavento contro quelle mura diafane.

    Intanto il dobermann lo aveva buttato per terra e lo trascinava a violenti strattoni. Incapace di reagire si era abbandonato a una sfinita rassegnazione eppure nel panico di quegli istanti un pensiero beffardo affiorava sul terrore, cristo perfino il fiato di questo mostro puzza di aglio rancido.

    Una mano sudicia lo costrinse a rimettersi in piedi, era un altro soldato che lo scrollava e rideva, tra gli scossoni Leon osservava quella dentatura fradicia, verdastra orlata di marrone. Il militare gli affibbiò un pugno sullo stomaco e uno spintone, scendere hurry up!

    Leon accennò a una protesta, il soldato lo prese a calci nel sedere get away come on, ubbidisci cane! In un impeto di ribellione Leon gridò basta, non ho fatto niente che cazzo volete brutti stronzi!

    L'aguzzino allentò il guinzaglio, il dobermann balzò in avanti. Lui corse a perdifiato lungo il vagone sbatté la testa contro gli spigoli cadde si rialzò ancora cadde rotolò ai piedi delle due inglesi dai ricci tarlati e tinti di rosso. Una di loro protese la mano per aiutarlo, il cane si avventò per morderla. Il graduato lo trattenne con forza lo fece volteggiare a mezz'aria e ricadere in grembo all'anziana samaritana, le zampe rasparono la gonna a piegoni la scomposero in una confusione di stoffa, la coda mozza strusciò sulla blusetta di seta. Con l'estremità della catena il soldato colpì la belva che si accucciò tra guaiti di sottomissione e latrati di rivolta. Leon rannicchiato sul pavimento si copriva la testa con le mani, il cane gli sbavava addosso filamenti viscidi il soldato stampava un sorriso ferocemente ottuso. L’attempata milady badava a proteggersi col ventaglio la pallida carne al di sopra dei gambaletti e fissava uno sbaffo marrone sulla camicetta inamidata. Smarrita si volse all'amica con un pigolio di ribrezzo. Rigida contro lo schienale la compagna di viaggio studiava un'agendina pareva non accorgersi di niente ma di nascosto si leccava goccioline di sudore sulle labbra grinzute. Simile a una scultura di cera liquefatta dalla canicola il gruppo si sciolse, cane e soldato arretrarono di un passo, Leon fu rimesso in piedi buttato fuori e fatto salire su una camionetta, svanirono in un polverone dietro il paravento delle palme che proteggevano la stazione. Il treno risuscitò, sportelli che sbattevano voci di richiamo un cigolio lento il viaggio riprese sul battito delle rotaie.

    La jeep filava appesa a nugoli di polvere. Piazzato sullo strapuntino anteriore Leon rivolse la parola all'autista una volta due volte. Ottenne in cambio una risataccia adorna di denti putridi e il brontolio del cane. Corsero per parecchi chilometri la velocità gli pompava nei polmoni torrenti di bollore, era come affogare nell'aria calda. Cercò di proteggersi dietro il parabrezza però il soldato che gli sedeva alle spalle lo costringeva a raddrizzarsi. In lontananza vide un edificio basso color ocra che s'impastava sullo sfondo di una vegetazione gonfia esausta come una balia che avesse appena allattato due gemelli. Leon fu scaricato lì, spinto in una stanza lunga stretta e vuota.

    Nell'angolo più in ombra accanto a una screpolatura del muro una manciata di olivette brune e lucide, allungò un piede e le olivette si sparpagliarono in ogni direzione. Scarafaggi, che schifo! Ne calpestò uno grosso che insisteva a salirgli sulla scarpa e rabbrividì allo scricchiolio e allo strido lieve della blatta.

    Crepa disse, strusciò la suola contro il pavimento fece un passo per disperdere gli altri insetti poi gli venne in mente che sul treno gli iracheni lo avevano trattato come uno scarafaggio. Allora smise di infierire, tre blatte che vagolavano a serpentine sul pavimento lo sfiorarono lui si limitò a scansarle con schifiltose puntate dei mocassini.

    C'erano due finestre, una armata di pesanti sbarre dava su un cortilaccio sabbioso, la seconda era chiusa da un graticcio di canne e comunicava con un’altra da cui arrivavano insulti e minacce storpiate in un inglese barbaro: «Firma qui, confessa puttanella!»

    Leon spiò da una fessura nel graticcio. Vide un ambiente doppio del suo, tre soldati in piedi, sul pavimento un sergente stravaccato a gambe incrociate. Una ragazza di forse vent'anni capelli scuri si dondolava sull'orlo di uno sgabello. Stava di tre quarti e Leon scorse il lampo di una incantevole iride viola la pelle ambrata il nasino impertinente la bocca caparbia il seno provocante sotto una camiciola rosa, la curva delle reni culetto e cosce serrati nei jeans. Leon pensò che era una incosciente a girare conciata in quel modo fra i bacchettoni di Allah. Il sergente ora in piedi era un tipo alto chiaro di carnagione niente barba. Sorrideva, la brunetta ricambiò il sorriso con gratitudine. Nel suo inglese mezzo ostrogoto il sergente disse parla fiore del deserto meglio per te se parli. La ragazza spense l'espressione fiduciosa e riaccese quella cocciuta. Il sergente la scosse per un braccio, forza puttanella dicci dove l’hai nascosto.

    «Vai a farti fottere, sbirro».

    Il sergente si mise un dito in bocca in cerca di un pezzetto di cibo incastrato fra i denti chissà da quanto tempo: «Sei tu che devi farti fottere, ho lavorato nel tuo Paese e capisco l'italiano, adesso ci pensiamo noi al tuo culo. Nurey porta qui Teufel e tu alzati cagna».

    Impaurita lei non si mosse. Il sottufficiale la strappò dallo sgabello senza alcun riguardo, di prepotenza le sfibbiò la cintura strattonò i jeans lacerò lo slip, un affarino inconsistente stampato a pallidi fiordalisi.

    Travolto dall'ansia Leon tratteneva il fiato. Lei era piccolina sul metro e sessanta tornita e morbida, seminuda sembrava ancora più minuta senza scampo. In quella luce indifferente il ciuffetto scuro spiccava sul biancore del ventre come una pennellata d'autunno, lui distolse lo sguardo dai rotondi segreti della ragazza per rifugiarsi sugli occhi viola angosciati e sul faccino contratto in una smorfia spaventata eppure pietosamente spavalda.

    Dimentico degli scarafaggi degli abietti militari del sentore di aglio vecchio che impregnava gli intonaci, da dietro la graticciata il cuore di Leon parlava alla sconosciuta dagli occhi viola e dal pancino indifeso. Un eroe del cinema avrebbe abbattuto la graticciata preso in braccio la fanciulla e portata in volo su sabbie rosa di Sardegna oppure deposta in un letto di narcisi e peonie su un altopiano alpino.

    O forse sarebbe bastato chiamarla perché venisse da lui su ali turchine.

    Nel silenzio rotto dall'ansito dei soldati lei era immobile offerta al martirio di voglie nerissime appena trattenute da brandelli di disciplina militare. Adesso il sergente non sorrideva più, si riscosse dalla sua cupa contemplazione e si mosse verso la ragazza. Lei tentò di coprirsi con un gesto di ninfa, per favore no, sono vergine. Il sergente la ghermì per i polsi sghignazzava she is a virgin, una verginella ora vedrai come trattiamo le baldracche vergini, Teufel vieni demonio nero.

    Dalla porta scaturì il dobermann pazzo conosciuto sul treno, caracollò per la stanza a pochi passi dai militari li scrutava attentamente uno dopo l’altro e scrutava pure la ragazza, fremeva d'impazienza ma era incerto forse in quel cervello impastato di aggressività non aveva ancora deciso chi assalire per primo, lei o i suoi torturatori. Due soldatacci abbrancarono la poverina per le spalle, il terzo l'agguantò per i capelli. Teufel si agitava fiutava la violenza e la paura come una traccia inebriante, lei cadde in ginocchio sotto il peso degli sgherri che le torcevano le braccia dietro la schiena, la obbligarono a chinarsi fino a toccare con la fronte il pavimento. Lei lottava tremava ma lo sbirro le premeva la nuca con forza facile. I capelli si allargarono sul pavimento in una breve coda di pavone dalle iridescenze castane, il sergente ci mise sopra lo scarpone si raddrizzò trionfante e osceno come i mostri di Hieronymus Bosch. Con un ultimo guizzo Occhidiviola tentò di sollevare la testa di liberarsi le mani, i carnefici forzarono la presa su quelle fragili articolazioni. Si arrese, lacrime rovesciate percorsero la fronte si persero nella frangetta fino a bagnare i mattoni del pavimento.

    Teufel abbaiò, un latrato che sembrava una domanda, abbaiò di nuovo, scosse il sottufficiale dall'ipnotico incantamento per quella femmina profanata ed esposta a ogni aggressione.

    «Allora cagnetta ti decidi a dire dove hai nascosto l'oppio?»

    Un singhiozzo, la voce non le usciva scalciò in segno di diniego.

    «Peggio per te. Teufel diavolaccio, vieni qua fatti onore!»

    Il dobermann si appressò cauto il mozzicone di coda vibrava. Fiutò le timberland della ragazza fiutò i jeans e poi con decisione repentina si spinse ad annusare gli afrori misteriosi di quelle carni nude. Starnutì e sebbene l'atmosfera fosse piena di lubriche ragnatele i soldati risero. Il sergente ghermì Teufel e lo spinse addosso alla preda. La belva guaì, voltò il muso aguzzo quasi a chiedere che diavolo volessero da lui, infine trascinato per il collare pose le zampe anteriori sui fianchi della vittima mugolava perplesso ai laidi incitamenti degli uomini.

    Dietro il graticcio Leon si torceva le mani, il cuore in tumulto gli impediva di ragionare, l'urgenza di fare qualcosa per aiutare Occhidiviola era un dolore fisico fitte alla milza contrazioni allo stomaco, bisogno di correre al gabinetto. Teufel latrò forse di eccitazione o forse di protesta. Leon tremava ma bisognava agire doveva fare qualcosa! Sapeva che l'unico ragionevole rimedio per salvare la ragazza da Teufel sarebbe stato quello di lasciarsi divorare da Teufel. Tuttavia un gesto di eroismo s'imponeva non poteva abbandonare la sconosciuta con una fossetta sola, la vergine delle mammole. Con un gesto brusco scostò la stuoia deciso a scavalcare il davanzale e urlare sul grugno di quei ceffi tutta la sua rabbia. Il dobermann che tra le scoppole d'incoraggiamento del sottufficiale agitava festoso il mozzicone di coda si volse di scatto. Nell'abominio di quegli occhi gialli si frantumò ogni nobile proponimento, lui s'immobilizzò a cavalcioni sul davanzale, vide Occhidiviola raggomitolata a terra vide se stesso primattore in un teatro di burattini, il davanzale era il suo palcoscenico aveva fatto la sua fulminea apparizione e ora tornava tra le quinte, giù il sipario.

    La consapevolezza della propria vigliaccheria gli stimolarono l'immaginazione più di quanto non avevano potuto gli slanci di eroismo. Folgorato da un'idea si ficcò due dita in gola si spenzolò nell'altra stanza vomitò a fontana. I soldati si scansarono masticavano maledizioni e battevano forte gli scarponi sul pavimento per scrollare gli schizzi di vomito sulle scarpe e sui calzerotti di cotone, mossero furibondi verso di lui rimasto inerte come un arlecchino senz'anima. E l'anima in quel momento era confinata nel limbo del raccapriccio perché anche Teufel arrivò al piccolo trotto. Piegato in due sul davanzale Leon non poteva vedere il dobermann però udiva il ticchettio degli unghioni elastici che si avvicinavano.

    Adesso mi morde pensava frenetico, mamma aiutami a restare fermo devo fare il morto e forse mi salvo. Dio fammi svenire fammi morire subito!

    Dio poco abituato a sentirsi chiamare da lui non solo non lo fece svenire ma gli aguzzò i sensi. In uno stato di crudele lucidità trattenne il respiro percepì l'odore della corta pelliccia, la punta fredda del naso di Teufel che gli fiutava i capelli e la nuca. Un tepore liquefatto gli colava lungo la guancia, Leon pensò mi ha morso e non me ne sono accorto, è finita.

    Invece era Teufel che gli lappava l'orecchio a lunghe leccate affettuose. E lui avrebbe preferito mille volte essere morto sul serio.

    Il sergente scansò il dobermann con una ginocchiata e scaraventò Leon sopra le chiazze di sudiciume, visto che sei stato così bravo a vomitare fammi vedere se sei bravo anche a ripulire.

    Lui rispose con un filo di voce, datemi uno straccio, un secchio.

    «Macché secchio e straccio fai come Teufel, se lui lecca, puoi leccare pure tu» e schiacciò Leon contro il pavimento.

    Nel cervello schizofrenico del dobermann scattò il relè sbagliato, Teufel partì a zanne scoperte contro il sergente che arretrò, halt, a cuccia per Allah, ma il cane infittiva gli assalti tritava l’aria con gli scatti delle formidabili mandibole. Fu una disfatta in piena regola quella del sergente nonostante i pietosi tentativi di salvare la faccia e il resto. Mentre rinculava per schivare l'ultimo assalto di Teufel ad altezza d'inguine, il sergente urlò, torno fra due minuti voglio trovare tutto pulito e lucido.

    La porta sbatté, la chiave girò nella serratura.

    Il dobermann rimasto signore del campo abbassò il muso appuntito, le labbra nerastre si arricciarono in un rictus bonario e dalle profondità di quel corpo micidiale scaturirono suoni catarrosi simili a colpi di tosse. Quel cane matto rideva!

    Venne da ridere anche a Leon, ma si trattenne timoroso di far cambiare idea a Teufel che intanto si era accucciato per terra a lappare le tracce di vomito.

    Un lamento. Raggomitolata sul pavimento Occhidiviola riprendeva i sensi indifesa e tenera, la frangetta calpestata le braccia abbandonate le curve burrose del sedere affioravano come collinette pallide sulla pianura rossastra delle mattonelle.

    Leon strisciò verso di lei pietrificato ogni volta che Teufel drizzava le orecchie o sbadigliava, le rimise a posto lo slippino lacerato e i jeans le scostò i capelli dalla guancia fredda di sudore. Un palpito di ciglia, il cuore di Leon annegò nel viola di quegli occhi.

    «E tu chi sei?»

    «Mi chiamo Leon italiano come te. Tu chi sei?»

    «Una povera crista finita poco prima di te nelle mani di quattro farabutti in divisa...»

    Vide Teufel occupato a lustrare il pavimento a larghi colpi di lingua, oddio quel mostro mi ha... mi hanno violentata?

    «No, sono arrivato in tempo».

    «Mi hai salvato tu?»

    «Non ci credi?»

    «Ci credo, ma come hai fatto, erano in quattro quegli assassini e quel cagnaccio, allora come hai fatto a salvarmi?»

    «Beh, conosco un po' di karate, mia madre ha un cocker so come trattare i cani».

    Occhidiviola ridacchiava, Leon arrossì: «Non è vero, volevo farmi pubblicità con te. Non so che mi piglia mi fai uno strano effetto, non capisco».

    «Capisco io. Ripeti con me, fin dal primo momento che ti ho vista...»

    «Esatto, fin dal primo momento che ti ho visto nuda».

    «Mi hai visto nuda?»

    «Certo, mica sono cieco. E poi che t'importa eri un cucciolo terrorizzato, io più terrorizzato di te. La verità è che non sapevo come fare per allontanare quelle cinque bestie e mi è venuto in mente di vomitare. Ti disgusta?»

    «No, mi delizia, sei stato coraggioso e geniale. Però è curioso quanto tu e io ci somigliamo, io volevo... niente, niente».

    Lui incalzava: «Volevi che cosa?»

    «Nulla, lasciamo stare».

    «È una cosa che non puoi dirmi?»

    «Esatto».

    «Dimmela lo stesso».

    «Oh, peggio per te signor ficcanaso. Quando ho creduto che stessero per stuprarmi ho pensato in fretta in fretta, se quei bruti mi avessero aggredita gliel’avrei fatta addosso».

    Leon si sforzava di restare serio. Lei lo studiava, esaminava i suoi capelli scuri gli occhi grigi i denti perfetti il viso affilato dai fumi dell’hascisc e dall'estate tropicale. Magro com'era pareva più alto del suo metro e settantacinque, il colorito malsano gli dava un'aria patita.

    Occhidiviola indagò: «Tu non prendi mai il sole, nemmeno quaggiù dove il sole squaglia i sassi?»

    «Sono stato sempre al coperto».

    «Al coperto sotto le… canne?»

    «Non sono affari tuoi, piuttosto mi dici com’è andata a finire?»

    «Com’è andata a finire che cosa?»

    «Quella cosa...»

    «Mi sono vergognata e ho preferito far finta di svenire. Con la strizza che avevo avrei fatto in tempo all'ultimo istante, non ti pare?»

    Leon rise, quella ragazza sembrava un cucciolo innocente e invece era una gran monella, sapeva di essere stata vista nuda e sapeva tutto il resto. In un empito di complicità strinse a sé Occhidiviola, ma Teufel trovò la cosa del tutto sconveniente latrò un avvertimento e loro s’immobilizzarono.

    Dopo un po' Leon disse sottovoce: «Allora vuoi dirmi come ti chiami?»

    «Luneide».

    «Luneide. Buffo, anche bello. Luneide e poi?»

    «Luneide e basta».

    «Grazie per la fiducia. Comunque è vero quello che dicevi mentre quei mascalzoni ti aizzavano il cane?»

    «Uffa, non voglio ripensarci».

    «Non rispondere se non vuoi, ma è vero che sei vergine?»

    «Certo sono nata l'undici settembre, più vergine di così...»

    «Non scherzare».

    «Non scherzo, che cosa t'importa di come sono e poi che differenza farebbe?»

    «Per me farebbe differenza, perché sono vergine anch'io».

    «Sei nato a settembre?»

    «No, è che non ho mai fatto all'amore».

    Con un dito Luneide gli toccò la punta del naso, disse che peccato così carino e così bugiardo.

    Lui finse di morderle il dito, rispose senti chi parla.

    Si affacciò alla porta il grugno di un soldato. Teufel dormiva stravaccato zampe all'aria, di sicuro sognava di mangiarsi qualcuno perché moveva le zampe come se corresse e di tanto in

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