Sentieri Infernali
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Sentieri Infernali - Claudio Vastano
Insonnia
Sentieri infernali
di Claudio Vastano
Editing: Daniele Picciuti
Produzione digitale: Laura Platamone
ISBN: 978-88-85497-20-7
Nero Press Edizioni
http://neropress.it
© Associazione Culturale Nero Cafè
Edizione digitale giugno 2018
Claudio Vastano
Sentieri Infernali
Il demone
I
I cacciatori giunsero alla costa, percorrendo di buon passo lo stretto sentiero sterrato che si snodava fino all’insenatura. Il fiordo aveva la forma di un grande canale dal ventre piatto e, lungo i suoi fianchi di pietra, avevano attecchito arbusti, alberelli e tappeti di muschio. Il mare penetrava nell’entroterra per oltre due chilometri e, sotto un cielo coperto di nubi grigie come la cenere, l’acqua aveva assunto l’aspetto di un’immane macchia di petrolio.
Le foche della Groenlandia si erano radunate al margine della sottile spiaggia sabbiosa che delimitava l’imboccatura del fiordo. Ne contai non più di una trentina di esemplari. Vi erano parecchi cuccioli, alcuni dei quali ancora con il manto bianco. Durante la stagione della riproduzione, le foche groenlandesi erano solite migrare verso la banchisa occidentale della Groenlandia, al largo di Terranova e del golfo di San Lorenzo. I cuccioli di foca venivano allattati per un paio di settimane. Dal momento in cui le madri si allontanavano da loro, il mantello natale prendeva lentamente a scurirsi. Solamente a questo stadio dello sviluppo, per legge, sarebbe stato consentito dar loro la caccia. Non credo che gli uomini armati di pale e fucili che vidi giungere dalla carrareccia ne fossero a conoscenza. Se ne erano consapevoli, la loro intenzione era chiaramente quella di infischiarsene. Li osservai sparpagliarsi lungo la spiaggia occidentale del fiordo, avanzando con passo goffo fra i cumuli di neve imbrunita. Non potevano immaginare che mi trovassi sopra di loro, rimpiattato in un’ansa delle rocce.
L’uomo che li guidava era basso e tarchiato; indossava una giacca a vento marrone e un passamontagna beige. Dai fori per gli occhi riuscii a scorgere le sue sopracciglia, folte e scure come mustacchi di cinghiale. Gli occhi erano bovini e nerissimi, quasi inespressivi. I pennacchi di condensa che scaturivano dalle sue labbra sfumavano nella brezza gelida che spirava dal largo come riccioli di vapore risucchiati via da un mulinello d’aria.
Lui e gli altri cacciatori distavano un po’ meno di cento metri dall’anfratto in cui mi ero nascosto. Grazie al mirino telescopico della mia carabina riuscivo a distinguere dettagli apparentemente insignificanti con una chiarezza rimarchevole. Si trattava di uno strumento d’alta precisione, capace d’ingrandire un oggetto distante cinquanta metri fino a dieci volte. Un fenomeno. Il fucile era un modello a funzionamento semiautomatico; un metro e dodici centimetri di lunghezza dalla sommità della canna all’estremità del calcio. I proiettili costavano un euro e ottantacinque centesimi ciascuno, ma io ero riuscito ad averli per uno e dieci da un contrabbandiere nordafricano. Gli animali
a cui stavo dando la caccia, in fin dei conti, non valevano molto di più.
Dall’alto del costone roccioso, seguii i movimenti del capo-spedizione mentre si avvicinava al primo branco di foche. Due cacciatori camminavano alla sua destra, mentre altri tre lo seguivano a sinistra. Il resto del gruppo, diciassette bipedi in tutto, si stava disperdendo fra la linea di bagnasciuga e l’apice settentrionale della spiaggia. Alcuni uomini avevano armi da fuoco, altri erano muniti di semplici bastoni. Contai i loro fucili, che erano solamente sei, dopodiché sollevai la mia arma e la puntai nella loro direzione.
Il capogruppo stringeva in pugno una corta mazza di metallo, e con quella avrebbe dato inizio alla mattanza. Lo vidi avvicinarsi a un piccolo gruppo di foche, cinque adulti e tre cuccioli. Gli animali lo osservarono con un certo nervosismo, ma nessuno di essi provò a scappare, neanche quando l’uomo sollevò il bastone al di sopra della propria testa.
Il proiettile centrò il manico dell’asta quattro pollici al di sopra delle dita del cacciatore, spaccandolo di netto in due. Il rombo dello sparo, più simile al fragore di un fulmine che alla detonazione di un’arma da fuoco, echeggiò minacciosamente fra i fianchi del fiordo. Il capogruppo se ne rimase imbambolato per un tempo che non saprei quantificare, le braccia sollevate al cielo e il mozzicone di legno ancora stretto in pugno. Evidentemente, la sua arguta mente di predatore non si era ancora resa conto di ciò che stava per accadere.
Non gli concessi una seconda opportunità. Feci fuoco prim’ancora che i suoi occhi si spostassero dal mantello della foca al declivio del fiordo. Il suo collo, al riparo dietro il bavero della giacca, scomparve in un lampo rosso come il fuoco. La testa traballò per un istante a destra e a sinistra, dopodiché rotolò alle sue spalle. Il resto del corpo precipitò in avanti come un neonato privo di girello e giacque immobile.
Le foche presero a fuggire in direzione del mare con il loro incedere comico e ballonzolante. Bastoni e spranghe comparvero all’improvviso fra le mani dei cacciatori; chi possedeva un fucile lo spianò davanti a sé, mirando ai fantasmi dell’eco dell’ultimo sparo. Non mi avevano ancora individuato.
Il secondo predatore verso il quale puntai la mia arma indossava stivali in gomma, una giacca a vento e un cappello di lana azzurro. La violenza del colpo perforò il suo sterno, schiacciandolo letteralmente sulla ghiaia della spiaggia. Fu la volta di un tizio alto con i guanti color castagna e i pantaloni sdruciti alle caviglie. Di ciò che stava al di sopra del suo mento rimasero solamente gli occhiali; tutto il resto scivolò via in uno zampillo scarlatto che baluginò per un istante nell’aria immobile del fiordo. Il quarto cacciatore rappresentò un duro ammanco, per il mio budget bellico. Dovetti impiegare ben tre proiettili per toglierlo di mezzo, due in più rispetto a quelli che avevo preventivato. Centrare un bersaglio che corre a zigzag in mezzo a un gregge di altri bersagli disorientati e confusi, d’altra parte, è sempre piuttosto complicato. Oltretutto, dovevo stare attento a non colpire le foche.
All’incirca a metà del lavoro, uno dei cacciatori intuì da quale direzione provenissero gli spari. Lo vidi raccogliere il fucile di un compagno massacrato e mirare verso un costone di roccia non lontano da quello in cui mi ero nascosto. Sicuramente, con un poco di tempo in più a sua disposizione, sarebbe riuscito a individuarmi con assoluta precisione. L’eventualità di farmi sparare addosso non mi preoccupava più di tanto. In fin dei conti mi era già capitato in passato. Avrei trovato assai più imbarazzante che la mia strategia di mimetizzazione venisse vanificata da un cacciatore di foche. Lo centrai all’altezza gabbia toracica. Mentre crollava a terra, vidi sprizzare in aria zampilli di sangue mescolati a brandelli d’indumenti.
Andai avanti così fino a quando non rimase in piedi neppure un cacciatore. Al termine dell’epurazione, mi complimentai con me stesso per l’opera appena compiuta; diciassette bersagli morti e ventuno proiettili esplosi in tre minuti e quarantasette secondi netti.
Li avevo ammazzati tutti. Li avevo sterminati.
Dopo aver tolto i proiettili inutilizzati dal caricatore, riposi la carabina nella custodia e mi apprestai ad abbandonare quel luogo di morte.
Lasciai il fiordo mente la foschia iniziava a infittirsi. La vidi calare dai versanti dell’insenatura come uno spettrale fiume di nebbia. All’imboccatura del canalone, essa prese a mescolarsi con la bruma proveniente dal largo, divenendo pressoché impenetrabile.
Il cielo era ancora basso e grigio, e l’acqua si mostrava più cupa che mai.
Era un martedì mattina come tanti, e la temperatura dell’aria toccava i sette gradi sotto lo zero.
II
Io sono pazzo.
Beninteso, non un pazzo da barzelletta. Il mio disturbo si chiama schizofrenia allucinatoria, il che vuol dire che sento voci che non esistono e parlo con persone che non fanno parte della realtà. In pratica è come se il mio cervello creasse un mondo di fantasia e lo affiancasse a quello autentico. Per i miei sensi esistono due dimensioni sovrapposte. Una è quella vera. Quella, cioè, che tutti i normali percepiscono. L’altra compare solamente a salti, quasi come un’interferenza. È un mondo sfuggente ed evasivo. Un mondo sottile.
Tutto questo per dire che la mia mente, da qualunque parte la si voglia prendere, è niente più che un ingranaggio guasto.
Durante le prime crisi allucinatorie, trovavo molto difficile distinguere i fantasmi della mia mente dalla realtà. Le persone che avevo d’intorno mi vedevano rispondere a domande che nessuno mi aveva posto e stringere le mani a corpi fatti d’aria. Non sempre la prendevano bene. Qualcuno si tirava indietro, altri si spaventavano di brutto. Con il tempo, tuttavia, imparai a discernere le voci e le immagini false da quelle vere. Un giorno, un dottore dal camice bianco mi disse che avrei dovuto sforzarmi d’ignorare le prime.
Gli domandai quale fosse il motivo di quella richiesta.
«Perché le allucinazioni non sono realtà» rispose lui, «sono solo cose che il tuo subconscio genera dal nulla».
La sua risposta non mi piacque per due motivi. Il primo è che pronunciò quella parola –cose- quasi con disprezzo, neanche fossero spazzatura. Il secondo è che non capii per quale motivo dovessi far finta di non vedere qualcosa che, a conti fatti, per me era tutt’altro che immaginario. E se i fantasmi mi avessero chiesto l’ora esatta? Non avrei forse dovuto rispondere? Sarebbe stato quantomeno scortese, da parte mia.
Iniziai a comprendere le motivazioni del dottore solamente molto tempo dopo. La gente, quando mi vede parlare con il nulla, reagisce con perplessità. Si sente a disagio. Solo che non tutti reagiscono alla stessa maniera. Qualcuno prova imbarazzo e si allontana. Prende le distanze, si dice. Altri pensano che li stia prendendo in giro, e in quel caso può capitare che nascano delle incomprensioni.
A ben vedere, insomma, il suggerimento dell’uomo in camice bianco non era privo di ragioni. Si chiamava Walter Santini, e si chiama tuttora così, perché le persone nascono con un nome e lo mantengono fino al momento della loro morte. Di tante cose che cambiano durante la vita di un uomo, il nome è una delle poche che tende a restare così com’è.
Secondo il dottor Santini, parlare col nulla era un atto che solamente un pazzo poteva compiere. Di per sé, in questo non ci sarebbe nulla di male. Il problema è che alcuni pazzi sono anche pericolosi. Prendono i bambini senza permesso, li scuoiano e ne fanno paralumi per le lampade da comodino. Infastidiscono le vecchiette. A volte le picchiano con le chiavi inglesi. E poi investono i ciclisti con l’automobile. Se ne sentono raccontare di tutti i colori, in giro. Perciò, se si è un po’ svitati, è meglio tenere la cosa per sé e assuefarsi al corretto e sano modo di vivere della gente normale.
L’ho fatto anch’io, per un certo periodo di tempo, o perlomeno ci ho provato. Ma poi è comparso lui, il demone, e da lì in avanti le cose hanno iniziato a prendere una brutta piega.
III
Havenhagen è un villaggio piccolo e silenzioso. Una colonia di pescatori. Mi piacciono i luoghi solitari, perché in essi, se si sta zitti e ci si sforza di ascoltare, è possibile udire i mille suoni della natura. Il vento, ad esempio, nasce come il semplice spostamento di masse d’aria da un punto a un altro del globo terrestre, e tuttavia parla con voci differenti a seconda dei luoghi che oltrepassa. Sibila sopra le rocce, sussurra sulle sabbie, soffia sui prati e bisbiglia fra i canyon. A volte urla e, quando lo fa, non ha importanza da che parte è diretto.
In città, invece, il vento tace. Se parla, lo fa quasi sempre con rabbia e ostilità, quasi si rendesse conto d’essere arrivato in un luogo artefatto e tentasse di tornare indietro. Che cosa potrebbe raccontare, in fondo, fra nastri d’asfalto e ciclopi di cemento? Chi mai sarebbe disposto ad ascoltare le sue parole? Le città sono popolate da gente sorda. In esse la voce del vento è bandita, così come lo sono la luce delle stelle e l’odore della ragia di bosco. Al loro posto vi sono i lampioni, la puzza di benzina bruciata e i rumori isterici della civiltà. Per questo il vento odia le città.