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Cultura Afro-americana o cultura anglo-americana?
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Ebook188 pages2 hours

Cultura Afro-americana o cultura anglo-americana?

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Un popolo, selvaggiamente sfruttato per secoli, massacrato nel corpo e nello spirito, si risolleva, acquisendo potere e visibilità, fino al punto di portare un suo figlio a ricoprire la carica piú alta del suo Paese, diventando, pertanto, l'uomo piú potente del pianeta: Il Presidente degli Stati Uniti d'America.
LanguageItaliano
Release dateJul 1, 2018
ISBN9788833461700
Cultura Afro-americana o cultura anglo-americana?

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    Cultura Afro-americana o cultura anglo-americana? - Francesco Prandi

    I

    CULTURA AFRO-AMERICANA O CULTURA ANGLO-AMERICANA?

    È corretto parlare oggi di una cultura afro-americana negli USA?

    Il modo migliore per rispondere a questa domanda è quello di ripercorrere criticamente alcune delle interpretazioni più significative che cercano di spiegare l’evoluzione culturale verificatasi fra gli afro-americani dall’inizio della schiavitù fino ai nostri giorni.

    L’antropologo Melville J. Herskovits nel suo libro The Myth of the Negro Past, comparando le diverse sopravvivenze africane, da lui riscontrate nella cultura afro-americana, con le culture originali africane, sostiene la teoria della re-interpretazione.¹

    In pratica, egli dice che il nero, essendo stato sradicato dalla sua terra e portato a vivere in un paese a lui completamente sconosciuto, per sopravvivere ha dovuto adattarsi al nuovo ambiente, anche se lo stesso rimaneva per lui ostile e impenetrabile. Questo adattamento, però, egli lo ha sempre fatto con la propria mentalità, cioè quella africana, re-interpretando l’America attraverso l’Africa.

    Il sociologo afro-americano E. Franklin Frazier, nel suo libro The Negro in the United States sostiene che la schiavitù, durata oltre due secoli, ha praticamente distrutto la cultura africana, per lo meno negli Stati Uniti, lasciando soltanto un enorme vuoto e un totale stato di disorganizzazione culturale. Questa teoria, che si potrebbe chiamare della distruzione, esclude quindi che si possa oggi parlare di cultura afro-americana, ma solo di cultura anglo-sassone.²

    L’antropologo francese Roger Bastide, nel suo libro Le Americhe Nere analizza i vari aspetti della cultura afro-americana delle Americhe. Mano a mano che si va avanti nella lettura dei capitoli risultano evidenti alcuni aspetti importanti dello sviluppo di dette culture, dei quali, sia Herskovits che Frazier non avevano tenuto conto, portandoli, quindi, a conclusion erronee.³

    Herskovits, tenendo fisso l’occhio sulle sopravvivenze culturali africane, ha perso di vista il peso della enorme forza disgregatrice della schiavitù che, nel giro di poche generazioni, ha quasi distrutto il retaggio culturale africano, costringendo, in molti casi, gli schiavi non a re-interpretare ma ad appropriarsi di forme esistenziali che l’ambiente offriva. La re-interpretazione però c’è stata, altrimenti non potrebbero spiegarsi i numerosi africanismi da lui riscontrati fra i neri-americani e che si sono conservati fino ad oggi.

    Si può parlare di re-interpretazione per molti aspetti folkloristici, religiosi, magici, gastronomici ed altro; ma il fenomeno di re-interpretazione più vistoso e più culturalmente valido si è avuto nella musica, dove il Nero, pur subendo l’influenza dell’ambiente musicale bianco, ha preso solo quello che più gli conveniva, e la selezione è stata determinata dalle sue abitudini africane.

    Frazier, da parte sua, tenendo l’occhio fisso sull’effetto distruttivo provocato dalla schiavitù, non si rese conto delle sopravvivenze culturali africane e ha, inoltre, sottovalutato il temperamento nero, che ha conferito agli afro-americani dei lineamenti culturali di una evidente originalità. Ciò non toglie che una distruzione culturale ci sia stata. I due secoli di schiavitù legale passati negli USA dagli afro-americani hanno sconvolto completamente il loro originario sistema sociale, politico, economico, religioso e, soprattutto, culturale.

    Eppure accadde qualcosa che impedì il loro completo isolamento dall’Africa.

    Il flusso degli schiavi neri verso gli Stati Uniti è durato fino a quando è durata la schiavitù, con punte massime proprio quando la stessa era stata proibita. Ciò fu dovuto alla maggiore quantità di cotone lavorabile utilizzando le nuove macchine inventate i primi anni del secolo XIX; quindi, a una maggiore possibilità di lavorazione corrispondeva una maggiore necessità di produzione della materia prima (il cotone nei campi), e si sa bene chi ne erano i procacciatori. Perciò, prima legalmente, poi illegalmente, la tratta negriera integrava continuamente le scorte.

    Ne deriva che lo sradicamento con l’Africa, brusco e totale, di cui Frazier parla, non c’è stato, o meglio è stato attenuato dai continui nuovi arrivi di neri dall’Africa, che, in pratica, hanno fatto da trait-d’union, non permettendo una rottura decisiva con la cultura africana.

    Inoltre, durante la schiavitù gli unici a non lavorare erano i vecchi e i bambini, e si verificò allora quello che spesso accade ancora oggi in molte parti del mondo: i bambini vengono allevati dai vecchi. Le persone anziane sono portate a rivivere il passato, a raccontare storie che cominciano sempre con il classico: ai tempi miei…

    Ed è proprio in questo modo che usanze, tradizioni, leggende e storie africane sono state tramandate da una generazione all’altra, anche se col passar del tempo le stesse venivano sempre più arricchite, trasformate e adattate alle necessità contingenti dell’ambiente circostante. I racconti di animali e le favole di Uncle Remus ne sono un classico esempio. Inoltre, sia la re-interpretazione che la distruzione presentano il lato a critiche di natura politica e sociale.

    La re-interpretazione di Herskovits, secondo Bastide:

    «… Non fa forse nient’altro che dare forma moderna alla vecchia teoria segregazionista nordamericana? Di fatto, sostenendo che il Nero ha dovuto adattarsi al nuovo ambiente, ma che l’ha sempre fatto con la propria mentalità, re-interpretando l’Occidente attraverso l’Africa, non riconosce forse proprio con questo che la mentalità dell’Africano non cambia; non dà forse così ragione a quanti affermano che il Nero è inassimilabile?»

    Le critiche che invece possono muoversi a Frazier sono di natura opposta. Egli nega totalmente l’esistenza di una cultura nera, con il fine evidente di accelerare così il processo di integrazione dei neri nella società nordamericana. Cioè, nel processo di integrazione da lui auspicato non ci sarebbe stato il passaggio dalla cultura africana a quella americana, ma solo quello dalla disorganizzazione totale alla riorganizzazione del gruppo, secondo il modello offerto dalla società circostante. E quest’ultimo era, stando a Frazier, molto più facile da ottenere.

    Egli aveva sicuramente intuito il pericolo esistente nella teoria della re-interpretazione, indirizzando, quindi, il suo studio verso lo smantellamento della stessa.

    Non s’accorge, però, che in tal modo andava incontro a un altro grave pericolo: dare una mano a quegli studiosi che giustificavano la mancata integrazione dei neri adducendo, falsamente, come motivo principale, oltre al razzismo, proprio l’assoluta mancanza di una cultura nera autonoma, che ha impedito loro di costituire un’organizzazione sociale-politica omogenea, senza la quale è difficile progredire nel processo di assimilazione.

    Tale interpretazione mira essenzialmente ad alleggerire il peso della colpa che opprime la maggior parte degli intellettuali bianchi, scaricandone una buona parte sulle spalle delle stesse vittime. Infatti, essi si chiedono: «perché gli altri gruppi etnici, quali ad esempio gli italiani, i polacchi, gli irlandesi e gli ebrei sono riusciti a integrarsi nel volgere di un paio di generazioni, mentre i neri non ne sono stati mai capaci pur avendo a disposizione oltre trecento anni?»

    Di rimando, rispondono che molte responsabilità debbono essere attribuite ai neri, altrimenti il fenomeno sarebbe veramente inspiegabile.

    Così, proseguendo di questo passo, e comparando i mezzi impiegati dai suddetti gruppi etnici per raggiungere la piena cittadinanza, con quelli utilizzati dal gruppo etnico nero, essi hanno convenuto che quest’ultimo mancava proprio di quegli strumenti che avevano permesso la completa assimilazione degli altri, e cioè: «una cultura autonoma, una solida base economica, e leader di valore.»

    Nessuno mette in dubbio l’importanza dei fattori soggettivi che hanno facilitato l’ascesa degli italiani, degli irlandesi, dei polacchi e degli ebrei, provenienti da mezzo mondo; ma da questo a una interpretazione di tipo soggettivistico e, comunque, meccanicistico, ce ne corre! Il fatto è che questi studiosi non accettando, per una molteplicità di fattori soggettivi e oggettivi a un tempo, o sottovalutando il metodo marxiano d’analisi, sono caduti in interpretazioni riduttive e astoriche, non avendo tenuto conto delle necessità del sistema capitalistico e quindi della specificità della condizione sociale e politica in cui i neri, loro malgrado, venivano a trovarsi all’interno del sistema stesso.

    Questo sistema, infatti, li doveva mantenere ancorati saldamente all’ultimo gradino dei valori sociali, per permettere così, attraverso il loro sfruttamento – ma non solo il loro – da un lato l’assimilazione e l’ascesa economica e politica degli altri gruppi etnici di razza bianca, dall’altro lo sviluppo e il consolidamento del processo di accumulazione capitalistico. Tale fenomeno spiega come molte persone intelligenti siano cadute nell’errore di credere la società americana interclassista, con uguali opportunità per tutti i cittadini. Non dimentichiamo che non sono le eccezioni a fare la regola, bensì il contrario.

    Si vedrà nei capitoli successivi come questa grande illusione, così radicata nel credo americano, mostrataci anche da una infinità di film hollywoodiani, sia in realtà una grande menzogna.

    A questo punto sembra superfluo dire che l’interpretazione suddetta risulta falsa e mistificatoria anche laddove nega l’esistenza di una cultura nera, perché si è visto a che cosa tende in realtà tale negazione.

    E, ritornando a Frazier, appare ancora più evidente il paradosso riscontrabile nella sua interpretazione, e cioè:

    a) negazione di una cultura nera autonoma per ottenere una più rapida integrazione degli afro-americani;

    b) appoggio involontario a quella interpretazione data da molti studiosi bianchi che fa risalire la mancata integrazione dei neri principalmente alla mancanza di una loro cultura autonoma.

    Altri studiosi di fama internazionale hanno dato ulteriori interpretazioni sulla natura della cultura afro-americana, ma più o meno si pongono tutti fra Herskovits e Frazier.

    Secondo Gunnar Myrdal, ad esempio, la cultura afro-americana negli USA rappresenta la deformazione patologica di quella bianca dominante.

    Anche lui, come Herskovits e Frazier, viene allontanato dalla verità da erronei orientamenti ideologici, nonostante le premesse da lui fatte all’inizio della sua analisi, e ciò conferma, ancora una volta, che lo studioso di scienze sociali non può prescindere dall’ideologia di base, perché essa, volente o nolente, finisce sempre per interagire, inficiando ogni presunzione di oggettività, e i risultati che si ottengono, laddove si parte su basi ideologiche errate, sono sempre inesatti o perlomeno ambigui e contraddittori.

    Si è lasciato Myrdal volutamente per ultimo perché la critica della sua interpretazione, oltre a chiudere il capitolo, spiega anche il corretto sviluppo della cultura afro-americana negli USA.

    Secondo lui, lo schiavo nero, per uniformarsi al mondo del padrone, si sforzò di imitarne gli atteggiamenti e i comportamenti, ma essendo costretto a vivere nei campi e nelle baracche di raccolta, e provenendo inoltre da una cultura diversa, non era in grado di capire tutta la complessità dei simboli, dei valori e dei significati che costituivano il mondo culturale del suo padrone, ricavandone, in tal modo, solo una deformazione patologica della sua cultura, che, a sua volta, è bene ricordarlo, non era altro che una scimmiottatura di quella inglese. Quindi, lo schiavo assimilò nientemeno che la versione distorta e degradata di una cultura che era già per sé stessa una imitazione.

    Le cose andarono però diversamente. Che i neri abbiano assimilato una versione degradata e distorta della cultura bianca egemone è fuori discussione, altrimenti non avrebbero mai accettato il pregiudizio della loro inferiorità razziale, ma è altrettanto vero che le stesse condizioni sociali e politiche che hanno provocato tale fenomeno hanno contribuito anche a produrre una cultura del popolo oppresso, la quale, partendo dai non molti elementi di quella africana sopravvissuti allo sradicamento, si è sviluppata sotterraneamente e in opposizione a quella dominante, e, come dice Alberto Martinelli: «… il razzismo, impedendo la piena partecipazione dei negri alla cultura dominante, ha fatto sì che il bisogno di significati, simboli e forme espressive venisse ricercato altrove.»

    Proprio da questa ricerca nacque e si sviluppò la cultura afro-americana, che non poteva essere di certo colta – ed è questo l’errore storico di Myrdal – ma, come già detto, essendo essa frutto di un brutale trapianto dei neri in un’altra e diversa organizzazione sociale, e, sviluppatasi sotto l’oppressione, doveva per forza essere una cultura popolare che, nelle sue espressioni più originali, raggiunge vertici di assoluta grandezza, come, ad esempio: la favolistica, i canti popolari, gli spiritual, i gospel, il blues e il jazz, insomma tutto ciò che costituisce la cultura soul, che, Charles Kiel, nel suo libro Urban Blues, definisce come complesso di elementi che vanno «… dalla ricchezza della vita emotiva all’autenticità dei rapporti umani, alla saggezza acquisita attraverso la sofferenza.»

    Altro che trasposizione patologica! Qui ci si trova di fronte a tutte le espressioni originali della musica americana in assoluto. C’è, inoltre, da tener conto che le suddette espressioni culturali, scaturendo da uomini e donne costretti a mascherare il loro pensiero per non incorrere nelle ire dei padroni, erano giocoforza a carattere simbolico. Così il Mar Rosso delle loro canzoni sugli ebrei diventava il Mississippi, il grande fiume che li separava dalla libertà. Il simbolismo però era anche di derivazione africana – realtà favolosa, mitica, religiosa. Ancora oggi le culture del Continente Nero sono fortemente simboliche.

    Si verificò così che il simbolismo dei neri venne sotterraneamente a incontrarsi con quello di derivazione puritana dei bianchi, provocandone, quindi, un rafforzamento, che ha contribuito a farne una delle caratteristiche costanti della letteratura americana. Due tradizioni vengono a incontrarsi sul piano del simbolismo che, in tal modo, ne costituisce un elemento di unione.

    È opportuno, infine, evidenziare l’aspetto più interessante della cultura afro-americana che, politicamente parlando, va recuperato e difeso, e cioè il fatto incontestabile che essa rappresenta la sintesi e il risultato di un’esperienza storica di resistenza e di lotta. Solo in questo modo «… il nazionalismo nero non rischia di perdersi nell’operazione intellettualistica del recupero di una mitica cultura ancestrale africana e soprattutto può evitare di divenire lo strumento per una forma più raffinata e indiretta di sfruttamento e di controllo dei neri americani, che consente loro una certa autonomia come valvola di scarico della protesta. Solo in questo modo la difesa della cultura nera può consentire un collegamento reale con i popoli africani non sulla base di analogie culturali…, ma sulla base della comune esperienza di lotta contro l’imperialismo, in tutte le sue forme. Ed infine, solo in questo modo non si preclude l’alleanza con le classi subalterne della società americana e con i radicali bianchi, perché la specificità della cultura nera come patrimonio delle lotte e della resistenza del popolo nero trova

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