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Cinema Italiano: forme, identità, stili di vita
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Cinema Italiano: forme, identità, stili di vita
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Cinema Italiano: forme, identità, stili di vita

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II cinema è italiano. Questa affermazione decisa apre il volume di Roberto De Gaetano sulla tra dizione del nostro cinema dagli anni trenta del Novecento ad oggi. Con la modernità cinematografica il cinema rifonda le sue forme e rivela al tempo stesso la sua essenza, perchè ci riconsegna un reale senza più la mediazione dell'azione e della narrazione, attraverso una vicinanza alla "vita indiscriminata", che viene restituita in un intreccio di rivelazione ed invenzione. In questa, il cinema italiano ha giocato un ruolo fondativo per una serie di ragioni che vengono ampiamente analizzate nel libro, e che riguardano anche la storia culturale di un Paese, animato da un'alternanza tra scetticismo e fiducia, adesione patetica e distacco comico dal mondo. Quest'alternanza ha dato vita ad una innovativa, e per molti versi unica, invenzione e contaminazione di forme, che giunge felicemente fino all'oggi. II libro si misura con autori che vanno da De Sica a Rossellini, da Monicelli a Germi, da Antonioni a Pietrangeli, da Ferreri a Petri, per giungere al cinema contemporaneo e a figure come Martone e Servillo, Bellocchio e Moretti, e ad opere quali Gomorra - La serie e Loro.
LanguageItaliano
Release dateJul 5, 2018
ISBN9788868227043
Cinema Italiano: forme, identità, stili di vita

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    Cinema Italiano - Roberto De Gaetano

    Collana diretta da

    Roberto De Gaetano

    Serie

    No Man’s Land

    ROBERTO DE GAETANO

    CINEMA ITALIANO:

    FORME, IDENTITà, STILI DI VITA

    Frontiere. Oltre il cinema

    Collana diretta da Roberto De Gaetano

    Comitato scientifico

    Gianni Canova, Francesco Casetti, Ruggero Eugeni,

    Pietro Montani, Dork Zabunyan

    Revisione e cura editoriale di Raffaello Alberti

    Proprietà letteraria riservata

    © by Pellegrini Editore - Cosenza - Italy

    EDIZIONE EBOOK 2018

    Via Camposano, 41 (ex Via De Rada) - 87100 Cosenza

    Tel. (0984) 795065 - Fax (0984) 792672

    Sito internet: www.pellegrinieditore.com - www.pellegrinilibri.it

    E-mail: info@pellegrinieditore.it

    ISBN: 978-88-6822-704-3

    I diritti di traduzione, memorizzazione elettronica, riproduzione e adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    Ai cineasti italiani, di allora e di ora,

    senza i quali non ci sarebbero state

    molte delle cose che ho amato,

    e di cui ho scritto.

    Introduzione

    Il cinema è italiano

    «Il cinema moderno è nato con l’Europa distrutta, gli italiani lo hanno inventato. Nasce con Rossellini e muore trent’anni dopo con Pasolini». Queste parole di Serge Daney sanciscono, se ce n’era bisogno, la fondazione italiana della modernità cinematografica. Ed essendo quest’ultima anche la forma determinata in cui l’essenza del cinema si è rivelata (come pensava Bazin), ne consegue che è esistito ed esiste un legame stretto tra i caratteri del cinema italiano e l’essenza del cinema tout court.

    Se il cinema è la forma di espressione che più direttamente ha corrisposto alle forme di vita capitaliste, sia come dispositivo tecnico-espressivo che economico (il rapporto del cinema con il denaro non è ancillare, ma consustanziale), questa corrispondenza ha preso due forme: quella del potere del capitale e dell’immaginario come suo mezzo di realizzazione (cinema americano), e quella che ha colto tra le macerie e i fantasmi del potere stesso la potenza della vita (cinema italiano, a partire dal neorealismo).

    Il Paese più giovane e cosmopolita (Stati Uniti) e la nazione con la più recente e travagliata identità (Italia), entrambi lontani dal tratto assoluto e identitario delle grandi monarchie occidentali (che si sono rispecchiate più naturalmente nella statualità del teatro), hanno usato con maggiore forza di altri il cinema come forma di espressione vicina alla vita e ad essa strettamente intrecciata.

    Il cinema americano ha riconsegnato queste forme attraverso l’azione e i generi che l’hanno rappresentata, dando vita alla costruzione del più potente ordine della mimesi novecentesco, adottabile e adottato – come intuito da Stiegler – da tutti (innumerevoli spettatori su base planetaria), e che è stato capace di adottare tutti (registi e professionalità in fuga dal nazismo).

    Il cinema italiano, giunto alla vita nel momento in cui l’Europa era in macerie per guerra e fine dittature, è stato invece capace di rinascere e reinventare il cinema proprio al di là dell’azione, sospendendola e sostituendola con le forme dell’erranza e della veggenza dei personaggi, con la forma-bal(l)ade del film (come detto da Deleuze), che ha destituito alle fondamenta lo schema dell’azione volontaria, segnato da obiettivi e valori, e da un soggetto forte (eroe) capace di realizzare i primi ed incarnare i secondi.

    Sono due ontologie distinte in ballo, dalle radici profonde: una fondata sull’azione come forma di realizzazione compiuta della vita, con Aristotele come primo referente (ben riassunto dal successo della Poetica nelle scuole di sceneggiatura americane); un’altra incentrata invece sulla vita oltre l’azione, la «indiscriminata vita» (Alicata), la vita senza altra determinazione, che si realizza negli scarti tra un’azione e l’altra, negli intervalli di tempo, negli spazi vuoti, nel presente contingente, nell’assenza di volontà, nella reinvenzione di ciò che esiste, nello sguardo contemplativo e rituale (di cui Platone è stato il primo referente).

    La prima è un’ontologia della praxis, la seconda dell’essere. Per questo, oltre l’America e l’Italia (e il loro legame stretto non è stato e non è casuale), tutto il resto per il cinema è stato epifenomeno. Ma se l’ontologia della prassi si è saldata nel mythos come mimesis praxeos, quella dell’azione sospesa si è sviluppata in forma più articolata, libera e differenziata, senza il controllo dell’intreccio e della sua logica.

    La sospensione dell’azione ha preso corpo, nel nostro cinema, in una duplice direttrice: nell’invenzione romanzesca del reale, avviata dal neorealismo, proseguita con forza dal cinema d’autore e giunta fino all’oggi, che ha visto la creazione di alcuni dei più grandi personaggi della nostra tradizione (tra quelli di cui qui si parla: la Katherine di Viaggio in Italia e l’Adriana di Io la conoscevo bene); e nella costruzione di maschere, per le quali l’azione ripetuta non innova, ma conferma il carattere, il suo essere (tra i capitoli del volume, quelli dedicati a La grande guerra o alle commedie di Germi).

    Il personaggio romanzesco, come aveva felicemente intuito Pasolini nelle pagine di Empirismo eretico, non ha nulla a che fare con l’attante del cinema d’azione, perché svolge la funzione di intercessore dell’autore e per questo il suo rapporto con il mondo non è mimetico, ma deve essere non-integrato, malato, in crisi (i personaggi della Vitti in Antonioni o quelli di Mastroianni in Fellini).

    E anche le maschere, ereditando di una tradizione profonda e declinandosi in senso grottesco, segnano il momento in cui il quotidiano si sottrae alla sua elaborazione narrativa e sfuma o nel gesto comico e metafisico (sia esso la piroetta di Totò o la stasi di Eduardo) o nella caricatura del tipo e dell’habitus sociale (da Sordi a Gassman).

    In entrambi i casi, nulla di ciò che accede a rappresentazione coincide con il senso depositato in una prassi che si fa storia, narrazione.

    E tutto questo continua ad attraversare con grande forza il presente del nostro cinema, da un lato teso ad inventare ciò che esiste e dunque a trasfigurare lo sguardo (preteso) documentario nel favolistico o nel rituale (da Le quattro volte a Bella e perduta), fino alla reinvenzione e al trascendimento della cronaca stessa, da Gomorra a Dogman; dall’altro teso ancora a tradurre il presente pubblico, sociale e politico, in maschere, come quella di Servillo/Berlusconi in Loro.

    Nessun nome proprio individua il film. Dunque, nessun indice di saldatura tra destino individuale, ruolo pubblico e storia singolare nel cinema italiano, come è tipico del tragico ma anche dell’epico americano: da JFK a J. Edgar a Lincoln. Ma o personaggi-intercessori dove il nome è invenzione poetica (Il giovane favoloso) e ruolo sociale (Dogman), o la generalità del nome/maschera che trascende ogni singolarità, come ne Il caimano o Il divo.

    Insomma, sia attraverso i personaggi romanzeschi che le maschere della commedia, emerge come nel cinema italiano ci sia la sconfessione più radicale della forma dell’azione e della sua imputazione ad un soggetto responsabile, attraverso la costruzione di una mimesi narrativa forte. Questa sconfessione va dall’episodico di Paisà a quello de I mostri, dall’erranza di Ladri di biciclette, Viaggio in Italia, La grande guerra, L’eclisse, Io la conoscevo bene, fino ad Habemus Papam (per citare solo alcuni dei titoli di cui si parla nel libro), per giungere ad una forma strutturalmente imperfetta della narrazione (l’opposto delle sceneggiature di ferro americane), dove personaggi e storia debordano da tutte le parti, portando due film in uno (come nel recente Moretti), o facendo di un solo film due (come in Loro).

    Se dunque il cinema, dalla modernità in poi, è stato ed è italiano, questo è accaduto per una ragione profonda, che ha saldato modi e stili di vita ad una forma espressiva capace di reinventare e credere nel mondo al di là della ontologia dell’azione e della logica dell’intreccio.

    Inventare il mondo non in un altrove ma qui significa incontrarlo in una contingenza singolare che non lo subordina ad alcuna storia. Incontro capace quindi di aprirsi alle rivelazioni e creazioni più sorprendenti, che anche se partono da luoghi, corpi, volti di un reale singolare sono capaci di trasfigurarlo nel modo più potente possibile.

    Perché il reale è tale, cioè consistente e verosimile, solo se è investito da una prassi. Ma se invece è contemplato, visionato, attraversato da passeggiatori e veggenti (come accade nel grande cinema italiano), allora quel reale diviene, attraversa gli intervalli, precipita negli scarti, si trasfigura in forma immaginaria, si rende costitutivamente impuro (ancora Bazin), acquistando una verità non verosimile, come testimoniano i grandi finali di film come Viaggio in Italia, L’eclisse, , Buongiorno, notte, Il caimano.

    Questa verità non verosimile, che rende indiscernibile reale e immaginario, soggettivo e oggettivo, è la stessa del cinema. Il cinema è l’arte fondata costitutivamente su tale indiscernibilità, nonostante si sia da sempre tentata la lettura pacificante, incentrata sull’opposizione Lumière-Méliès. Questa verità emerge quando è possibile che emerga, cioè quando crollano, con la guerra e i totalitarismi, tutte le illusioni. Solo allora il cinema, attraverso l’Italia, può scoprire la sua verità, cioè l’invenzione del reale come ciò che già esiste.

    E per fare questo, sarà la via contemplativa delle immagini piuttosto che quella pratica a guidare tale invenzione; saranno i personaggi-intercessori dell’autore a contare piuttosto che gli attanti, motori della mimesi narrativa; sarà la natura fattasi paesaggio piuttosto che quella restituita come ambiente ad avere un ruolo; sarà lo sguardo aperto alla contingenza singolare del reale a contare, piuttosto che quello orientato a dare forma allo schema senso-motorio.

    E se sarà l’Italia a giocare un ruolo decisivo, questo accade sia per le ragioni di cui parla Godard nelle Histoire(s) du cinéma, nei più bei cinque minuti dedicati al cinema italiano, quando identifica nella lingua di Dante e Leopardi che si riversa nelle immagini le ragioni dell’originalità del nostro cinema; sia per quella ragione più complessa, che già Leopardi nel 1824 aveva individuato nel suo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, che riguarda una vicinanza alla vita, una prossimità all’ordine spontaneo e caotico del vivente, che attraversa le forme di vita italiane nella sfida all’ordine sociale e istituzionale.

    La disattivazione dell’istanza pratica, il dolce far niente, che identifica in un luogo comune sull’Italia una dimensione antropologica, denota l’emergere di una ontologia destitutiva dell’azione. E che, tradotta in estetica, intreccia il senso profondo del cinema, nel quale l’attività dello sguardo si basa sulla passività dell’occhio. È il circuito dell’attivo e del passivo del cinema, che sottrae a quest’ultimo la possibilità di plasmare attivamente il sociale senza eludere la dimensione ontologica del cinema stesso.

    Il cinema dunque rimane un’arte al fondo a-sociale, a-istituzionale e a-nazionale (ciò non impedisce che lo si sia usato e lo si continui ad usare in senso opposto, ma con scarsi risultati), con una dimensione planetaria e naturalmente cosmopolita, dunque legata all’economia. E in questo ha incontrato naturalmente il costume degl’Italiani, che sono stati sempre capaci, contrariamente che in letteratura (come intuito da Gramsci), di partire dalla loro posizione nel mondo, destitutiva di socialità, istituzionalità, nazionalità, al fondo scettica, e di restituirla sullo schermo, confermandola, riscattandola, o riconsegnandola in forma impura nell’abbraccio stretto tra sentimenti e visioni contrapposti e interconnessi.

    Per questo il cinema, dalla modernità in poi, non poteva e non può che essere italiano (come lo confermano anche i film e gli autori più recenti), per la sua capacità innovativa, contaminativa, impura, dunque vicina ad una vita indeterminata, che resiste a tradursi in una forma d’azione, in una logica narrativa.

    Per questo pensare il cinema italiano ha significato per molti critici (da Bazin a Daney) pensarlo senza altra determinazione, pensarlo ed amarlo come l’espressione più pura di una biologia delle forme (su cui torna Deleuze) che non significa naturalità e innocenza di sguardo, tutt’altro, ma processo formativo inscritto direttamente nella incompiutezza e impurità della vita, nel suo tragicomico come contrassegno espressivo più efficacemente icastico di un modo di essere al mondo.

    R. D. G.

    Roma-Rende, maggio 2018

    Parte I

    L’intreccio, il carattere e la vita

    «Si distinsero due specie di commedie, d’intreccio e di carattere. Commedia d’intreccio fu detta, dove l’interesse nasce dagli sviluppi dell’azione, com’erano tutte le novelle di quel tempo anche tragedie. Si cercava l’effetto nella stranezza e nella complicazione degli accidenti. Commedia di carattere fu detta, dove l’azione è mezzo a mettere in mostra un carattere»¹.

    Con queste parole Francesco De Sanctis, riflettendo sulla Mandragola di Machiavelli, pensa la distinzione tra due forme di commedia², eviden-ziando qualcosa di decisivo nella forma commedia stessa e più in generale nel realismo basso-mimetico, qualcosa che riguarda il senso che l’azione in quanto trasformazione della situazione assume nella rappresentazione e nella costruzione dell’intreccio che la istituisce.

    Nella commedia d’intreccio il personaggio deriva dal concatenamento delle azioni narrate, e dunque dall’imitazione dell’azione, istitutiva del mythos. Nella commedia di carattere l’imitazione non riguarderà la praxis come concatenamento imprevisto e sorprendente di azioni (magari risolto nel riconoscimento come dispositivo centrale della costruzione narrativa), ma concernerà l’azione in quanto mimetica del carattere stesso. L’azione nella commedia di carattere, e dunque nella commedia di maschere, varrà solo in quanto confermativa del carattere stesso, e discenderà dunque da questo in forma iterativa e prevedibile: le azioni dell’avaro non faranno che confermare la sua avarizia e via dicendo.

    Questa macro-distinzione fra intreccio e carattere necessita comunque di articolazioni interne (tra intreccio e intreccio, carattere e carattere), che ci permetteranno di comprendere meglio le strutture mitiche che sono a fondamento del realismo della commedia.

    L’intreccio come imitazione dell’azione

    Da Aristotele sappiamo che l’intreccio è imitazione dell’azione, e che questa imitazione si distingue in primis rispetto alla tipologia sociale dei personaggi rappresentati e alle loro modalità d’azione. È ciò che distingue, per esempio, un personaggio tragico da uno comico: il primo è superiore a noi, il secondo uguale a noi, il primo ha la capacità di compiere certe azioni, il secondo no³. Ma questo non basta naturalmente, perché l’intreccio tragico ha un carattere espulsivo: espelle, fino alla morte reale o simbolica, il personaggio in posizione esposta (sovrano, principe) che ha compiuto un errore anche in forma inconsapevole, dunque non passibile di rientrare nel giudizio morale; mentre l’intreccio commedico ha un carattere integra-tivo e tende a far ritrovare nel finale la società intorno all’eroe, o agli eroi, spesso una coppia di giovani, che hanno superato tutti gli ostacoli frapposti dal senex alla realizzazione del loro sogno matrimoniale.

    Dunque, è un certo tipo di intreccio, ed un finale integrativo, oltre ad una costitutiva analogia con l’esperienza ordinaria, che definiscono l’in-treccio e il personaggio commedico come suo effetto.

    Ma la tipologia di intreccio commedico può svolgersi in due direzioni, messe a fuoco nello studio più significativo sulle forme generiche che il Novecento ci ha restituito, e cioè Anatomia della critica⁴ di Frye, che parla dunque, nella critica degli archetipi, di due possibili direzioni narrative, una ricorsivo-rituale e una onirico-desiderante, sintetizzate da quelle trame gene-riche che Frye chiama mythoi. Ciò che concerne tragedia e commedia non è tanto il movimento ciclico-rituale, sia esso collocato all’interno del mondo ideale dell’innocenza (romance) o di quello reale dell’esperienza (ironia), ma è quello dialettico, animato dal desiderio, e che riguarda il movimento verso il basso della tragedia, che porta alla catastrofe, o quello verso l’alto della commedia, che permette il costituirsi di una nuova comunità.

    Il movimento dialettico e verticale della commedia può realizzarsi o nel mondo ideale o in quello reale, e può attraversare le strutture intermedie che intercorrono tra l’uno e l’altro. Quando il movimento commedico è orientato verso l’idealità del romance abbiamo la commedia romantica, quando verso la dimensione del realismo radicale abbiamo la commedia ironica.

    Naturalmente, il movimento dialettico non è separabile da quello ciclico e rituale, per cui il punto di approdo riprende ciò che c’era prima dell’i-nizio dell’azione. La desiderabilità del mondo a cui approda la commedia d’intreccio, il mondo verde – dice Frye – è una sorta di età dell’oro che precede l’inizio della commedia.

    Detto altrimenti, il passaggio dall’illusione alla realtà, dalla pistis alla gnosis, che mette in scena la commedia, diventa in buona sostanza passag-gio da una illusione ad un’altra. L’ostacolo del senex iratus viene superato, la società si afferma nella capacità dinamica di andare avanti, di ritrovarsi intorno al futuro, alla nuova coppia di giovani sposi, ma ciò in cui la so-cietà si ritrova non è che l’ultimo momento (quasi fuori scena) di un primo momento (che precede l’inizio dell’azione), una sorta di momento edenico che individua il tratto ciclico nel movimento dialettico. È la commedia d’intreccio nel suo movimento primaverile (il mythos della primavera lo chiama Frye⁵): superato l’inverno del conflitto con l’oppositore, l’ap-prodo finale alla primavera della vita e della società è dunque quello ad una nuova illusione, che sarà destinata a fungere da successivo oppositore nell’avvicendamento delle generazioni e nel ciclo della vita.

    Uno dei film che ha messo in scena nel modo più limpido e cristallino nel cinema italiano questo mythos primaverile è Due soldi di speranza (1952) di Renato Castellani. Qui vediamo letteralmente all’opera l’ostacolo costituito dal senex (il padre della ragazza) al matrimonio dei due giovani. L’ostacolo viene superato quando il giovane, spinto dal desiderio della ragazza, trova la forza, dopo una serie continua di umiliazioni, di reagire e sfidare il padre di lei, sottrarre la ragazza al suo controllo, condurla verso le nozze, facendosene carico con l’aiuto degli altri. Quest’ultimo passaggio assume la forma del credito che la società dà ai nuovi venuti, raccogliendosi intorno ad essi (come il finale esplicita) e fidandosi dei pagamenti futuri. Vengono dati ai due giovani – a fronte esclusivamente di una promessa: «Pagherò» ripete il ragazzo – vestiti e cose di prima necessità, utili per costruire il loro futuro. Il film mette in scena, dunque, anche il passaggio da una società contadina ed agricola (rappresentata dai vecchi) ad una nuova, urbanizzata, segnata dalle cambiali (e naturalmente rappresentata dai giovani). Passaggio di ge-nerazioni e transito di mondi, secondo una logica sociale sana, che fa sì che ottativo e doveroso vengano a coincidere, come nel caso del matrimonio per l’Italia degli anni cinquanta.

    Questo modello commedico, dove il movimento dialettico si salda a quello rituale e ciclico, permanendo entrambi a livello di un realismo me-dio, non esaurisce affatto le forme della commedia, tutt’altro. Qui Frye è chiaro: esistono varianti della forma commedica primaverile che – lo abbiamo detto – si spostano o verso il livello alto e ideale del romance o verso quello basso dell’ironia. Nella nostra tradizione, cinematografica ma non solo, è verso l’ironia e la satira che il realismo tende a spostarsi, e dunque ci troviamo di fronte a vari esempi di commedia ironica che de-finirei anche commedia scettica, contrassegnata dal fatto che il desiderio dei giovani viene aspirato dall’interesse dei vecchi. Dunque non abbiamo l’illusione né romantica (idealizzazione) né realistica (cioè basso-mimetica), ma la resa, il fagocitamento, la fuga, l’esclusione, finanche l’autoesclusione, del soggetto dalla comunità di riferimento. Eduardo De Filippo è stato nel Novecento l’esempio insuperabile di questa commedia scettica⁶. Tutte le sue commedie, a partire da Natale in casa Cupiello, sono fondate su una sorta di fissazione comica, sulla figura dell’humour, la cui azione non si sviluppa in un intreccio ma diviene mimetica della fissazione stessa che la determina, in questo caso quella di Luca Cupiello per il Presebbio (il Presepe). Fissazione naturalmente non condivisa dal resto dei familiari, altrimenti non sarebbe tale; e che porta Luca/Eduardo a spegnersi in un farfugliamento solitario.

    Ma anche al cinema Eduardo ha presentato il modello di commedia scet-tica, questa volta ribaltando letteralmente il mondo verde dell’approdo matrimoniale in un mondo grigio, se non nero. In Ragazze da marito, e siamo ancora nel 1952, cioè in un periodo in cui nel cinema italiano si facevano commedie incentrate sul matrimonio, visto dal punto di vista dei giovani (oltre a Due soldi di speranza, abbiamo Le ragazze di Piazza di Spagna, Poveri ma belli ecc.), Eduardo racconta nel film il matrimonio visto dal punto di vista degli adulti, capaci solo di sequestrare il desiderio dei gio-vani. Una madre vuole sistemare socialmente le sue tre figlie, cercando per loro il matrimonio giusto, e per fare questo costringe il marito (Eduardo De Filippo), impiegato pubblico, alla corruzione, perché le servono i soldi per andare in vacanza con le figlie nelle spiagge giuste, dove trovare ma-riti benestanti. Il tentativo di manipolare le figlie e il loro destino risulterà fallimentare: una rimarrà incinta ma senza marito; un’altra si potrà sposare ma a condizione di non rivedere più la sua famiglia d’origine, cioè i suoi genitori, condizione richiesta dal neo-marito quando viene a scoprire che il padre di lei è un corrotto; un’altra ancora farà un matrimonio regolare ma con un uomo non ricco. La manipolazione che i vecchi operano delle vite dei giovani (qui, come in altri testi eduardiani, è la donna in primis che conduce e manipola la vita familiare, anche quella dell’uomo) sottrae a questi ultimi ogni possibilità di scelta e in fondo di vita. E se accade questo sequestro di vita è perché i vecchi vogliono riscattare le loro vite fallite e infelici, che non contemplano più altra possibilità, attraverso quelle dei giovani (è quello che dice amaramente Eduardo nel finale del film alla moglie).

    In ogni caso, in Eduardo la commedia scettica (o ironica nei termini di Frye) passa ancora per la mediazione di un intreccio, che trova sempre nel matrimonio il suo momento fondamentale. La sua non è commedia primaverile ma autunnale, e non c’è nessun mondo fertile e generati-vo che segue alla fine della commedia. Nessuna età dell’oro, semmai un malinconico tramonto di una vecchiaia priva di serenità e maturità, e con-trassegnata da una continua manipolazione di uomini e cose nel

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