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Atto di fede
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Atto di fede

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About this ebook

Andrea è un ragazzino cresciuto tra i boschi insieme alla madre. Innamoratosi di Aidoann, appartenente a una famiglia di nomadi, abbandona la propria casa per ritrovarsi coinvolto in una serie di eventi drammatici che hanno, in qualche modo, come sfondo, le vicende della nostra Italia. Marco La Paglia ci fa immergere nei personaggi (Andrea e il mondo nomade) scrivendo in terza persona: un artefizio letterario che si presta benissimo per questo romanzo di formazione.
(Si parte) dalla città di Genova con la vita di Andrea, (si naviga) fra il mondo nomade, della malavita e del lavoro duro, (si attracca) fra i cuori di un amore lontano e vivido nei ricordi dei marinai, protagonisti delle vite dei personaggi di questo splendido romanzo.
LanguageItaliano
Release dateJul 10, 2018
ISBN9788899333652
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    Atto di fede - Marco La Paglia

    parziale.

    A Fabrizio ed Enrico che la vostra vita sia sempre luminosa e ricca di sogni

    PROLOGO

    Ho detto che se ne deve andare! grida l’omone dalla capigliatura rossa, con il viso che gli si colora di vermiglio e i lineamenti del volto che gli si scompaginano. Qui non ce lo voglio, quel pezzente!.

    Non sta a te decidere chi può o non può stare qua dentro. Questo è un esercizio pubblico, santo cielo.

    Quell’uomo non ha i soldi per pagare e in più è un ladro, uno di quegli sporchi accattoni di rom.

    Lui è mio ospite. Pago io per lui conclude la donna avvicinandosi al vecchio e invitandolo a sedersi al suo tavolo.

    È meglio che me ne vada si schermisce il vecchio.

    Assolutamente no. Lei è mio ospite e berrà insieme a me.

    Il tono della donna, scevro di esitazioni, non ammette repliche.

    Il vecchio, allora, appoggia il bastone che lo aiuta a mantenersi in piedi al bordo del tavolo. Poi inizia una lunga, laboriosa e dolorosa azione che lo porterà, di lì a poco, a sedersi.

    Posso darle una mano?.

    Non si preoccupi, sono abituato a convivere con le mie ossa che fanno le bizze. Soffro di una malattia degenerativa, così almeno mi ha detto il medico che mi ha visitato dice il vecchio, poggiando il sedere sulla sedia, con un ultimo sospiro di sofferenza.

    Mi dispiace.

    Non si deve dispiacere per me. Ho avuto una vita soddisfacente e intensa e se questo è il prezzo che devo pagare per ciò che mi è stato dato, lo pago volentieri aggiunge il vecchio, mentre le rughe spesse presenti sulla sua fronte e al lato della sua bocca si distendono in un sorriso pieno.

    Io mi chiamo Zaira.

    Piacere, Zaira. Io sono Andrea.

    Bene, Andrea. Cosa desidera da bere?.

    Una birra fresca, è proprio da tanto che non bevo una bella birra fresca.

    Due birre chiare, grandi urla la donna al barista che la guarda in cagnesco.

    Come posso ringraziarla?.

    Non ce n’è bisogno. Già il fatto di aver fatto arrabbiare a morte Mario mi dà molta soddisfazione dice la donna, rivolgendo i suoi occhi giallo paglierino in direzione del bancone, nel punto in cui l’uomo dalla capigliatura rossa sta ancora sbuffando e bestemmiando.

    Dove cazzo andremo a finire se in questo paese di merda si aiutano anche i ladri.

    Insisto. Come posso ringraziarla?.

    Se proprio vuole fare qualcosa per me mi racconti qualcosa della sua vita. Prima ha detto che lei ha avuto una vita intensa, no?

    Potrei raccontarle di quando vivevo insieme a mia madre. È da lì che tutto ha inizio.

    I

    Sono nato in una casa isolata ai margini di un bosco.

    Detta così la mia storia, o almeno il suo inizio, sembrerebbe una fiaba, solo che non è propriamente una fiaba per bambini. Fino ai tredici anni d’età l’unica persona che ho visto, oltre a mia madre, era la levatrice che mi ha fatto venire al mondo e che, per qualche anno, mi ha accudito quando mia madre andava al lavoro. Mia madre era una sarta e lavorava in città per una facoltosa dama, almeno così mi era stato raccontato.

    Poi per lunghi anni ho passato il mio tempo perlopiù da solo, con mia madre che rincasava la sera molto tardi, mi preparava la cena e, dopo aver mangiato, mi insegnava a scrivere e a leggere.

    Il mio mondo era il bosco smisurato che si stendeva a perdita d’occhio dietro la mia abitazione.

    Mia madre mi proibiva di addentrarmi nel bosco. Io promettevo di obbedirle, ma poi non lo facevo mai.

    Avevamo raggiunto, io e mia madre, questa specie di equilibrio emotivo. Io non mettevo mai in discussione la sua autorità, almeno non in maniera palese, e a lei ciò bastava.

    Quella situazione non mi lasciava del tutto a mio agio. Sentivo che nel nostro rapporto c'era qualcosa che non andava, ma non riuscivo bene a identificare cosa fosse. Del resto ero solo un bambino, o poco più.

    Per farle capire quanto era contorto e particolare il nostro rapporto, basato su regole non rispettate e cose non dette, apparenza allo stato puro, le racconterò un aneddoto.

    Un torrente attraversava il bosco. Era un corso d’acqua abbastanza grosso. Dopo che le piogge venivano giù c’erano punti in cui l’acqua si faceva tanto alta da non riuscire a vedere il letto del fiume e, comunque, anche quando non pioveva per molte settimane, il torrente non si seccava mai del tutto.

    In quel torrente c’erano anche molti pesci: trote, carpe, lucci, tinche.

    Io andavo al torrente quando era bel tempo, soprattutto d’estate, e facevo il bagno in quell’acqua gelida. Poi mi asciugavo al sole, come una lucertola. Alle volte cercavo di pescare, ma non avevo gli strumenti adatti e non riuscivo a prendere mai niente.

    Un giorno però pescai qualcosa.

    Di solito mi mettevo in piedi, nudo, in un punto del fiume dove l’acqua mi arrivava appena sotto le anche, nei pressi di un dislivello del letto del torrente dove si formava una piccola cascatella.

    Aspettavo che i pesci venissero giù, trasportati dalla corrente e leggermente rintronati da quel salto. Poi con le mani cercavo di acchiapparli. I pesci più piccoli non sono mai riuscito nemmeno a sfiorarli con le dita, mentre i pesci più grandi alle volte riuscivo anche ghermirli. Ma immancabilmente mi sgusciavano dalle mani, tanto erano lepeghi.

    Un giorno, però, come ho già detto, uno riuscii a prenderlo.

    Ero nel mio punto preferito, proprio a ridosso della cascatella, impegnato a rovistare con le mani nell’acqua fredda del torrente. Ricordo che prima passarono veloci due piccoli pesciolini argentati. Poi un’ombra nera molto grossa sgusciò veloce dietro di loro.

    D’istinto cacciai le mani in acqua e strinsi forte.

    Sentii qualcosa di spesso e viscido tra le mie dita. Stava per sfuggirmi via. Allora aumentai la forza della mia presa, controbilanciai la spinta della corrente inarcando il dorso in avanti. Spostai una gamba a monte. Il piede però scivolò su di un masso coperto di alghe. Caddi di schiena, ma non lasciai la presa. Quando fui immerso nell’acqua a pancia in su vidi un’ombra nera stagliarsi nel cielo allagato di sole, sembrava un grosso uccello oblungo e senza ali.

    Accecato dalla luce forte che c’era dovetti chiudere gli occhi. Bevvi dell’acqua. Mi rialzai di scatto e caddi di nuovo.

    La seconda volta feci più attenzione nel rialzarmi e rimasi in piedi.

    Tossii forte. Poi mi guardai intorno in cerca di quell’ombra che sembrava essersi volatilizzata nel nulla.

    Tornai a riva ed è lì che la vidi, l’ombra. Era un pesce enorme che si dibatteva sulla sabbia in modo forsennato.

    Ero riuscito a catturare un pesce! E che pesce, poi!

    Aveva un corpo allungato e una testa grossa, una bocca enorme che si apriva e si chiudeva e smaniava: cercava di respirare irrimediabilmente distante dal suo elemento naturale.

    Da quella bocca, simile a quella di un’anatra, facevano capolino piccoli denti aguzzi adatti a strappare la carne. I denti di un cacciatore.

    La pinna dorsale era corta e spostata verso la coda. Me lo ricordo ancora alla perfezione, quel pesce. Sul dorso aveva una colorazione bruno-verde con macchie più scure sparse qua e là sul corpo. Il ventre era biancastro e si gonfiava e sgonfiava in maniera forsennata.

    Non sapevo come prenderlo, sembrava un ossesso quel bestione.

    Mi guardai intorno ebbro di un’eccitazione smodata che mi faceva battere il cuore a mille.

    Vidi una grossa pietra dalla forma squadrata. La presi, pesava davvero tanto. Mi posizionai sopra la mia preda, indeciso se farla cadere o meno.

    Poi aprii le dita e la forza di gravità si occupò di fare il resto. Il pesce, di colpo, smise di dibattersi. Rimasi colpito nel vedere il sangue scorrere da sotto la pietra. Non tanto per il sangue in sé, quanto per il fatto che non credevo che anche i pesci avessero il sangue. Non so cosa pensassi ci fosse dentro un pesce, ma di sicuro non pensavo vene e sangue. Il mio era stato un atto di carità. L’averlo ucciso era un atto di carità verso quel povero essere che sarebbe comunque morto, solo in modo ben più atroce.

    Andai a casa con il mio trofeo in mano. Riempii il lavabo di marmo della cucina con acqua fredda e vi immersi dentro il pesce.

    Pensavo che quando mia madre fosse tornata a casa e lo avesse visto mi avrebbe sgridato, ma non andò così.

    Mia madre guardò il pesce adagiato nel lavabo. Lo osservò con cura. Poi rivolse i suoi occhi chiari e slavati su di me. Sorrise con quel suo sorriso mesto e appena accennato.

    È un luccio mi disse. È un pesce carnivoro. La sua carne è molto buona. Lo cucinerò stasera, anche se è tardi, poiché domani sarebbe da buttare.

    E mi ricordo che rimasi affascinato a guardare mia madre che lo puliva. Lo squamava, lo sventrava, lo sfilettava, gettava nella spazzatura ciò che non era commestibile, fino a che sul tagliere non rimase più nulla dell’idea pesce.

    In quel momento non pensai certo al perché mia madre non mi aveva sgridato. Ci riflettei su molti anni dopo. E giunsi alla conclusione che non mi aveva sgridato semplicemente perché io non le avevo chiesto scusa per ciò che avevo fatto, per il fatto che le avessi disobbedito e fossi andato nel bosco, addirittura fino al fiume. Non ammettere di fronte a lei la mia mancanza rendeva quest’ultima di fatto inesistente. So che è un’idea balzana, ma so anche che è la verità. La verità sul nostro rapporto, sul rapporto madre-figlio che c’era tra di noi, sull’equilibrio squilibrato tra i nostri due ruoli.

    Quando il pesce fu pronto lo mangiammo. Mia madre tirò fuori una di quelle grosse bottiglie colme di vino rosso che custodiva in dispensa. Se ne versò un bicchiere e ne versò uno anche per me.

    Poi tappò di nuovo la bottiglia e la ripose al suo posto.

    Fu la prima volta che bevvi vino in vita mia e fu una delle poche volte che vidi mia madre bere vino.

    Mangiammo in silenzio, come una preghiera in chiesa.

    Nella mia vita ho mangiato molte cose, anche strane, anche prelibate, ma quella cena fu la migliore della mia esistenza, quel pesce il cibo più buono che le mie papille gustative abbiano mai assaggiato.

    Non ci fu mai più un altro momento del genere tra me e mia madre.

    Quindi lei non è un rom, come asseriva Mario.

    Sono e non sono un rom.

    In che senso? Non capisco.

    È difficile da capire, anche per me. Ma se continuo a raccontare forse sarà più facile.

    La mia vita continuò così fino ai tredici anni. Poi accadde qualcosa di strano, di magico che cambiò la mia esistenza alla radice.

    Alle volte penso a come sarebbe stata la mia vita se non fossi andato in quei giorni al fiume, se non avessi risalito la corrente seguendo il letto del torrente.

    E quando ci penso non riesco proprio a immaginarmela una vita diversa da quella che ho avuto.

    Quel giorno un’anomala agitazione mi albergava in cuore. O, forse, solo in seguito l’ho aggiunta quella sensazione, per dare più senso a quell’incontro. Per liberarlo dalla pura casualità.

    Stavo risalendo il torrente, forse volevo arrivare alla fonte o avevo solo bisogno di camminare per chetare il mio spirito inquieto, quando notai in lontananza del fumo grigio alzarsi in cielo in spesse volute.

    Fui assalito da una curiosità incredibile. Volevo sapere cos’era quel fumo e cosa stava bruciando in lontananza. Iniziai a correre, sempre più forte, sulle pietre sconnesse che lambivano l’acqua. Più mi avvicinavo alla colonna di fumo, più questa si faceva imponente e profumata. Sì, proprio così, profumata di cose buone da mangiare.

    Quando fui abbastanza vicino al punto da cui scaturiva quel fumo, un certo senso di timore scosse le mie membra. Decisi di fermarmi e di cambiare direzione. Andai verso il bosco, che in quel punto seguiva fedele il letto del torrente, alla ricerca di un riparo che mi permettesse di osservare senza essere visto.

    Il bosco cominciò a salire. Trovai uno slargo sotto un grosso pino. Mi nascosi

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