Shocking Girl Vol. 2
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Book preview
Shocking Girl Vol. 2 - Giovanna Capizzuto
Indice
I - UNA VECCHIA AMICA
II - CLARE
III - SOLO UN’ASPIRINA
IV - DISSAPORI
V- LA SEPARAZIONE
VI - SPERANZE INFRANTE
VII - INSEGNARE
VIII - UN ARRIVO INASPETTATO
IX - LA DISGRAZIA
X - L’EVASIONE
XI - RIAPPACIFICAZIONI
XII - STRANI AVVENIMENTI
XIII - LA BAGARRE
XIV - L’INCIDENTE
XV - IL CONFLITTO
XVI - MISSIONE BAKERSFIELD
EPILOGO
RINGRAZIAMENTI
Giovanna Capizzuto
Shocking_Girl_2
ISBN | 9788827840399
Questo libro è stato realizzato con PAGE di Youcanprint
Youcanprint.it
I - UNA VECCHIA AMICA
Le porte scorrevoli, davanti a me, si aprono in totale silenzio.
Sono passate poche settimane da quanto le ho oltrepassate per la prima volta. Allora ero tesa e spaventata, adesso invece sono trepidante.
Finalmente mi hanno accordato il permesso di venire a trovare Ashlee.
Lancio un’occhiata rapida all’ingresso e, dopo aver appurato che è deserto, mi dirigo direttamente alla camera della mia amica.
Attraverso l’atrio nervosamente, notando appena la pavimentazione in marmo chiaro e liscissimo, le alte vetrate che lo rendono estremamente luminoso e le pareti tinte di un tenue color orchidea.
Deathon, il mio ragazzo, mi segue in silenzio. Sa che per me questo momento è di vitale importanza. Lo guardo di sottecchi e, come sempre, rimango folgorata dalla sua bellezza.
Non importa se conosco ogni curva del suo profilo, ogni sfumatura della sua pelle, ogni aspetto delle sue espressioni… ne resto ammaliata ogni volta come se fosse la prima.
Ha i capelli biondi, della stessa tonalità del grano maturo, un po’ lunghi sulle spalle e spettinati sulla fronte, secondo il taglio che va tanto di moda ultimamente. I suoi occhi, di un colore indefinibile, tra il marrone e l’oro, ricordano vagamente lo zucchero caramellato. E sono dolci allo stesso modo.
La sua pelle che quando ci siamo conosciuti più di un anno fa, era talmente bianca da sembrare perlacea, al sole ha preso una splendida tinta dorata che lo rende ancora più affascinante. Certo, dal momento che non è più rinchiuso tra quattro mura, passa tutta la giornata all’aria aperta e il suo colorito ne ha giovato!
Non riesco a trattenere un leggero moto d’irritazione ripensando a quello a cui il padre lo ha sottoposto, ma poi incrocio il suo sguardo e il mio umore si ammorbidisce notevolmente.
Le sue labbra, così carnose e morbide, portano ancora il segno del nostro ultimo bacio.
Mi sorride, incoraggiante, e il mio cuore perde un battito.
Accidenti! La devo smettere di reagire come una ragazzina a ogni suo sorriso. Penso, sconvolta.
Quasi barcollando, mi fermo davanti a una porta di legno scuro dall’aspetto robusto.
Deathon stringe delicatamente la sua presa sulla mia mano, cercando di infondermi sicurezza. Deve aver frainteso il motivo del mio tentennamento.
Inspiro profondamente, cercando di non pensare alla mia reazione all’adone al mio fianco, e busso. Nessuna risposta.
Busso più energicamente, quasi con stizza, ma ancora non ricevo risposta.
L’irritazione mi fa perdere la calma e batto con forza un piede per terra. Doppio accidenti!
«Hey!» Mi sento apostrofare.
Mi volto di scatto e scorgo Peter uscire da una stanza a pochi metri da noi.
Peter Bloom è uno degli agenti dell’istituto di ricerca in cui ci troviamo.
Grazie a lui e al suo compagno, Eddie Coltrane, Deathon e io siamo usciti quasi indenni da una situazione piuttosto complessa, poche settimane fa. Anzi, a essere sincera, senza il loro aiuto Deathon non avrebbe potuto salvarmi la vita.
Inoltre, devo ringraziare sempre loro se Ashlee è stata ricoverata qui all’IdR, ricevendo le cure adeguate alla sua condizione!
E dire che, quando li abbiamo conosciuti, li abbiamo aggrediti credendoli nostri nemici.
Sembra passato un secolo da allora, invece sono solo due mesi.
L’uomo ci viene incontro, con il suo solito vestito grigio, che gli fa quasi da uniforme, e i capelli scuri rasati corti. Non è cambiato di una virgola.
Sul suo volto c’è stampato un sorriso compiaciuto.
«Ragazzi! Che piacere rivedervi. Come ve la passate?» Ci saluta allegramente.
«Ciao, Peter.» Ricambia prontamente Deathon, con la sua voce melodiosa.
«Ciao.» Gli faccio eco io, un po’ delusa per questa intromissione. Non voglio perdere altro tempo: devo vedere Ash subito!
«State cercando la vostra amica?» Ci chiede l’agente.
«Sì, infatti… tu sai dov’è?» Gli chiedo, diretta, il tono reso quasi scortese dall’inquietudine.
«L’hanno spostata al secondo piano. Vi accompagno da lei.» Esclama, intuendo la mia fretta.
«È gentile da parte tua.» Replico mortificata, sorridendogli riconoscente.
Peter ci fa strada attraverso l’atrio, fino a un ascensore che non avevo nemmeno notato.
«Prego: prima le donne.» Dice non appena si aprono le porte, indicandomi l’abitacolo galantemente.
«Grazie.» Rispondo meccanicamente, con la mente altrove.
All’interno dell’ascensore, un enorme specchio mi rimanda l’immagine di una ragazza piuttosto carina, ben proporzionata, con lunghi capelli castani che le incorniciano un viso ovale, dalla pelle molto abbronzata, e dei grandi occhi color cioccolato. Noto che mi sto mordendo l’interno della guancia, cosa che faccio spesso quando sono nervosa.
«Allora? Tutto bene?» Si informa educatamente l’uomo, premendo il tasto 2 sulla pulsantiera alla sua destra.
«Tutto bene, grazie.» Gli risponde Deathon, consapevole della mia distrazione «E tu?» Chiede in tono gentile.
«Benone… Ora che abbiamo catturato tuo padre, impedendogli di nuocere ad altre persone, le cose vanno alla grande.» Ribatte Peter, facendogli l’occhiolino.
Infatti, il padre di Deathon, lo scienziato di fama mondiale Arthur Deveraux, è detenuto in una delle celle di vetro dell’istituto nel quale ci troviamo. E Deathon e io abbiamo avuto una parte piuttosto rilevante, anzi direi sostanziale, nella sua cattura! Ma questo a lui non va giù: nonostante il padre lo abbia usato come cavia per i suoi esperimenti, l’abbia segregato in una clinica privandolo dell’affetto della famiglia e della libertà e, cosa ancor peggiore, abbia cercato di ucciderlo, si sente comunque in colpa per averlo tradito
e consegnato agli agenti dell’IdR, che stanno cercando di farsi rivelare i componenti dei composti di sua creazione per poterne creare l’antidoto. Deathon serra le labbra, infastidito dall’affermazione di Peter.
«Scusa. Non volevo offenderti.» Si giustifica subito l’agente, rendendosi conto della gaffe «È solo che abbiamo cercato per anni di fermare tuo padre e ora che, grazie al vostro aiuto, ci siamo riusciti, il clima qui all’istituto è di gioia perenne.» Ammette, chinando il volto imbarazzato.
«Naturalmente.» Ribatte Deathon, quasi sibilando tra i denti. Il suo viso ora è oscurato da una profonda ruga sulla fronte, che lo fa somigliare molto al padre.
«Siete stati fortunati a trovarmi qui… oggi festeggiamo l’anniversario della fondazione e sono quasi tutti di sopra al party.» Esclama, chiaramente per cambiare discorso.
«E chi si prende cura dei pazienti?» Domando senza riuscire a trattenere l’ansia della mia voce.
«Non abbiamo pazienti al momento, a parte Ash…Ehm, Miss Fenton. E lei sta bene, non ha bisogno di cure costanti… e inoltre ha il numero dell’attico, nel caso in cui dovesse avere bisogno di aiuto.» Si giustifica Peter.
Stringo le labbra in segno d’irritazione: non mi calmerò finché non l’avrò vista… e finché non sarò certa che la nostra amicizia è rimasta immutata, nonostante i miei cambiamenti!
Le porte metalliche dell’ascensore si aprono. Ne esco rapida, guardando a destra e a sinistra ignorando la direzione da prendere, ma il corridoio è fitto di porte e io non so qual è quella giusta. Devo aspettare Peter, dannazione!
Mi volto a guardarlo, impaziente.
«Di qua.» Dice lui, girando a destra.
Lo seguo, sempre persa nei miei pensieri.
Quale sarà la reazione di Ashlee?
Il secondo piano dell’istituto non ha affatto l’aspetto di una clinica: i pavimenti sono in marmo scuro, di un verde tendente al nero, mentre i muri, tinteggiati di fresco, sono dello stesso color orchidea dell’atrio.
Le ampie finestre che all’ingresso erano spoglie per lasciar entrare più luce possibile, a questo piano sono ombreggiate da nivee tende impalpabili. Nel complesso, l’ambiente è molto piacevole.
Sono contenta di averla portata all’IdR; nulla a che vedere con il luogo in cui si trovava due mesi fa: la clinica Stones di Horizon, un luogo squallido al confronto.
«Ecco. È qui: stanza 23.» Annuncia Peter, fermandosi davanti a una porta con la targhetta in ottone che ne indica il numero.
Lo supero senza riuscire a trattenere la mia urgenza e busso discretamente.
Le mani mi tremano per l’agitazione.
«Avanti.» Esclama subito Ashlee.
La voce tanto familiare della mia carissima amica, mi giunge quasi soffocata attraverso la porta di legno che ci separa.
Senza perdere altro tempo, spalanco la porta ed entro quasi con irruenza.
Ho conosciuto Ashlee Fenton più di dieci anni fa, quando mi sono iscritta alla scuola di danza di Clover, il nostro paese. Siamo diventate subito amiche, anche grazie al fatto che mi difendeva sempre dalle altre componenti della nostra classe, Meredith e Thelma, invidiose del mio talento, e da allora siamo divenute inseparabili… fino alla sera del nubifragio almeno!
Ha appena un anno più di me, e mi ha sempre trattata come la sua sorellina minore, prendendomi sotto la sua ala protettrice, spronandomi, consigliandomi e rimbeccandomi in tutte le circostanze della mia vita. Era nota in tutta la scuola per il suo acume.
La cerco rapidamente con lo sguardo e mi soffermo a fissarla. Ash è in gran forma: è in piedi, accanto alla finestra e mi sta osservando curiosamente.
Ha ripreso colore e peso. E poi ha lo sguardo attento, sveglio. Non come quando l’abbiamo portata via dalla clinica Stones, evitando che continuassero a imbottirla con inutili inibitori.
«Grace! Piccola mia, sei davvero tu?» Mi saluta calorosamente, riconoscendomi.
«Oh, Ashlee!» Urlo, correndo ad abbracciarla, con le lacrime che, per l’emozione, rischiano di sgorgarmi dalle palpebre serrate. Non posso permettermi di piangere!
Ci abbracciamo a lungo, entrambe smaniose d’affetto.
«Mi sei mancata tanto.» Mormoro.
Lei si scioglie dal mio abbraccio e mi prende una mano, trascinandomi su una delle due sedie della camera.
La sua stretta è delicata ma decisa e, quando inizia a parlare, il suo tono è fermo.
«Anche tu, Grace, anche tu. Devi raccontarmi tutto. Il tuo biglietto era così enigmatico… ma nessuno qui, sembrava volermi dare spiegazioni.» M’investe la ragazza, assetata di notizie, facendo oscillare i lunghi capelli biondi e fissandomi avidamente.
I suoi occhi! Così vivaci, così caldi, di quel color castano che ho imparato ad amare così tanto negli anni… finalmente hanno ripreso la luce che li illuminava un tempo.
Ricordo abbastanza bene il biglietto che le ho messo nella tasca della vestaglia quando l’ho lasciata qui a Bakersfield, nelle sapienti mani degli scienziati e dei medici dell’istituto di ricerca che mi avevano promesso di prendersi cura di lei. Recitava più o meno così:
"Cara Ashlee,
le circostanze purtroppo non mi consentono di starti accanto durante la tua guarigione, ma il mio pensiero e il mio cuore ti sono vicini.
Puoi fidarti delle persone che ti hanno preso in cura, sono certa che avranno il massimo del riguardo nei tuoi confronti, me lo devono!
Ma se, per qualunque motivo, tu dovessi avere bisogno di me, chiamami e verrò immediatamente a prenderti.
La tua vecchia amica, Grace Arkell."
Sotto avevo scritto il mio numero di cellulare.
«Perché non sei venuta prima a trovarmi? Ti ho chiamato parecchio tempo fa. Cosa ti è successo? Dove sei stata tutto questo tempo? Perché sei così diversa? E chi è il ragazzo che ti ha accompagnato qui?» Solo adesso mi accorgo che Deathon, per educazione, ci ha lasciate sole. «Cosa c’è tra voi? Hai notizie dei nostri amici?» Si ferma di botto, chinando il volto per nascondere le lacrime silenziose che le scorrono copiose sul viso.
Nel nubifragio, avvenuto quasi due anni fa, ha perso tutta la sua famiglia e ha rischiato di perdere anche la ragione: per questo era stata rinchiusa alla clinica psichiatrica di Horizon. Per fortuna, Deathon e io l’abbiamo portata via da quel posto orrendo.
Le prendo le mani, prestando attenzione a non bagnarmi con le sue lacrime, e cerco di confortarla.
«Calma, calma…» Dico sforzandomi di mantenere un tono tranquillo. «Una cosa per volta.» Aggiungo, stringendole le dita delicatamente. «Partendo dall’inizio… sono stata colpita anch’io dal nubifragio.» Le racconto. «Ricordi? Quella sera avevo litigato con i miei per l’ennesimo brutto voto in Storia. Sono uscita di casa e sono corsa al gazebo sulla spiaggia, senza nemmeno rendermi conto delle pessime condizioni del tempo…» Mormoro a disagio. Non sono orgogliosa del mio comportamento infantile. «Quando ho capito cosa stava succedendo, ho cercato di tornare a casa, ma sono stata colpita da un fulmine.»
«Oh, mio Dio! Povera piccola…» Sussulta Ash, appoggiandosi una mano alle labbra, preoccupata e dispiaciuta al contempo.
«Già… ma mi è andata meglio che a molti altri.» Commento con una smorfia. «Ho riportato ustioni su tutto il corpo, per questo il mio aspetto è leggermente diverso da prima… ma i medici sono riusciti comunque a curarmi. Invece, mamma e papà, come la tua famiglia, non ce l’hanno fatta: un albero si è abbattuto sulla casa, sventrandola.» Fatico a trattenere le lacrime.
Lei annuisce: inutile aggiungere altro, siamo entrambe nella stessa situazione.
«Molti nostri amici o conoscenti sono morti quella notte… ma ho una bella notizia per te: Frederick è sopravvissuto!» Esclamo battendo le mani. Fred era il ragazzo di Ashlee, si amavano da impazzire.
«Davvero?» Mi chiede lei agitata, come se avesse paura di credere alle mie parole ma, al medesimo tempo, anelasse a lasciarsi andare alla speranza.
«Sì! Non è stato facile, ma alla fine l’ho scovato. Non è in forma nemmeno lui: è stato schiacciato dal soffitto del suo appartamento e ha avuto seri problemi con le gambe. È ricoverato al policlinico di San Francisco, dove i medici l’hanno sottoposto a parecchie operazioni nel tentativo di rendergli l’uso delle gambe. Adesso è in riabilitazione e ci sono buone possibilità che riprenda a camminare… e forse potrà anche ballare di nuovo!» Le annuncio raggiante.
Fred era il suo partner anche nella danza.
«È fantastico!» Esclama Ash alzandosi in piedi, euforica. «Puoi fargli avere un messaggio da parte mia?» Chiede asciugandosi le lacrime che non vogliono smettere di rigarle il viso.
«Posso fare di più: ti ho portato un cellulare, in modo tale che potremo tenerci in contatto quando sarò lontana e, nella rubrica, ho registrato il suo numero.» Dichiaro allegramente.
«Meraviglioso! Ma…» Si blocca turbata. «Io non ho i soldi per ripagati della spesa Grace.» Sussurra imbarazzata.
«Per amor del Cielo, Ash! È un regalo. Accettalo e basta.» Dico in tono quasi imperioso.
«Ne sei sicura? Come farai a pagarlo?» Mi chiede ancora scettica.
«Sta’ tranquilla. Sono praticamente ricca adesso: i miei genitori erano riusciti a mettere da parte una piccola fortuna. Senza contare che avevano entrambi l’assicurazione sulla vita. Inoltre il governo ha stanziato ingenti quantità di denaro per la popolazione rimasta priva dei propri beni materiali. Così mia sorella Clare e io abbiamo recuperato il valore complessivo della casa e dell’auto di nostro padre. Quindi non devi affatto preoccuparti delle mie finanze.» Le spiego alzando le spalle.
«Oh, beh… allora… Grazie, Grace…» Mormora poi, scoppiando ancora in singhiozzi.
Aspetto pazientemente che si riprenda: io ci ho messo mesi a comprendere appieno quanto è successo.
Quando è un po’ più tranquilla, riprende il suo terzo grado.
«E gli altri?» Domanda titubante.
La nostra classe è stata pressoché dimezzata: il mio compagno, Ethan, è ancora tra i dispersi. Courtney, la dolce e cara Court, non ce l’ha fatta, mentre Jaiden, il suo ragazzo, è scampato per miracolo. Delle mie due rivali, Thelma e Meredith, non si sa nulla, così come di Dwigth. Invece Harrison è ancora in coma all’ospedale di Horizon. I medici sono piuttosto pessimisti sul suo conto. Eliza, la nostra insegnante, è sopravvissuta, ma si è rotta entrambe le gambe e adesso zoppica.
Una vera e propria strage!
«Brutte notizie… solo Jay è rimasto incolume. Eliza non potrà più danzare, Harry è in coma e tutti gli altri sono dispersi.» Mormoro scuotendo il capo.
Ancora silenzio, per assorbire la notizia.
«Allora… raccontami di te: non mi hai detto come hai fatto a salvarti. Chi ti ha soccorso? I volontari?» S’informa dopo un po’, cambiando argomento, quasi disperatamente.
«Beh… è un po’ complesso… mi hanno trovata i volontari, ma non hanno potuto soccorrermi.» Le racconto tutto quello che ho passato dalla notte del nubifragio in avanti: le racconto di essere stata quasi due mesi in coma, di essermi risvegliata a Fresno in una clinica privata, dove mi hanno spiegato cosa mi era successo; del fatto che ero stata colpita da amnesia e non ricordassi nulla in principio e di come, con il tempo, i ricordi sono riaffiorati nella mia mente tramite i sogni; infine le racconto del perché i volontari non sono stati in grado di aiutarmi e hanno dovuto rivolgersi al padre di Deathon… «Vedi, il fulmine mi ha provocato un trauma, facendomi perdere la memoria, in compenso mi ha lasciato qualcosa, una specie di dono: sono diventata electric woman
.» Concludo, sorridendo, cercando di sdrammatizzare la mia ultima affermazione. Ancora non riesco ad accettare quel che sono divenuta dopo il nubifragio.
«Ma che dici?» Sbuffa Ashlee, guardandomi come se fossi matta.
«Purtroppo è vero, Ash. Il fulmine mi ha resa elettrica. Sono stata portata in quella clinica sperimentale, dove si sono presi cura di me…» Dico, abbassando lo sguardo e fissandomi le mani, a disagio.
«Mi stai prendendo in giro? Guarda che la pazzia l’ho solo sfiorata, sai?» Esplode, sbigottita e offesa, corrugando la fronte e stringendo le labbra in un piccolo broncio.
«No… purtroppo non sto affatto scherzando.» Sussurro, mentre la gola mi si chiude.
«Piantala Grace! Quello che dici è impossibile…» Insiste, scuotendo energicamente il capo.
«Non arrabbiarti…» La imploro senza abbassare lo sguardo. «Guarda tu stessa.» Afferro la lampada appoggiata sul suo comodino e, come a seguito di una forte scarica elettrica, la lampadina esplode in mille pezzi e l’ottone dell’abatjour annerisce.
L’espressione di Ashlee è un miscuglio di paura e incredulità.
«E non è tutto… posso lanciare saette con le dita e la mia temperatura corporea è molto al di sopra della norma…» Continuo a raccontarle, cercando di ignorare la maschera di orrore che le si è impressa sul volto. Mi mordo la guancia. Avevo sperato che lei capisse… e invece mi guarda orripilata!
«Scusa… forse è meglio che io vada…» Dico alzandomi, cercando di nasconderle le lacrime che infine sono traboccate dai miei occhi e stringendo i denti a causa del dolore che mi provocano.
«No!» Urla Ash, afferrandomi per un braccio.
La osservo, meravigliata. Ha il coraggio di toccarmi? Strano che non abbia paura.
«Ti fa tanto male?» Chiede, senza lasciare la presa.
«A dire la verità, quasi per niente… Certo: è fastidioso e, fin troppo spesso, complicato, ma ormai me la cavo piuttosto bene. Da quando mi sono ripresa dal come mi sono allenata molto e ora gestisco alla perfezione il mio dono
.» Pronuncio quest’ultima parola con una smorfia «È il contatto con i liquidi che mi procura il maggior fastidio.» Le spiego, minimizzando il più possibile.
«Mi spiace tanto per te…» Mormora afflitta, poi la sua espressione cambia radicalmente. «Ma sono del tutto convinta