L'Amore che Viola
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L'Amore che Viola - Giovanni Garufi Bozza
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Dalla pelle all’anima
L’amore è un castigo.
Ci punisce per non aver saputo stare soli.
M. Yourcenar, Opere, vol. I
Quando Viola scorse il suo riflesso nello specchio, dopo un tempo immemorabile si riscoprì finalmente bella. I suoi occhi si spalancarono in un moto di meraviglia e presero a scorrere ogni centimetro della sua pelle. Girò su se stessa, riscoprendo quella gioventù che sembrava persa per sempre. Un corpo tornito, il suo, seppur con qualche leggera smagliatura.
Si avvicinò allo specchio, per rimirare il colore ambrato delle sue iridi. Un colore raro, le avevano detto.
E si chiese se la rarità fosse realmente un dono o piuttosto un castigo.
Fuori dalla finestra, le gocce di pioggia rigavano il vetro, mescolando i colori artificiali della città. I tuoni ne coprivano i rumori, mentre, nella sua stanza, la luce soffusa dell’abat-jour a stento rischiarava le ombre della notte e la sua nudità.
Restò a osservarsi in silenzio, in piedi di fronte a quel riflesso, e d’un tratto si scoprì in sintonia con se stessa, fino a desiderare di accarezzare il suo corpo, passando lentamente la mano dai seni all’inguine, e giù ancora, fino a quel piccolo anfratto verticale, fine e inizio dei suoi guai.
Con le dita si regalò un piacere che aveva cercato invano negli altri.
Spinse. Nel tentativo di raggiungere la sua anima, nascosta in chissà quale increspatura del suo intimo, troppo complessa per essere compresa appieno. Soprattutto da lei stessa.
Quando venne si appoggiò allo specchio, ansimante, lasciando che il suo riflesso la sostenesse. Era dalla giovinezza che non si masturbava più, da quando aveva abbandonato quel rito divenuto compulsivamente ripetitivo. E subito ricordò il motivo di quella scelta. Quell’orgasmo le tirò fuori la sofferenza che aveva cercato per anni d’inghiottire nel suo inconscio.
Le ecchimosi sulla sua pelle erano ormai scomparse, i lividi avevano lasciato il posto al candore pallido del suo corpo. Ma si chiese quando sarebbe riuscita a guarire le ferite interne, quelle più dolorose, che sentiva come voragini sull’anima.
Ci sarebbe mai stata una cura possibile?
«Posso comprendere il dolore, Viola, ma prima o poi queste ferite le dovremo affrontare per poterle rimarginare.»
«Lei parla di dovere... mi chiedo invece quando potrò.»
«Quando ti avremo aiutata ad accrescere le tue risorse e dunque il tuo potere. Parlo dell’empowerment, del potere di potere.»
«Non è strano che in italiano non esista una bella parola per parlare di questo empowerment che mi cita sempre? Potenziamento... sa di meccanico, di ostile. Forse all’estero sono davvero più avanti di noi.»
«Non so dirtelo, Viola, ma qualcosa la stiamo raggiungendo. Solo quando ti sei riscoperta bella di fronte a quello specchio, quando hai voluto riconquistarti e coccolarti, sei riuscita a vedere le tue ferite. Occorre fare dei respiri molto profondi per poter andare a fondo dentro di noi. E i respiri che abbiamo a disposizione nella nostra vita si chiamano risorse. Sono la luce con cui possiamo esplorare il buio che abbiamo dentro.»
«Per ora sento solo di essermi riscoperta in sintonia con me stessa... forse è già un passo avanti.»
«Mi fai venire in mente una riflessione. C’è chi dice che ogni cellula del nostro organismo abbia un suo cervello, e che la stessa pelle, quel confine che ci delimita dall’altro, si crei nel feto dall’ectoderma, lo stesso strato da cui originano i neuroni del nostro cervello. Chissà, sarà per questo che si usa dire che le persone ci stanno simpatiche o antipatiche a pelle? Se siamo in sintonia o meno con loro?»
«Non lo so... Mi sto chiedendo però perché facciano tanto male, quelle ferite intime. Forse perché sono inferte dall’amore, ecco perché.»
«Dall’amore o dalle persone che sostenevano di amarti?»
«C’è forse differenza?»
Un fiore estirpato
La vita di una famiglia (...) è come il sedimentarsi
di strati appartenenti a diverse ere geologiche. Ma
scavando troppo in profondità si possono riportare
alla luce scheletri che conservano una vitalità
latente e potenzialmente distruttrice.
G. Messina, Domani non sarò qui
Seduta sul letto, spazzolò i suoi capelli ramati. Movimenti lenti e accurati scendevano lungo la chioma, mentre a labbra serrate canticchiava un motivetto udito chissà dove.
Guardò nello specchio il riflesso dei suoi occhi e passò la mano sul viso, che la luce diafana della stanza rendeva quasi lattescente.
Sbuffò, osservando quella camera da letto che cominciava a starle stretta. Il suo sguardo si spostò dai peluche ai libri di favole, accuratamente disposti sulla libreria, che cozzavano con i poster dei Duran Duran e di Michael Jackson. Forse era tempo di buttare via tutto.
Eppure una parte di sé era così legata a quegli oggetti da non riuscire a separarsene. Una lotta interiore che si riproponeva ogni sera.
Interruppe quei pensieri, quando sentì uno scricchiolio dietro la porta della sua stanza.
Aguzzò le orecchie, nel timore di essersi sbagliata.
Non verrà neanche stasera...
Lo scricchiolio si ripeté.
Guizzò sotto le coperte, abbandonando la spazzola per terra.
Spiando verso la porta da sotto le lenzuola, provò di nuovo quella sensazione inspiegabile, che dalle viscere le risaliva la schiena. Un brivido, forse di speranza, forse di vergogna.
Molte cose erano cambiate dalla prima volta che si era svegliata con le lenzuola sporche di sangue, e da allora costantemente sentiva emozioni contrastanti fare a pugni dentro di lei. Sensazioni che non comprendeva. Solo da poco tempo aveva quelle cose che la madre definiva sue, dandole gli assorbenti per non macchiare letto e pantaloni. Evitando di aggiungere altro sulla questione, come se ci fosse qualcosa di talmente sporco, in quel sangue, da non poterne parlare.
E in quei giorni lui era distante, mentre il suo corpo cambiava, i seni fiorivano sotto la maglietta e le capitava di sentirsi diversa dalla sera alla mattina, con la necessità, e spesso l’esigenza, di chiudersi in se stessa.
Ora che il ciclo era finito, però, forse sarebbe tornato. Doveva tornare.
La porta finalmente si aprì, cigolando.
«Dormi?»
«No... ti aspettavo.»
Fin da quando era piccola aveva sospirato per la sua buonanotte. Come per i peluche e i libri di favole, però, si sentiva ora troppo piccola, ora troppo grande per quel loro momento di tenerezza.
Il padre scivolò dentro la stanza, chiudendo la porta dietro di sé.
Viola deglutì una pastura agrodolce, di cui non conosceva la provenienza.
Si stese accanto a lei, che gli fece posto nel letto, lo abbracciò e si abbandonò alle sue carezze, che dai capelli scendevano alle spalle, in un’intimità tutta loro, di cui era gelosa.
E se va via?, si chiese, stringendosi ancora di più a lui. Gli occhi socchiusi, a controllare che non scappasse.
Il respiro del padre si fece leggermente più sostenuto. Il brivido lungo la schiena di Viola aumentò.
«Vuoi che ti lasci dormire?» mormorò il padre.
Viola restò in silenzio, sospirando, mentre le carezze si erano fermate, indugiando sui suoi fianchi. Le sue guance si arrossarono. Sapeva che non avrebbe continuato senza un permesso.
Ma avrebbe mai saputo dirgli di no?
«Continua...» sussurrò Viola.
La mano scese ancora, abbandonando i fianchi e insinuandosi nei pantaloni del pigiama.
Aprì gli occhi e guardò i peluche sul letto osservarla come ogni sera, immobili e sorridenti. Odiosi. Di nuovo quel fastidio di un dito familiare che scostava il bordo delle mutande e la toccava. Un fastidio che poi diventava stranamente piacevole. Un piacere di cui non riusciva a fare a meno.
Lo sguardo si spostò verso le favole sulla libreria. Doveva buttare tutto, si convinse, non era più una bambina, non tra quelle braccia. E si sentì ancora una volta troppo grande per la buonanotte di suo padre. Troppo piccola per farne a meno.
Oppure sbagliava? Perché non riusciva a rinunciare alla dolcezza dei suoi baci, al profumo del suo dopobarba? Perché quel dito correva sempre più veloce e, più accelerava, più il suo godimento aumentava, fino a diventare incontenibile, fino a esploderle dentro, fino a dover essere cacciato fuori con tutto il fiato che aveva in corpo?
La mano del padre, lesta, abbandonò i pantaloni e soffocò dentro la sua bocca i mugugni, quasi al punto di impedirle di respirare. Non era bene che qualcuno li sentisse. Soprattutto la mamma.
Glielo ripeteva ogni volta. Quella era la loro buonanotte, il loro segreto. Un segreto che la stordiva ogni sera di più. La mano di Viola si spostò sui pantaloni del padre, sapeva che ora toccava a lei. Ma quella sera si bloccò, quella stanza era ormai troppo piccola per contenere i suoi sentimenti. Era ora di cambiarla, di farla crescere. Come lei.
«Papà, ti devo dire una cosa...»
«Che cosa?»
«Io... ti amo... voglio dormire con te in una stanza più grande... tutta la notte. Non sono più una bambina...»
Il padre si staccò improvvisamente, alzandosi dal letto rosso in viso. L’espressione indecifrabile nei suoi occhi la sconvolse, uno sguardo che si frantumò davanti a lei. Le mani di quell’uomo nascosero il volto dai gemiti di un pianto soffocato.
La abbandonò lì. Stavolta per sempre.
E Viola, singhiozzando sotto le coperte, capì di averlo perso. Troppo piccola per tenerlo stretto a sé. Troppo grande per le favole con il principe azzurro.
C’era una foto dentro il diario di Viola, che la ritraeva in braccio a suo padre. Ricordava ogni momento di quella gita in montagna. Lui l’aveva portata sulle spalle per tutta l’escursione, su per i lunghi pendii, sostenendola con le sue forti braccia, nonostante le proteste della madre, che lo rimproverava di viziare la figlia.
Ma loro sorridevano complici, non badando a lei.
Nel ricordare quel momento, sentì che suo padre non era più sceso da quella vetta irraggiungibile. E Viola non si capacitava del perché l’avesse trascinata verso quel piacere, per poi lasciarla nella solitudine. Nella strana sensazione di sentirsi al contempo sporca e non abbastanza donna per lui.
In fondo, non era finito il ciclo? Altri ne ebbe ancora, terminarono anch’essi. Ma lui non tornò più.
E poi c’era sua madre, dietro la macchina fotografica a scattare la foto. Presente e assente nello stesso momento, col suo sguardo algido, che sapeva di un continuo rimprovero tacito.
Se almeno avesse scorto l’odio nei suoi occhi, avrebbe sentito il tepore di un sentimento.
Ma era solo gelo.
«Lei è la prima persona a cui lo racconto, e forse l’unica che possa credermi.»
«Come ti senti, ora che ti sei liberata da questo peso?»
«Vuota... tradita... E non riesco a piangere, perché per troppo tempo ho seppellito le lacrime sotto la rabbia.»
«Con chi sei arrabbiata?»
«Non lo so. Con mio padre? Con me stessa? Ho sempre avuto un risentimento anche per mia madre, anche se non ho mai capito il perché... In fondo, sono io ad averla tradita.»
«Ti prendi una responsabilità che una bambina di undici anni non poteva avere all’epoca e non può accettare anni dopo.»
«C’è stata una volta in cui ho scorto mia madre dietro la porta della mia camera, mentre mio padre era dentro al letto con me. Non dissi nulla. Io guardai lei e lei guardò me. Poi venni e chiusi gli occhi. Mi ricordo che sorrisi, a occhi chiusi, per rinfacciarle la felicità di quel momento. Quando riaprii gli occhi lei era sparita... In realtà, non so nemmeno se questa cosa sia reale o frutto della mia fantasia...»
«Cosa le volevi dire con quel sorriso?»
«Ci ho pensato qualche volta, ma è terribile da ammettere...»
«Prova...»
«Vedi mamma? Io e papà siamo uniti, mentre tu esci tutte le sere. Ho sentito le vostre discussioni, ho l’età per comprendere le vostre frecciate reciproche. Ho capito che hai uno o più amanti. E... se tu non ci sei... papà è qui con me... e questa cosa mi piace talmente tanto, che vorrei che tu sparissi per sempre dalle nostre vite.»
«Un peso bello grande da tenere dentro.»
«Povera mamma. Quanta gelosia può avere una ragazzina.»
«E se ti dicessi che tua madre è responsabile quanto tuo padre per quello che è successo?»
«Le risponderei che non è vero, che mia madre è stata una vittima. Ho sedotto io mio padre. Io... avrei voluto che lei sparisse.»
«Non potevi scegliere, Viola, lei invece sì. Era una sua responsabilità proteggerti da quelle effusioni pericolose. E non l’ha fatto.»
«Sta dicendo che è tutta colpa di mia madre? Che mio padre ha agito così perché lei si scopava altri uomini?»
«No, Viola. Riconoscere che il silenzio complice di tua madre è stato dannoso quanto quello che ha fatto tuo padre non è una giustificazione per lui. È prendere coscienza di una realtà che è sicuramente dolorosa, ma che ti libera da una colpa che non hai.»
«Io però provavo piacere.»
«Non avevi l’età per comprenderlo.»
«Ma l’avevo per provarlo...»
«Voglio dirti una cosa. Ogni donna ha suo padre come primo grande amore. Ma, per qualche strana ragione, alla donna è sempre affidato il destino di compiere dei passi più complessi rispetto all’uomo.»
«Come sempre...»
«I maschi nascono in simbiosi con la madre, ma quando raggiungono la fine dell’infanzia se ne distaccano, si nutrono dell’energia che ricevono dal padre, compiendo quei riti di passaggio che lo porteranno a essere adulto. Per le donne il passaggio è duplice, nascono anche loro in simbiosi con la madre, ma nel maturare spostano l’attenzione verso il padre, lo idealizzano, lo riveriscono, e attraverso la sua mascolinità iniziano a esplorare la loro sessualità che lentamente si sveglia dal sonno dell’infanzia.»
«Esplorano la sessualità? Sta dicendo che è normale?»
«No, normalmente non c’è alcuna connessione erotica tra padre e figlia, ma lui è il primo uomo della loro giovane vita e scoprono l’attrazione maschio-femmina, fatta di seduzioni innocenti e di giochi con l’energia maschile che egli rappresenta. Ma arriva poi il momento del distacco, in cui la figlia si avvicina di nuovo alla madre. Riconosce e si arrende al suo ruolo di moglie del padre. È un rito importante quello di rinunciare al flirt infantile. Un passaggio doppio, dunque, e più complesso, che tuo padre ha bloccato, davanti al silenzio di tua madre.»
«E ora, che me ne faccio di questa rabbia verso tutti e due i miei genitori?»
«Sapresti dirmi da quanto tempo andava avanti quella buonanotte tra te e tuo padre?»
«Mesi? Anni? Chi se lo ricorda? Dopo quella sera, però, non capitò più.»
«Tuo padre si è ritirato. Quello che forse ha fatto più male era un nuovo confine che aveva ormai eretto, forse per distorta coscienza, forse per impotenza. Probabilmente, la rabbia di cui parli la prova la Viola adulta. Ma la Viola bambina, dentro di te, cosa prova?»
«Rimpianto...?»
«Forse. Forse si chiede perché suo padre non sia più sceso da quella montagna, perché l’abbia abbandonata, pur restando dentro quella casa. La Viola bambina aveva bisogno di lui. E di sua madre.»
«Quindi non erano dei mostri?»
«I mostri esistono solo nelle favole che volevi buttare, Viola. Come i principi azzurri. Gli uomini sono troppo complessi per essere definiti solo buoni o cattivi. Se così fosse, non proveresti questi sentimenti ambivalenti verso di loro.»
«Le ripeto che provo solo tanta rabbia. Il resto è un sentimento indefinito, che non so spiegarle.»
«Anche la rabbia, purtroppo, serve a poco. Per certi versi è persino dannosa, per quanto legittima e comprensibile. È utile provarla in questo momento, perché l’hai trattenuta dentro di te per troppo tempo; ma alla lunga ti lega a un ricordo che è bene metabolizzare, per ritrovare la tua innocenza e le responsabilità dei tuoi genitori. La rabbia è una gabbia, che ci lega a coloro che odiamo perché non possiamo più amare. La rabbia vincola, e ci toglie il diritto di essere liberi.»
Anche le capre amano
Spiate da dietro le persone portano il peso del loro destino, come se nella parte che non possono vedere di se stesse si addensassero tutte le sofferenze,
i pensieri, le speranze individuali e quelle di tutte le generazioni precedenti che paiono accanirsi contro l’unico testimone, lo spingono in avanti ma intanto sembrano ridere di lui, della sconfitta che ripeterà.
M. Mazzantini, Splendore
La famiglia di Viola aveva alzato verso l’esterno una barriera di apparenza, talmente ben architettata da distorcere qualunque sguardo. Un’apparenza che mostrava una famiglia affiatata e felice, borghese, sempre presente alla messa domenicale, ben curata nell’aspetto. Riservata.
Questa barriera non solo trasmetteva al mondo esterno un’illusione di normalità, ma permetteva ai genitori di rispecchiarsi nell’illusione stessa, li convinceva di essere tutto sommato una famiglia priva di problemi.
Da quando l’uomo ha abbandonato la primitiva poligamia e i gruppi allargati, scegliendo l’intimità della famiglia, ha compreso che i panni sporchi è meglio lavarli in casa. Mai stenderli alla finestra, neanche quando sono candidi e immacolati. Di contro, si è sviluppata la strana tendenza a guardare sempre e costantemente tra le lenzuola degli altri, per giudicare le macchie presenti, per sfuggire alla noia, o piuttosto alla paura, di guardare le proprie.
Le macchie sui panni della famiglia di Viola c’erano, e avevano quel colore vermiglio di un corpo violato, contaminato da un’eccitazione proibita. Erano chiazze indelebili, che venivano occultate per essere dimenticate, o lasciate lì come soprammobili, talmente presenti al loro sguardo, da non essere più notate.
Sotto la cortina di un’apparente e bugiarda normalità, si nascondeva una famiglia con dei segreti troppo grandi per essere rivelati.
Le barriere si aggiunsero alle barriere, si moltiplicarono fuori e dentro casa, in un rovo di dedali complessi e intricati.
I versi di Montale riempivano l’aula, decantati dalla professoressa con così tanta enfasi, che pareva sul punto di infiammarsi al suono