In un futuro lontano: Fiaba per adulti
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Collana Presagi: narrativa fantastica
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In un futuro lontano - Enrico Di Cesare
978-88-9369-161-1
Nel buco nero della caverna e fuori
I
«Ah... Ah... Ahimè...» [piange e grida]
«Cos’hai, figlia mia? Perché questo pianto, perché tanto affanno?»
«Lasciami gridare forte il dolore e la rabbia per essere nata qui in quest’orribile buco nero, senza aria e senza luce; in questo inferno senza fiamme, gelido come l’Antartide; in questo buco profondo come il pozzo dell’anima malvagia, che ci dà come nutrimento solo bisce melmose o topi e pipistrelli, dove non c’è sole e cielo, ma solo fango imputridito di liquami maleodoranti e puzzolenti...»
«Vieni qui, figlia mia, stringi il tuo corpo al mio, scalda il tuo cuore, appoggialo al mio cuore; nell’oscurità riesco a vedere i tuoi grandi occhi di cerbiatta, orgogliosi come quelli del leone; i tuoi capelli ocra come il colore della terra più preziosa; la pelle bruna come il bronzo dorato più raffinato; vieni, figlia, soffoca il pianto nel mio seno, asciuga le lacrime. Voglio piangere io le tue lacrime, ma qui non c’è un inferno eterno come eterna punizione divina, questo è solo un purgatorio, un passaggio, un’attesa, lunga e dolorosa, ma non vana, perché un giorno verrà Colui che ci guiderà su per l’aspra via che mena diritto alle stelle...»
Il pianto continua fragoroso come un’immensa cascata di lacrime, interrotto qua e là da singhiozzi irrefrenabili, poi a poco a poco le lacrime cessano, i singhiozzi si fanno più radi, fino a placarsi quasi completamente.
«Mamma, tra tue braccia sento l’alito caldo del tuo respiro, il ritmo lento del tuo cuore, il conforto delle tue parole. Ho asciugato il mio pianto, ho gettato via lo scoramento, ho preso dentro di me la forza e ho raggiunto la consapevolezza. Ora so che non c’è, e mai ci sarà, nessuno che saprà o potrà insegnarci come seguire la via che va lontano, fuori di qui: il desiderio genera il mito, il mito crea personaggi inesistenti che sembrano veri e invece non sono che vani. Mamma qui ora, in questa profonda oscurità ci sono io con l’anima che gronda sangue e ci sei tu che cerchi di consolarmi, e non c’è nessuno, nessuno che asciughi il pianto, che sollevi il corpo, che sappia la strada dell’erta, che ci dica dove mettere il piede e come seguire il cammino, come affrontare le asperità, come combattere i nemici, come conquistare il posto migliore, quello ameno, quello dall’aria fresca e profumata dei profumi più suadenti della natura. Ora, qui, ci sono io e mi sento pronta, ho raggiunto la consapevolezza di possedere la forza necessaria per uscire e vedere il mondo, di avere finalmente il coraggio di sfidare i malvagi che ci costringono nella parte più buia e profonda della caverna, per convincerli alla pace, al bene, all’amore reciproco, alla collaborazione sinergica, alla felicità diffusa, all’immensità della contemplazione delle stelle...»
«Ah... Ah... Ahimè... [piange e grida] Nooo! Figlia, nooo! Il tuo corpo mi sembra quello di un’antilope che fugge, di balzo in balzo, leggera di gioventù, ma questo tuo corpo è ingannatore, non ti fidare di lui! Guarda, ci sono i leoni nascosti nell’erba; invisibili, camminano cauti e lentamente, sottovento, non fanno alcun rumore, rarefatti, sciolti nell’aria. Sono grandi e pesanti e mai potrebbero raggiungere la leggerezza della libertà di una gazzella quale tu sei, eppure guarda meglio, sta’ in guardia, non vedi come son numerosi? Se, scartando destramente uno di loro, fuggi lontano dalla sua malvagità, non vedi che cadrai dritto nella bocca famelica dell’altro? Figlia mia, non seguire la strada degli ormoni giovanili, larga, diritta e insidiosa, segui invece quella tortuosa del sospetto, lentamente, pronta a fuggire se oltre la curva si appalesa qualche pericolo inaspettato, quella che è già nota ai vecchi come me, che hanno conosciuto inganno e dolore, perché la malvagità degli uomini non ha confine, va oltre l’immaginario, oltre l’immenso, va oltre dio...»
«Qui, nel posto dove sono nata, conosco ogni cosa. Senza vedere riconosco ogni pietra; so dove posare e stemprare la stanchezza; dove ascoltare il silenzio; dove rimirare l’oscurità; dove nascondermi; dove immaginare l’infinito, l’immensa montagna sopra di noi; so dove in fila passano i ratti; dove posso andare a caccia di pipistrelli; dove scavare il carbone e arrostire le carni; dove essiccare le pelli... questo mio buio lo conosco come il professore conosce il libro, come l’amante la sua amata. Ma dopo tanti anni di vita, ora so anche quello che non conosco; so che, se vivo, vivo per essere bagnata dalla pioggia, asciugata dal sole, ubriacata dallo scintillare dei colori; so che esiste un cielo e non l’ho mai visto e so che è profondo più del mare, a volte placido e tranquillo come il prato fiorito, ma può anche far male come la frusta del torturatore più spietato; so che la pelle può sentire il vento freddo del nord e il vento caldo, arroventato dalle sabbie del deserto; che le orecchie possono udire il suo fischiare attraverso le fessure delle rocce come canne d’organo dal suono incantatore; che gli occhi possono rimanere quasi accecati dal biancheggiare della neve, dalla luce d’oro del sole, dall’azzurro profondo dell’aria e la mente smarrirsi nella notte di luna nuova quando le stelle, senza rivali, sanno brillare, insieme, come innumerevoli lucciole evanescenti... sono pronta, madre, ad affrontare l’ingiustizia e la violenza, a perire, ma non voglio rimanere qui, dove l’aria immota spegne ogni desiderio di vita, dove regna il silenzio e lo squittire dei topi, dove si muore ancor prima di vivere...»
«No, figlia, tu non sai proprio niente! Non sai quanto è crudele e violenta la malvagità, non sai cosa faranno di te: