Non mi ascolti: Siamo lastre di vetro dove parole scorrono
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Un attimo, un ictus, la morte sfiorata. Mesi infiniti all'ospedale, peripezie, il ritorno a casa, ma la mente non c'è più. Attraverso questa esperienza, difficile, sfiancante, l'impossibilità di trovare una intesa con una madre ormai spenta dischiude nuove prospettive di sofferenza e di comprensione: mescolando vicende personali, attualità e riflessioni, si fa strada una consapevolezza definitiva: non è vero che siamo prede dell'incomunicabilità, si comunica, anzi, fin troppo. Solo che non serve, è tutto inutile, le nostre parole scivolano sulle lastre che siamo, e che non si incontrano mai davvero. Una storia che si legge da racconto lungo o romanzo breve, anche se tutto è dolorosamente reale.
Massimo Del Papa
Faccio il giornalista dal 1990. Ho scritto alcuni libri, di preferenza in formato ebook.
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Non mi ascolti - Massimo Del Papa
Non mi ascolti
Siamo lastre di vetro dove parole scorrono
Massimo Del Papa
Copyright Massimo Del Papa 2020
"Non siamo realmente noi se non quando, mettendoci di fronte a noi stessi, non coincidiamo con niente, nemmeno con la nostra singolarità"
(Emil M. Cioran)
Benedetto l'uomo perché non conosce il suo destino. Maledetto perché non conosce se stesso. Condannato all'alea dei giorni, dei momenti, per ogni suo respiro. Eppure progetta, costruisce, si rovescia addosso alluvioni di segnali. Dannato l'uomo che più si protende e più si scopre solo. E dopo stagioni inafferrabili si ritrova solo all'appuntamento con se stesso e allora capisce che niente è stato vero, che tutto ciò che è passato è come un sogno, illusorio, impossibile. Una realtà mai successa. Mai vissuta. Mai vissuta da lui.
Oggi mia madre ha avuto un ictus. È morta per un minuto. Eravamo tutti lì noi due figli, perché iersera non si era sentita bene: caduta attraversando la strada, di fronte la parruccheria che non ci capisce niente la raccoglie la fatta entrare le impacca la faccia la schiaffa sotto al casco. Mai perdersi una cliente. Tre ore dopo la cliente non riusciva a parlare e la donna che per 84 anni avevamo conosciuto evaporava già. Incerti inerti al capezzale di una contusa confusa che rideva, abbiamo chiamato la guardia medica ma non riusciva a spiegarsi lei, poco ce la cavavamo noi, alla fine la dottoressa ha detto: aspettate domani e portatela per una tac. L'indomani lei si è alzata ha preso una tazza di caffellatte e d'improvviso si è fermata come un pupazzo che esaurisce la carica. Poi è diventata un quadro di Picasso e mi è franata addosso. L'ho contenuta, stesa sulla poltrona in cucina, inerte involucro di mamma, poi, dopo interminabili secondi, è tornata, ha preso a sbuffare come un mantice. Gli occhi rotolati lontano, da qualche parte. Noi figli esterrefatti, urlavamo senza capire, ci dicevamo cose che non ascoltavamo, nessuno dei due sapeva cosa fare. Uno di noi ha chiamato il 118 e anche lì ho avuto la netta sensazione che le parole non servissero: da una parte la concitazione di chi, angosciato, vorrebbe contagiare l'altro del suo terrore, dall'altra un'assenza in una cornetta che, come era suo dovere, chiedeva cose tecniche del tutto prive di senso. Alla fine è arrivata una pattuglia del pronto soccorso, due o tre portantini e una dottoressa virile, bofonchiava, ce l'aveva con l' indirizzo sconosciuto
, ci ha accusato di non essere stati precisi, poi, mentre mia madre sul letto non reagiva, ha perso tempo ad accusarci di quel che le pareva. Noi tentavamo di comunicare sintomi, il comportamento delle ore precedenti e quella più dura, più carogna, l'unica cosa che le premeva era di metterci in difficoltà con questioni criptiche, richieste che noi non capivamo.
L'hanno scaricata sulla barella, trasportata in strada, sull'autoambulanza, sono partiti verso l'ospedale. I vicini alle finestre; nessuno ha chiesto niente, dopo un attimo la macchina non c'era più e la nostra vita era cambiata.
Al pronto soccorso c'era mio fratello, salito in ambulanza con gli altri. Io mi sono sorpreso nella casa vuota, coi gatti spaventati, di colpo troppo larga, ho preso qualcosa per l'ospedale ma i miei pensieri non si combinavano con la mia volontà, non ero in grado di intendere me stesso. Ho agito di puro istinto. Un pensiero dominava gli altri: che era un'altra bellissima mattina di agosto, giusta per il mare e invece andava sprecata, e dopo di quella chissà quante. La mia estate finiva lì. Invidiavo quelli che adesso arrancavano verso la spiaggia, mentre cercavo pigiami estivi e asciugamani rimpiangevo il me stesso di ieri che a quest'ora stava giù immerso nel mare. Non mi sono vergognato della mia meschinità, non era intenzionale, solo qualcosa che arriva e, quando lo scacci, c'è già stato.
Sono salito con la Vespa, subito ho sbagliato ingresso: il pronto soccorso l'hanno spostato nella zona dell'obitorio, non lo sapevo, giravo senza meta. Anche qui, una volta entrato, ho provato quella sensazione, antica in me ma di colpo più precisa, più definitiva, di non sapermi spiegare. Usavo parole che non potevano contenere il mio stato d'animo e quelle parole rimbalzavano contro l'abitudine di professionisti abituati a neutralizzare miliardi di parole uguali, voci diverse, proprietà diverse, ma tutte uguali. Sono passato in una grande sala vuota, tetra, che pareva un garage e lo era perché arrivavano le ambulanze d'emergenza e qui giaceva mia madre. Su un lettino, penzolante dalla prima flebo di un rosario infinito. Lontano da lei un altro vecchio, ugualmente esanime. C'erano solo distanze in quella rimessa.
Ho freddo, ho freddo mormorava mia madre. Non ricordava chi fossi. Mi ha scambiato per suo fratello, che sta a Pavia. Io le parlavo le chiedevo, lei non rielaborava, rendeva frammenti, brani di risposte incoerenti e il suo mantra, freddo, ho freddo, ho così freddo. In verità lei ha sempre freddo, lo avrebbe anche in un forno. Replicava d'istinto, la sua vera natura che pulsava, unica cosa ancora vigile. Si addormentava spesso, si riscuoteva un poco, tornava nel torpore. Non siamo mai stati in grado di comunicare granché, come con mio padre del resto: due persone, due genitori che la parità di un confronto non hanno mai neppure sospettato esistesse. Ma adesso, in quell'hangar senz'anima, la distanza delle parole, l'impossibilità di capirsi assurgeva a livelli trionfali. È tornato suo mio fratello, non so dopo quanto tempo, e mi ha raggiunto. Parlavamo a domande, imprecazioni, non c'era niente da chiarire, niente che si potesse sapere. Parlavamo per parlare. Un progresso, dopo anni che non ci siamo rivolti la parola.
Abbiamo cominciato a darci il cambio in quel regno del nulla di parenti annoiati o avviliti, trafelati o seccati sulle poltroncine della sala d'attesa. Quasi nessuno si scambiava una parola oltre il necessario, le brevi informazioni di servizio che prevalgono quando un parente è critico. Così diciamo: critico. La cosa più comunicativa era l'altoparlante che, di tanto in tanto, chiamava un nome un numero. Microcosmo d'indifferenti, estranei gli uni agli altri, concentrati nella propria angoscia. Universo d'implosi. Invisibili stillano le ore e fa sempre più caldo, avevo paura che venisse qualcuno a multarmi la Vespa - Ma le dico che ho mia madre grave, un ictus!
, A me non interessa, questo è divieto di sosta!
- e avevo sofferenza per il richiamo del mare. Gli unici giorni in cui tentare di essere come gli altri. Alla gravità di mia madre già andavo abituandomi, l'isolamento in cui ero precipitato – nessuno che consola, nessuno che ti informa – faceva scoprire nuove risorse di adattabilità. Scrutavo i tentativi, i conati penosi di nuovi sconvolti, più freschi di me nello spavento inatteso mentre imbarcavano qualche congiunto e tentavano, patetici e straziante come me poco prima, di spiegare di illustrare, battendo contro il muro di paziente indifferenza che già mi aveva investito. Che oramai conoscevo. Metafora della vita, l'universo come un infinito albero di Natale carico di ninnoli, di luci che brillano a sprazzi apparentemente comunicando, in realtà avvolti nei loro bagliori, isolati ciascuno da tutto. E quel pulsare feroce e disperato scandiva ogni istante di