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Never Ends, nessuno come noi
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Never Ends, nessuno come noi

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About this ebook

“Chi non conosce la felicità non può comprendere quanto sia difficile difenderla da chi vuole portartela via.”

Cosa puoi fare quando gli affetti più cari, il lavoro, le certezze che compongono il tuo universo sono a rischio?

Puoi scegliere di non lottare e aspettare che il destino si compia, oppure puoi combattere con tutto te stesso a prescindere dalle conseguenze che ne verranno.

Josh e Grace hanno una bella casa, due deliziosi bambini e un lavoro che soddisfa entrambi. La felicità sembra aver definitivamente bussato alla loro porta, tuttavia il loro mondo è davvero così perfetto come appare?

“Mantenere i nervi saldi si faceva ogni minuto più complicato: in certe occasioni ero andato fuori di testa e Grace mi aveva guardato come fossi uno sconosciuto che occupasse abusivamente la sua vita e quella dei bambini.

Forse era vero, mi stavo trasformando in un estraneo che custodiva segreti ed elargiva bugie con terrificante facilità. In fin dei conti, era più semplice apparire distante, e anche un po’ stronzo.”

Josh custodisce un segreto che è deciso a non rivelare a tutti i costi, anche se lo porterà a un passo dal perdere ogni cosa. Durante il coraggioso cammino che intraprenderà in cerca di una soluzione dovrà fare i conti con ciò che è “giusto” e ciò che appare “necessario”. La verità, pur se dolorosamente pericolosa, è spesso l’unica arma a cui possiamo ricorrere per garantirci la salvezza.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJul 25, 2018
ISBN9788827841358
Never Ends, nessuno come noi

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    Never Ends, nessuno come noi - Rhoma G.

    segreti

    Diario di Grace

    Caro diario, oggi sono tre settimane, ventuno giorni, venti notti infinite, una moltitudine di minuti trascorsi senza sapere perché tutto questo sia accaduto.

    Forse è vero il detto Niente dura per sempre; le vicissitudini della vita sono tali e tante da indurti a pensare Era troppo bello per essere vero.

    Lo so, sto scrivendo frasi fatte, però certe vicende hanno il sapore confortevole della minestra calda, altre quello stantio del pane raffermo.

    La mia vita è tragica e comica insieme.

    Non riesco più a dormire, se non qualche ora per notte. Penso continuamente al domani come alla fine di tutto, e non come a un nuovo inizio. Eppure potrebbe essere l’ultima occasione per salvare il salvabile.

    È una lotta contro il tempo alla quale non riesco a rinunciare, mentre mi rigiro in questo grande letto, un posto arido e freddo senza di lui.

    Forse non è soltanto una leggenda quella che afferma che Certi rapporti non finiscono mai, sebbene non restino uguali nel tempo.

    La verità è che tutto cambia: il tempo, le persone, i sentimenti. Anche se non lo vogliamo accade, anche se non lo desideriamo succede, perché è nella natura dell’essere umano scoprirsi bisognoso di cambiamento.

    Si chiama vivere.

    Nel corso della mia esistenza ho capito che la vita è un tesoro meraviglioso, costituito da tante minuscole gemme, ognuna delle quali rappresenta una preziosa opportunità, una gioia, oppure un dolore. Sì, perché anche dai dolori è possibile trarre qualcosa di buono: un insegnamento, più conoscenza di sé, magari una lezione per i giorni che verranno.

    Il mio è un auspicio, un fortissimo desiderio.

    Alcuni giorni continueranno a essere duri e difficili, altri, se si è fortunati, ci faranno gioire e ringraziare il cielo per quanto ci ha concesso.

    La vita è questo, un meraviglioso terribile miscuglio di gioie e dolori, felicità e disperazione, un’alchimia geniale e malefica allo stesso tempo.

    È inutile convincersi di averne il controllo o tirare le fila di ogni momento. Non è così, mai lo sarà.

    In definitiva, godiamoci il tesoro attimo per attimo, senza pensare al domani, e non dimentichiamo, anche quando saremo tentati di sotterrarlo in una buca  tanto profonda quanto lo è la nostra afflizione, che c’è sempre un giorno che segue la notte. La luce è a un passo oltre il buio.

    Dovrò ricordarmene domani, quando andrò incontro al mio destino.

    1

    Josh

    Da Stardust

    Qui giace Senso di Colpa, fedele amico e lavoratore instancabile.

    Rancore: ovunque tu sarai, io sarò con te.

    Non piangete per me, ma ricordatemi con un sorriso. Per sempre Vostra, Paura.

    EPITAFFIO

    Lei è di spalle, ha i capelli lunghi al punto da coprirle il fondoschiena. Indossa un cappotto più grande di alcune taglie che la fa apparire ridicola. Mi avvicino lentamente. Potrei pronunciare il suo nome, ma temo la sua reazione.

    Che diavolo ci fa qui?

    In questo luogo intimo e lontano dal mondo credevo di essere al sicuro, se non da lei, dal suo ricordo.

    Mi legge nel pensiero, si volta, punta lo sguardo iniettato di sangue su di me e sento i brividi che fanno vibrare i nervi come corde di violino. È ancora più emaciata rispetto all’ultima volta in cui ci siamo trovati l’uno di fronte all’altra.

    Gli occhi sono cerchi infuocati, le labbra sottili e senza colore.

    Somiglia a uno spettro.

    Lei è questo, un fantasma che popola i sogni tanto quanto la vita reale.

    Ciao, Joshy, sono tornata. dice, sorride e un terribile senso di nausea stringe il mio stomaco. Faccio in tempo a udire il suono del mio respiro affannato, poi un lampo di fuoco mi esplode nel cervello e il nero mi inghiotte. 

    Mi svegliai con la netta sensazione di stare per morire. Un infarto, un colpo apoplettico, un collasso congiunto degli organi interni avrebbero posto fine una volta per tutte a quel tormento. Poi due visini tondi presero vita davanti ai miei occhi e più che mai desiderai di sopravvivere.

    Il Sole non era ancora alto nel cielo, ma io non sarei rimasto in quel letto un minuto di più. Avrei corso il rischio di riaddormentarmi e rivivere di nuovo quell’incubo.

    Le mie paure venivano a trovarmi di rado durante il sonno, ma quando si presentavano non se ne andavano in tempi brevi. Se la prendevano comoda; come in un loop mi facevano avvertire ogni brivido, ogni sussulto, e le immagini erano talmente reali che mi rendevo conto di aver sognato solo dopo essermi svegliato con il cuore in gola.

    Anche quella notte avevo trascorso ore pregando di non cedere al sonno, ma quando era successo Morfeo mi aveva accolto tra le sue braccia.

    Guardai Grace, sentendomi in colpa. Non le avevo riferito nulla di quel che era accaduto e ancora accadeva. Solo mio padre ne era al corrente. Mi ero confidato con lui un giorno in cui avevo avvertito fortissimo il bisogno di dirlo a qualcuno. Mi aveva consigliato di stare calmo e considerare il comportamento di Maureen come quello di una persona debole e malata. Avevo accettato il consiglio, ma non lo avevo seguito, ero in ansia e giudicavo Maureen una pericolosa squilibrata.

    Mia moglie, dopo aver passato la notte a tenere a bada la mia inquietudine, adesso dormiva serena. Dentro di sé, percepiva che qualcosa mi impensieriva, ma ero stato un fenomeno nell’imputare il mio nervosismo alla sfera lavorativa. Del resto, era un periodo cruciale quanto magico per la mia carriera, ed io non potevo neppure godermelo appieno.

    Mi augurai che Grace stesse sognando qualcosa di bello, ad esempio noi due che facevamo l’amore sulla spiaggia, una notte in cui il cielo era trapunto di stelle e il mare ci deliziava con la sua musica. Niente più incubi per lei, né sofferenze indicibili causate da uno sventurato essere infelice.

    Sembrava trascorso un secolo da quando il mio amore ed io, nelle notti di luna piena, percorrevamo il sentiero che dalla villetta porta al mare, io accendevo il fuoco, lei versava vino rosso in bicchieri di plastica, si lamentava delle calorie mentre si scolava l’ultima goccia e si concedeva un’altra generosa quantità. All’alba ci ritrovavamo avvinghiati, coperti da un unico telo di cotone, ruvido come carta vetrata, il fuoco ormai spento, la sabbia ovunque dentro e sui vestiti, talmente felici da accusare dolore al petto.

    Chi non conosce la felicità non può comprendere quanto sia difficile difenderla da chi vuole portartela via.

    In quel particolare periodo della nostra vita Grace ed io non eravamo più felici rispetto a quando ci eravamo appena sposati. Semplicemente lo eravamo in modo diverso. I problemi e le avversità si erano susseguiti inesorabili, senza fare sconti, ma noi avevamo tenuto duro, contando sulla testardaggine che ci contraddistingue e la sana incoscienza di chi a trent’anni sogna di mettere su casa e famiglia.

    Raggiungere lo scopo, tagliare il nastro d’arrivo alla meta era ciò che aveva sempre contato. Ora contavano i nostri figli, generati da me e dalla donna che avevo fortissimamente voluto al mio fianco.

    Nello spazio di poche parole pronunciate attraverso un telefono, tutto era a rischio, di nuovo.

    Avevo creduto di essermi liberato per sempre di lei, tuttavia avevo capito che certi drammi ti segnano a vita. Alcuni spettri non trovano mai pace, anzi la trovano perseguitando il motivo del loro supplizio.

    Lei era tornata a tormentarmi, per me la pace era finita.

    Avevo subodorato puzza di guai quando avevo sentito la sua voce all’altro capo del telefono.

    Ero arrivato in ufficio di buon mattino. Le classifiche di vendita facevano bella mostra del mio nome in cima alla lista, io scoppiavo d’orgoglio e fierezza. Il cellulare si era animato, l’avevo tirato fuori dalla tasca dei jeans felice di poter condividere quella notizia con Grace, ma non era il suo nome quello che campeggiava sul display, bensì un numero sconosciuto del distretto di Washington.

    «Sì?» avevo risposto usando un tono diffidente, come se mi aspettassi delle cattive notizie.

    «Mia sorella sta impazzendo in quel fottuto buco, e siete stati voi, tu e quella puttana grassa, a mandarla lì. Vi odio.» Poi un silenzio assordante. Non avevo avuto fiato per spiccicare neppure una parola, un clic aveva messo fine a quell’agonia. Avevo impiegato ore per riprendermi, smettere di tremare, ritrovare lucidità, riordinare le idee e pensare a un modo legale di risolvere la faccenda.

    La persona al telefono non aveva detto il suo nome perché sapeva che avrei riconosciuto la sua abilità nel rovinarmi la vita. Fra diecimila voci la sua spiccava per l’odio impresso in ogni sillaba.

    Era Maureen, cazzo! E aveva sete del mio sangue.

    Ragionando a mente fredda, valutai che in fondo non se ne era mai andata veramente; in un angolo del mio cervello aveva trovato un luogo sicuro dove dimorare e crescere, in attesa di fare l’ingresso trionfale dalla porta principale. Le radici del suo antico odio erano ben affondate nella mia esistenza.

    Nessuna minaccia, nessun preavviso di pericolo imminente, eppure la catastrofe era prossima.

    Conoscevo la mia avversaria come me stesso, al punto che la tranquillità si era volatilizzata come pulviscolo in una giornata di vento.

    Da un mese custodivo quel segreto: non dormivo, non mangiavo, lavoravo come un matto e immaginavo l’inimmaginabile, aspettando l’inaspettato.

    Quanto avrebbe impiegato Maureen a distruggere tutto quello che avevamo costruito in otto anni?

    Non potevo allarmare Grace, né farle sospettare che i nostri figli fossero in pericolo. Alimentare panico senza avere di fatto nulla di concreto da fornire alla polizia era come incendiare un campo di grano prima ancora che le cavallette iniziassero a razziarlo.

    Lo aveva confermato anche McFly, il detective che si era occupato del tentato omicidio di Grace.

    «Senza minacce o chiari segni di squilibrio non possiamo intervenire contro la signorina Moskowitz. Ti ha detto che ti odia? Che odia Grace? Questo lo sapevi già.»

    Certo che lo sapevo!

    Chiunque facesse parte della mia vita era al corrente del risentimento che Maureen e tutta la sua famiglia covavano nei miei confronti.

    Una garrota mi stringeva la gola, un peso mi schiacciava il petto. Dovevo liberarmi dalla morsa dei sensi di colpa che opprimeva il mio sonno. Così decisi di fare una corsa sulla spiaggia affinché il male intorno a me si dissolvesse, almeno per qualche ora.

    2

    Grace

    Da Bittersweet

    Diario di Grace.

    Caro diario, ho quasi ucciso Carter. Quel ragazzo mi farà ammattire.

    VIP

    Mi accorsi della sua assenza prima ancora di stendere il braccio in cerca del suo naso, solitamente freddo. Quella mattina, nonostante fosse piena estate l’aria intorno a me era gelida, così come la porzione di materasso e il cuscino lasciati vuoti da Josh.

    Quell’assenza era assai strana, primo perché era domenica, e non una domenica qualsiasi, bensì la mattina del nostro settimo anniversario di matrimonio. Secondo perché non era sua abitudine alzarsi presto, in un giorno festivo.

    «Joshua?» lo chiamai senza troppa convinzione e con il malumore a intaccare il sottile strato di serenità faticosamente conquistato negli ultimi tempi.

    Già.

    Non c’era da stare allegri.

    Da quando la mia dolce metà aveva acquisito il nuovo stato di very important person, le cose fra noi non andavano per il verso giusto. Spesso c’era aria di baruffa e i battibecchi, normale amministrazione nel nostro rapporto, erano aumentati in modo esponenziale. Joshua Il Pagliaccio si era trasformato in un vero scocciatore che brontolava e si lamentava di tutto e per tutto.

    Il più delle volte era nervoso, di regola di umore altalenante, e questo mi faceva irritare, impazzire addirittura. Nonostante ciò cercavo di essere paziente anche oltre le mie capacità. Era un momento particolare della sua vita professionale e gli occorreva tempo per abituarsi.

    In verità occorreva a tutti, bambini compresi. «Dove ti sei cacciato?» In sottofondo udii un pianto disperato provenire dalla stanza accanto. «Joshua Carter, esci fuori e fai il tuo dovere di padre!» E dire che, con largo anticipo, mi ero premurata di indicare come mi sarebbe piaciuto trascorrere quella ricorrenza: colazione a letto, doccia in compagnia, tante coccole.

    Era estate, la brezza calda del mattino sarebbe entrata all’ora giusta dalla finestra aperta e sfruttando il varco tra le tendine a fiori avrebbe svegliato il mio Josh con una carezza. Dopo un primo smarrimento lui si sarebbe stropicciato gli occhi impastati di sonno, avrebbe smosso il tessuto leggero delle lenzuola e sarebbe arrivato alla pelle nuda del mio petto, per poi piombare sulla mia bocca e morderla.

    Il risveglio perfetto dopo il caos di quelle settimane.

    Me lo meritavo un signor risveglio, mi dissi, con baci, palpatine e giochetti.

    «Mamma, vieni!» Peety urlò per sovrastare il pianto della sorella. Cominciavo a sentirmi frustrata dall’assenza ingiustificata di mio marito, tant’è che fui tentata di ignorare le voci provenienti dall’altra camera e tapparmi le orecchie con il cuscino. «Mam-maaa!»

    Era possibile che Josh, da marito premuroso qual era, fosse uscito presto per comprare i miei dolci preferiti?

    Lui non si dimenticava di nessuna ricorrenza: compleanni, anniversari e date particolari erano scolpiti a fuoco nella sua memoria. Lo prendevo in giro per questa sua peculiarità, specie quando mi rammentava di chiamare quel parente o quella amica per un avvenimento che li riguardava. Signor so tutto io.

    «Maaammma!» Peety sembrava sul punto di esplodere, così, in quanto unico genitore presente in casa, scacciai i brutti pensieri e saltai giù dal letto. Promisi a me stessa che non avrei rivolto la parola a Josh se al suo ritorno non avesse fornito una buona scusa per la sua assenza.

    La porta della camera da letto era spalancata, e anche quella della cameretta di fronte. Figlio Indignato mi lanciò un’occhiataccia. «Finalmente!» esclamò come se lo avessi lasciato ad attendere per delle ore. Lo ignorai concentrandomi sulla fonte inesauribile di pianto.

    «Ehi, Moccina, abbiamo iniziato presto.» Mi inginocchiai per guardare in viso Figlia Piangente, la nostra bimba di due anni e mezzo, fabbrica ambulante di moccio.

    Megan possedeva una spiccata predisposizione al pianto quanto Peety era portato per la polemica e le puzzette.

    Per Megan frignare era il modo migliore di trascorrere le giornate ~ e anche qualche notte ~ secondo solo allo sporcare pannolini. Avevamo perso tre babysitter e innumerevoli ore di sonno per quel talento che, di certo, doveva essere una sorta di castigo divino o vendetta del karma.

    «Piange da ore, mamma, voglio una cameretta tutta mia!» Peety, sei anni di età, braccia conserte e gambe penzoloni, se ne stava seduto sul letto con gli occhi stropicciati al pari del suo adorato pigiamino di Spiderman.

    «Sei il solito esagerato, Peety.» Non ricordavamo il momento in cui avevamo cominciato a chiamare nostro figlio con quel nomignolo, ma Paul Peter Thomas ci era parso davvero troppo lungo e per non dispiacere a nessuno avevamo creato una sorta di vezzeggiativo che però il bambino odiava. «Ti abbiamo spiegato che non c’è un’altra cameretta in questa casa.»

    «Paul Peter Thomas III, è questo il mio nome!» proclamò con il tono lagnoso cui accennavo prima. «E possiamo avere una casa con tante camerette, se vogliamo.» Ancora con le braccia tese verso il lettino di Megan, mi voltai per guardare il primogenito.

    «E questa storia della casa da dove salta fuori?» Peety fece un sorriso furbo e le braccia mi caddero lungo i fianchi.

    Era il sorrisetto sghembo alla Joshua che gli campeggiava sulle labbra. Mi sentii pazzamente innamorata di lui, oltre che di suo padre.

    «Il nonno ha detto che sono il terzo dei suoi discordanti e vuole regalarci un’altra casa, ma tu e papà non la volete perché siete superbi.»

    «Si dice discendenti, e tuo padre ed io non siamo superbi!» Usai un tono severo e uno sguardo piccato, ma Peety non si lasciò intimidire. Quanto a ostinazione era uguale a me e a quell’età dubitavo fosse un bene. «Quale nonno vuole donarci qualcosa di tanto importante?»

    «Nonno Wilson dice che sono il terzo discordante.» La domanda era stata superflua, sapevo benissimo quale nonno aveva detto cosa.

    «Discendente, Peety. Sillaba la parola, poi ripetila per bene.»

    «Ma, mamma…»

    «Forza, signorino.» Lui aggrottò le sopracciglia scure e intrecciò le dita sul grembo. Se non avessi saputo che aveva solo sei anni, avrei pensato di trovarmi di fronte un attempato signore. «Di.»

    «Di.»

    «Poi?»

    «Scen.»

    «Sì.»

    «Den-te.»

    «Bravo. Ora per intero.» Mio padre e la sua mania di tramandare quella stupida numerazione nei nomi propri. Presto o tardi avrebbe persuaso il bambino a pretendere anche il suo cognome.

    «Discendente.» annunciò Peety con una dizione perfetta. Lo guardai con orgoglio.

    «Nonno Wilson non ha avuto figli maschi» spiegai, «e tu porti anche il suo nome, tesoro, ma sei un Carter prima che un Wilson.»

    Sperai che non riferisse mai a suo padre quanto avevo appena affermato, perché mi sarei mozzata la lingua piuttosto che contribuire a far gonfiare ulteriormente quel pallone aerostatico.

    «Nonno Carter dice che siete superbi.»

    «Che carino!» Cercai di deviare il discorso, agguantando un fazzoletto per asciugare il moccio dal nasino di Megan. «Dato che la usi con tanto entusiasmo, conosci il significato di questo aggettivo?»

    «Vuol dire che tu e papà non volete regalarmi una cameretta!» Ridacchiai.

    «Non credo sia esatto.»

    «Mamma, voglio una cameretta, Megan è femmina!»

    «È vero, tesoro, tua sorella è una femminuccia, ma siete entrambi abbastanza piccoli da poter dividere questa. Vuoi che dipingiamo la tua parete con un colore diverso? Che ne pensi del blu e del rosso? Magari potremmo disegnare delle tele di ragno qua e là.» Peety mi guardò di sbieco, arricciò il nasino, corrugò la fronte. Sapevo che non lo avrei convinto, tuttavia provare era la mia unica possibilità.

    «Lei è piccola, io sono grande!» ribatté. Anche quella mattina sembrava deciso a fare storie.

    Presi Megan in braccio e mi sporsi a baciarlo sulla fronte per tentare di mitigare il suo malumore.

    «Il mio ometto!» Peety era come suo padre, non si lasciava incantare dal mio fascino quando fiutava puzza di diversivo. Scocciato si grattò il punto in cui gli avevo stampato il bacio, poi udii il suo pancino brontolare. «Hai fame, tesoro mio?» Fece un solenne cenno di assenso. «Andiamo di sotto, ti preparo la colazione.»

    Mi alzai dal pavimento con Megan che, attaccata al collo come un koala, tirava su col naso e si lamentava sommessamente. «E tu? Hai fame, Moccina?» La piccola spalancò la boccuccia in uno sbadiglio umido di lacrime che presi per un sì.

    Peety mi circondò una gamba con le braccia. «Papà dorme?» Nonostante avesse dichiarato di essere grande, risentiva della presenza di Megan, pretendendo più attenzioni e manifestando il suo disagio con capricci e monellerie.

    «No, papà non dorme.»

    «È andato al nuovo lavoro?»

    «Non credo, tesoro, oggi è domenica.»

    «Allora dov’è?»

    Mi venne da ridere.

    «Non lo so, quando mi sono svegliata era già uscito.» Mio figlio parve pensieroso, mi afferrò la mano e la strinse come se avesse intuito il mio turbamento. Gli fui grata per quel piccolo gesto, ancor più quando si offrì di giocare con Megan mentre preparavo la colazione.

    Josh tornò a casa in tempo per i pancake.

    Indossava una canottiera consunta e un paio di calzoncini sportivi che gli lasciavano scoperte le cosce muscolose. Il sudore gli colava a rivoli dalle tempie, lambendo le guance coperte da un leggero strato di peluria che, in alcuni punti, emanava bagliori d’argento.

    Era stato a fare jogging.

    Tutto il risentimento che mi ero ripromessa di esprimere sparì, sostituito dalla voglia di stringere quel corpo statuario e asciugare quel sudore con la pelle nuda.

    «Dove sei stato?» Come se non fosse già abbastanza difficile mostrarmi risentita, ci si mise anche il suo sorriso.

    Maledetto.

    Il suo sorriso era sempre stata un’arma di distruzione di massa e in quel frangente lo giudicai un vero e proprio colpo basso.

    «Buongiorno, famiglia!» Sudato e rosso in viso, apparentemente ignaro del fatto che fosse il giorno del nostro anniversario, si stampò sulle labbra quel suo tipico sorriso assassino. «Sono stato a sudare.» Indicò gli aloni sotto le ascelle, tuttavia nel suo sguardo lessi un accenno di preoccupazione. Da settimane, un’ombra di inquietudine velava i suoi occhi verdi, senza motivo evidente.

    Solo io ero al corrente che l’aria arrogante dietro la quale si trincerava non era altro che una maschera, di conseguenza, l’entusiasmo con cui salutò i pancake e me m’insospettì.

    «Stai bene?»

    «Mai stato meglio!» rispose con il suo classico tono strafottente. Sporco e scapigliato mi parve ancora più bello del solito. Sarebbe arrivato il momento in cui avrei smesso di innamorarmi di lui ogni santo giorno? «Che buon profumo! Ho una fame da lupi!»

    Dubitai fortemente.

    «Dato che non hai intenzione di fare una doccia, che ne dici di lavarti almeno le mani?» Di un fatto ero sicura: non era passato in pasticceria, perciò si era dimenticato del nostro anniversario!

    «Signorsì, mamma.» Strizzò l’occhio al figlio, che rise sotto i baffi e lo osservò versarsi una quantità di sapone liquido sufficiente per detergere un milione di mani, strofinarsi come se avesse del grasso sui palmi e sciacquarsi consumando la riserva dell’intero acquedotto.

    Non c’è che dire, offriva ai nostri figli un esempio contro gli sprechi ingiustificati.

    «Se hai finito

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