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Se ascoltassimo di più le persone che si avvicinano alla morte, impareremmo a vivere meglio.
È curioso come, ogni volta che qualcuno mi chiede cosa faccio ed io rispondo che sono psicologa di cure palliative, automaticamente si cambi discorso. Quasi nessuno mi chiede del mio lavoro, quasi nessuno vuole sentir parlare di malattia, né tantomeno di morte, quando l’unica cosa certa nella nostra vita è che moriremo.
Mi chiamo Sara e il mio più grande insegnamento in questi anni è stato che se ascoltassimo di più le persone che si avvicinano alla morte, le aiuteremmo a morire meglio. E, soprattutto, che se ascoltassimo di più le persone che si avvicinano alla morte, impareremmo a vivere meglio.
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Book preview
13 Anime - Sara de Miguel
Sara de Miguel
Traduzione di Jessica Catani
13 Anime
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Scritto da Sara de Miguel.
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Copyright © 2018 Sara de Miguel.
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Tutti i diritti riservati.
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Distribuito da Babelcube, Inc.
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www.babelcube.com
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Traduzione di Jessica Catani
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Babelcube Books
and Babelcube
sono marchi registrati di Babelcube Inc.
Dedicato a tutte quelle persone malate o decedute,
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che mi hanno insegnato tutto sulla vita.
Se puoi curare, cura.
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Se non puoi curare, lenisci il dolore.
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E se non puoi lenire il dolore, consola.
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(Augusto Murri)
INDICE
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Una breve presentazione
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Eva
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Juan Luis
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María
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Ana
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Azahara
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Alberto
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Manuel
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Eugenia
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Pilar
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Felipe
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Roberto
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Sara
UNA BREVE PRESENTAZIONE
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Mi chiamo Sara. Quando avevo 13 anni, mi è stato diagnosticato un piccolo tumore benigno all’omero. I medici non gli hanno dato molta importanza, hanno detto che siccome ero nell’età dello sviluppo, sicuramente si sarebbe riassorbito da solo. Io ho continuato, con una certa incoscienza dovuta all’età, la mia vita da adolescente. Ho terminato la scuola con bei voti, sono sopravvissuta ad una situazione familiare difficile ed ho affrontato le prime esperienze da persona adulta.
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Ho deciso di studiare psicologia perché amo la gente, ma non amo vederla soffrire ed ho pensato che, in questo modo, avrei potuto aiutare gli altri a stare meglio con loro stessi e con ciò che li circonda. Il tumore è rimasto stabile finché, quando avevo 19 anni, è cresciuto in modo repentino. Ha invaso la testa omerale e sono stata operata d’urgenza. Hanno asportato il tumore e mi hanno inserito un impianto realizzato con un osso dell’anca e con un osso artificiale. Ho impiegato più di un anno e mezzo a recuperare parte della mobilità. È stato un processo lento e doloroso, soprattutto a livello emotivo, poiché mi ha fatto vivere una vita da persona malata, mentre tutti i miei amici avevano una vita normale
. È stata un’esperienza che mi ha segnato molto, su tutti i piani. Mi ha fatto rivedere le mie priorità, apprezzare i piccoli momenti e i rapporti con le persone della mia vita.
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Questo prematuro faccia a faccia con la malattia e con la possibilità (che, seppur remota, non poteva essere ignorata) di morire, mi ha fatto addentrare nel ramo della psicologia che ha a che fare con le persone malate. Volevo ascoltarle, condividere con loro il dolore fisico ed emotivo ed aiutarle, per quanto fosse possibile. La mia prima occupazione come psicologa aveva a che fare con la salute mentale e, durante i sette anni in cui ho trattato malati psichiatrici gravi, ho studiato e mi sono specializzata in psicologia delle cure palliative.
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Il 19 ottobre del 2011, ho bussato alla porta del mio primo paziente in qualità di psicologa di cure palliative domiciliari. Sapevo che nel momento in cui sarei entrata in quella casa, la mia vita sarebbe cambiata per sempre. Ma non potevo immaginare quanto.
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Sono ormai molti anni che busso alla porta di casa di persone gravemente malate, che di lì a poco moriranno. Ogni volta che busso a una porta non posso non provare un certo senso di colpevolezza: sebbene io non sia la portatrice della malattia, sono la costante reale della presenza di un malato e della morte che si avvicina. Non riesco a non essere agitata ogni volta che guardo negli occhi ognuna di quelle persone, oppure i suoi familiari. Tuttavia, questa stessa agitazione è ciò che mi motiva a continuare a bussare alle porte per offrire ascolto, conforto e appoggio.
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È curioso come, ogni volta che qualcuno mi chiede cosa faccio ed io rispondo che sono psicologa di cure palliative, automaticamente si cambi discorso. Quasi nessuno mi chiede del mio lavoro, quasi nessuno vuole sentir parlare di malattia, né tantomeno di morte, quando l’unica cosa certa nella nostra vita è che moriremo. Non sappiamo quando, né come, ma quando arriverà il momento tutti vorremmo morire bene
, anche se neppure noi sappiamo in cosa consista questo morire bene
. Per fortuna, ho l’immenso piacere di lavorare con un’équipe di medici ed infermieri molto professionali ma soprattutto molto umani, con i quali ho condiviso la straordinaria esperienza di aiutare molte persone a morire nel miglior modo possibile. E questo è realizzabile perché ogni persona malata alla quale ci avviciniamo ha un vissuto, un presente frutto del suo ineguagliabile passato. Ci legge le pagine della sua biografia, ci fa vedere attraverso i suoi occhi e provare emozioni con il suo cuore, condivide con noi le sue paure e le sue preoccupazioni e lascia fluire le sue emozioni affinché, quando giungerà il momento, potrà morire provando la minore sofferenza possibile.
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Il più grande insegnamento che ho ricevuto in questi anni è che se ascoltassimo di più le persone che si stanno avvicinando alla morte, le aiuteremmo a morire in modo migliore e soprattutto che, se ascoltassimo di più le persone che si stanno avvicinando alla morte, impareremmo a vivere meglio.
EVA
Il 19 ottobre del 2011, ho bussato alla porta del mio primo paziente in qualità di psicologa di cure palliative domiciliari. Era una vecchia porta di legno, di un edificio antico nel centro città. Il suono del campanello rimbombò nell’ampio pianerottolo dal soffitto alto. Mi tremava la mano.
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Aprì una donna minuta, dal sorriso sincero, che mi chiese immediatamente se fossi la psicologa. Annuii con la testa e ricambiai il sorriso. Lei mi prese per mano, mi guardò negli occhi e mi abbracciò forte. Non tremai più.
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Eva mi condusse, tenendomi per mano, in un salotto accogliente e si sedette in un angolo di un vecchio divano. Tutti i mobili erano antichi, usurati dallo scorrere del tempo; tuttavia, c’era un profumo di pulito e di qualche deodorante per ambienti dall’aroma floreale molto gradevole. Mi sedetti accanto a lei e condividemmo una coperta di lana con la quale ci coprimmo le gambe. Era una coperta patchwork, di quelle composte da quadrati colorati cuciti insieme, consumata dall’uso. Era malata da più di tre anni e sapeva meglio di me come parlare ad una psicologa. Era chiacchierona, arguta e spiritosa. Ascoltai la sua storia per più di tre ore e quella fu una chiacchierata piacevole e gratificante. Quel pomeriggio ascoltai e basta. Ascoltai lei e la sua storia.
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Eva aveva 39 anni. Raggiungeva a malapena il metro e sessanta ed era un po’ gonfia, sicuramente a causa dei farmaci a base di cortisone, che hanno questo indesiderato effetto collaterale. Portava un foulard annodato sulla parte posteriore della testa, dai colori vivaci, che le conferiva un aspetto giovanile nonostante la calvizie. Aveva delle piccole rughe in corrispondenza della commessura degli occhi, grandi e marroni, e delle occhiaie scure e marcate. Mi raccontò che si era sposata a 20 anni e aveva avuto 3 figli. Il maggiore, Toni, all’epoca aveva 19 anni e lavorava come cameriere in un bar sulla costa. I minori, Juan e Miguel, avevano 9 e 7 anni e quel pomeriggio erano agli allenamenti di calcio. Quattro anni prima si era separata da suo marito e qualche mese dopo si era ammalata. Cancro al seno con metastasi cerebrali. Era stata operata varie volte ed altrettante era stata sottoposta a chemioterapia. Le probabilità di guarire erano minime e lei lo sapeva. Era arrabbiata, ma accettava coraggiosamente il suo destino.
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Mentre Eva parlava, ci furono momenti in cui dovetti trattenere le lacrime ed altri in cui mi si formò un nodo in gola che non mi faceva respirare. Lei non versò neppure una lacrima. Suppongo che quando le hai versate già tutte, non te ne resta più neppure una.
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Non capisco perché mi sia successo questo. Sono sempre stata una brava persona. Sono stata una brava figlia, molto obbediente. Sono stata una brava moglie, mi sono sposata che ero innamoratissima e mi sono sempre presa cura di mio marito e dei miei figli. Anche adesso, che sono malata, mi alzo tutte le mattine, preparo la colazione e li accompagno a scuola, nonostante dopo abbia bisogno di restare un’ora seduta sul divano per riprendermi dalla camminata. Sai, la maratona non la posso più correre! Ahahahah! Mio marito mi ha lasciata per una ragazzina di vent’anni, che qualche mese dopo ha lasciato per passare ad un’altra. Ho lavorato molto, in un negozio di mobili. Vendevo tanto perché mi piace la gente, ero gentile con i clienti, ma quando mi sono licenziata a causa del cancro, mi hanno liquidata con quattro spicci. Adesso, quasi non riesco ad arrivare a fine mese e devono aiutarmi i miei fratelli. Non capisco. Esistono persone cattive a questo mondo, dei veri parassiti, che continueranno ad esserci, mentre io non vedrò i miei figli crescere. Non li vedrò sposarsi e diventare genitori. Non potrò diventare nonna, né prendermi cura dei miei nipoti. Non è giusto
.
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Il mio primo domiciliare, la mia prima paziente e il mio primo insegnamento: la vita è ingiusta.
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Tornai a casa sua molte altre volte, per un anno e mezzo, una volta a settimana. Ci sedevamo sempre sul suo divano, una accanto all’altra. In estate sostituiva la coperta di lana con un fresco lenzuolo bianco perché diceva che anche se faceva caldo, sentiva freddo alle gambe. Parlava molto, quasi senza fare pause. Di tanto in tanto sorrideva e ogni tanto, abbassava la testa in modo triste.
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Mi raccontava dei problemi comportamentali di Juan, che a scuola era diventato un piccolo tiranno. Di Toni e della sua fidanzata, che volevano trasferirsi a Madrid. Della tristezza che si stava impossessando di Miguel, che aumentava in proporzione al suo bisogno di chiedere aiuto per alzarsi, lavarsi o preparare il pranzo. Dei litigi con i fratelli, che davanti al deteriorarsi fisico di Eva, si erano eretti a comandanti nella sua stessa casa. Dei sintomi che la sfiancavano, come il mal di testa,