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Una candela illumina il Lager
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Una candela illumina il Lager

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Giancarlo Turchetto, Sottotenente in Grecia, dopo l’8 settembre 1943 viene catturato dai tedeschi a Volos e deportato attraverso un lungo viaggio a Beniaminowo, da dove poi sarà trasferito a Sandbostel e infine a Wietzendorf.
La storia del protagonista è una delle tante vicende che coinvolsero oltre 600mila militari italiani fatti prigionieri dai tedeschi dopo l’8 settembre del ‘43. È la storia di una Resistenza senz’armi, di un militare che ha scelto di restare nel Lager piuttosto che collaborare con Hitler e Mussolini. Turchetto racconta ogni giorno la sua prigionia: sono pagine preziose, descrizioni vivide, emozioni scritte sulla carta alla luce fioca di una candela. E sono tutte rivolte alla moglie Mariuccia – chiamata affettuosamente Uccia – ai figli e alla mamma Camilla, che a casa hanno atteso a lungo il suo ritorno.
La scrittura ha il carattere vivo di un romanzo, ma romanzo non è. Le condizioni di vita sono misere, si soffre il freddo, la fame, e il pensiero della morte accompagna costantemente il protagonista. È’ una condizione che di umano non ha più nulla, ma Giancarlo sopravviverà e riuscirà a tornare grazie all’amore per la sua famiglia, che gli darà la forza di resistere alla degradazione del Lager. Il testo è corredato da un agile apparato storiografico e contiene documenti e fotografie.
LanguageItaliano
Release dateAug 19, 2018
ISBN9788866602699
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    Book preview

    Una candela illumina il Lager - Silvia Pascale

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    Copertina

    PREMESSA DI MARIA TRIONFI

    PRESENTAZIONE di MARIAGRAZIA ZAMBON

    ARIA DEL NORD

    1944 - Campo di prigionia (Wietzendorf)

    Prologo

    Capitolo 1

    8 SETTEMBRE 1943 - VOLOS (GRECIA)

    IL VIAGGIO

    Capitolo 2

    BENIAMINOW STALAG 333 (poi OFLAG 73)

    SANDBOSTEL (STAMMLAGER XB BREMENWÖRDE)

    WIETZENDORF STALAG XD/310 OFLAG 83

    DA INTERNATI MILITARI A LAVORATORI CIVILI

    LA LIBERAZIONE SOFFERTA

    LA FAME NEL LAGER

    IL DIARIO

    WIETZENDORF

    1945

    APPENDICE 1

    APPENDICE 2

    APPENDICE di MARGHERITA BIGNARDI sul padre internato a Wietzendorf

    GRUPPO FACEBOOK: IMI (Italienische Militär-Internierte) Internati Militari Italiani

    NOMI DEI DEPORTATI E LAGER DI INTERNAMENTO (amici del Gruppo Facebook)

    COMPAGNI DI PRIGIONIA DI GIAN CARLO TURCHETTO trascritti nella sua rubrica

    BIBLIOGRAFIA

    FONTI

    Silvia Pascale

    Una candela illumina il Lager

    ISBN versione digitale

    978-88-6660-269-9

    UNA CANDELA ILLUMINA IL LAGER

    Autore: Silvia Pascale

    © 2018 CIESSE Edizioni

    www.ciessedizioni.it

    info@ciessedizioni.it - ciessedizioni@pec.it

    I Edizione stampata nel mese di settembre 2018

    Impostazione grafica e progetto copertina: © 2018 CIESSE Edizioni

    Immagine di copertina: © 2018 Gabriella Di Stefano

    Collana: Le nostre guerre

    Editing a cura di: Renato Costa

    PROPRIETA’ LETTERARIA RISERVATA

    Tutti i diritti sono riservati. È vietata ogni riproduzione dell’opera, anche parziale, pertanto nessuno stralcio di questa pubblicazione potrà essere riprodotto, distribuito o trasmesso in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo senza che l'Editore abbia prestato preventivamente il consenso.

    A Barbara Conte

    Alle Donne

    Alla Luce della Memoria

    PREMESSA DI MARIA TRIONFI

    {1}

    Esperta delle vicende dell’Internamento e collaboratrice dell’ANEI

    Non conosco Silvia che attraverso le sue lettere. E c’è stata subito una comunanza di intenti. Il diario del nonno di Barbara non è il primo diario che leggo. Nomi, luoghi e vicende si ripetono in molti dei diari degli IMI. E tutte le volte ammiro la capacità di sopportazione di questi giovani, il loro non scoraggiarsi mai, pur in condizioni così difficili. Gian Carlo Turchetto è fra questi. Il suo diario scritto in forma di lettere a sua moglie Uccia su 12 blocchetti, ha spesso toni che arrivano dritti al cuore e alla coscienza dei lettori. Non nascondo che spesso mi sono trovata con le lacrime agli occhi. Il mio auspicio, quello di Silvia e di Barbara, è che non ci si limiti ad ammirare il sacrificio di tanti sopravvissuti e non, ma ci si dedichi alla creazione di un mondo nuovo dove queste sofferenze siano cancellate per affermare il nostro desiderio di pace.

    Dobbiamo fare in modo che le nuove generazioni non conoscano mai, se non attraverso diari come quello del nonno di Barbara, quello che gli IMI hanno dovuto sopportare. Vorrei insomma che la lettura di tante sofferenze affrontate con dignità insegnassero la strada verso la tolleranza e la pace fra i popoli.

    PRESENTAZIONE di MARIAGRAZIA ZAMBON

    Esperta di metodologie in ambito socio-pedagogico

    Ho avuto il piacere e il privilegio di accompagnare, con discreta vicinanza, Silvia Pascale nell’iter di elaborazione di quest’opera complessa e originale. Da tempo ci legano una profonda amicizia, oltre che una preziosa collaborazione sul piano professionale e mi ritengo testimone della passione che la unisce in modo indissolubile alla ricerca storiografica. La sua formazione archeologica condiziona fortemente e positivamente la modalità di ricerca utilizzata dalla scrittrice: è minuziosa e scientifica analisi di documenti accompagnata da sapiente rielaborazione critica, ma non solo. La modalità operativa, strutturalmente reticolare, parte dal diario di Gian Carlo Turchetto, dagli elementi che la rilettura attenta e continua fa emergere, si sposta poi sul piano della ricerca di ulteriori informazioni, si arricchisce con la bibliografia, acquisisce energia dalla soddisfazione di chiarire il quadro storiografico, per poi ritornare al diario che viene trasformato da privata narrazione a testimonianza storica. La diaristica degli IMI riporta tutti noi alla memoria familiare con la sensazione però di essere immersi in un disegno complesso, carico di silenzi e di non detti conseguenti anche alla difficoltà di valutare a fondo questioni etiche e politiche che ancora percorrono il nostro tempo. Come l’autrice non si stanca mai di ripetere, non si tratta di tracciare confini di valore, di dare giudizi sulle scelte, ma di far emergere le responsabilità di chi ha permesso tale tragedia e di chi ha sperato di lasciarla cadere nell’oblio anche grazie al silenzio che questi uomini hanno voluto calare sulle loro vicende personali una volta ritornati in Patria.

    Ricordando Zygmunt Bauman ribadisco la necessità di leggere il futuro con criteri nuovi costruiti sulla conoscenza del passato personale e collettivo, facendo luce sui periodi bui della nostra storia ancora recenti. Così sarà forse possibile restituire dignità alle tragedie vissute da questi uomini per fare in modo che ciò che è accaduto non debba più accadere; con questa coscienza possiamo anche pensare di leggere il presente e ipotizzare il futuro con nuovi significati, ma rimanendo sempre solidamente accovacciati sulle spalle dei giganti.

    ARIA DEL NORD

    Poesia di Vincenzo Fantini

    1944 - Campo di prigionia (Wietzendorf)

    Cielo brumoso,

    aria fredda,

    tetra la piana;

    più tetri ancora i tetti

    della Città immersa

    in cortine di nebbia.

    Radi voli di corvi

    e gazze gracidanti

    si perdono nelle foreste

    fitte di smilzi pini.

    Qui non trovi sorriso di natura.

    Tutto triste, tutto ti rattrista!

    Infinito spazio di uguale grigiore.

    Il tempo qui par che sia sospeso

    nel muto aere,

    e le cose stanche di se stesse

    paion sepolte nel mistero

    di trascorsi evi.

    A volte il fischio della vaporiera

    avverte dello scorrere lento delle ore

    e dell’esistenza di anime viventi.

    Si va... si corre col pensiero

    su strana strada, per ignoti lidi

    e l’ansia dell’arrivo è più tormentosa

    del giaciglio duro ove si posa

    il fardello della carne,

    mentre l’anima straziata

    dall’avversa sorte

    vola lontano!

    Ringrazio l’Avv. Giuseppe Fantini, nipote dell’Internato Vincenzo, con il quale sono entrata in contatto tramite un amico comune, Annibale Mansillo, che mi ha donato questo bel libro di poesie. Vincenzo Fantini, ufficiale in Grecia, dopo l’8 settembre 1943 viene deportato in Polonia e in Germania, l’ultimo Lager è appunto Wietzendorf. Come Turchetto, amava scrivere ed esorcizzare i momenti bui della prigionia fissandoli sul proprio diario.

    Ho scelto questa poesia fra le molte che si possono leggere sulla deportazione perché mi ha colpito l’assonanza della descrizione lirica con le pagine del diario di Turchetto. Il campo di Wietzendorf viene descritto con tratti incisivi, con rapide impressioni acustiche e visive; le frasi sono brevi, l’effetto di frammentazione è ottenuto dalle poche congiunzioni: ogni verso è un’immagine essenziale e la poesia è un insieme di diapositive che si susseguono amplificando la sensazione di angoscia che il poeta vuole trasmettere. Dall’aspetto meramente descrittivo, il cielo, le gazze e i corvi, gli alberi, il poeta passa a una dimensione personale, umana: un improvviso fischio della vaporiera lo fa viaggiare con il pensiero verso casa, verso gli affetti, proprio come l’autore del diario che andremo a leggere, il Sottotenente Gian Carlo Turchetto.

    Prologo

    Si può sempre dire un sì o un no

    Hanna Arendt

    La coscienza dell’uomo contemporaneo vive oggi con disagio ogni violazione dei diritti umani: il periodo del rifiuto dell’orrore è passato, si è creata la distanza ed è tempo di far emergere con più forza le voci degli Internati. Tutto questo ci costringe a guardare dentro a questa tragedia e ci spinge a diventare militanti della memoria, testimoni attivi.

    Ho conosciuto Barbara Conte qualche anno fa e abbiamo scambiato qualche chiacchiera davanti a un caffè in piazza a Casier… non so come, ma il discorso è finito sulle passioni che ognuna di noi aveva e ha ancora, tra cui la storia delle nostre famiglie. Qualche giorno dopo Barbara è passata da me e mi ha portato un tomo rilegato in pelle blu dicendomi: «Questo lo ha scritto mio nonno in prigionia, se hai tempo leggilo e dimmi se può essere interessante».

    Da quel momento il diario del nonno mi ha accompagnato per qualche anno, assieme alle numerosissime lettere ai familiari e ai documenti che piano piano abbiamo raccolto con meticolosa attenzione grazie alla disponibilità degli altri parenti. Per le mie ricerche sull’Internamento – avviate ormai da anni - mi rifaccio a Giorgio Rochat{2}, che diede avvio al dibattito sull’importanza dell’uso di diari e memoriali per ricostruire da un punto di vista storico la vicenda. Questo grande studioso insiste sull’importanza di problematizzare i dati statistici relativi al numero degli Internati per spiegare le ragioni della "Resistenza senz’armi". Questo, secondo Rochat, avrebbe dovuto costituire l’inizio di una riflessione storica.   Una delle prime persone che ho conosciuto non appena mi sono avvicinata a questo argomento è stata Maria Trionfi, figlia del Generale Alberto Trionfi, assassinato durante una delle marce della morte in Polonia. È una persona a cui sono molto affezionata perché incarna l’etica e la forza con cui affrontare quotidianamente queste ricerche e la voglio ringraziare per il suo contributo.

    La prima tappa del percorso sul nonno di Barbara è stata la visita al Museo Nazionale dell’Internamento a Padova, curato dall’ANEI. Qui abbiamo conosciuto il Generale Maurizio Lenzi, Giuseppe Panizzolo e il prof. Gastone Gal. Quest’ultimo è il mio mentore, una delle persone più importanti all’interno del mio lavoro di pubblicazione.

    Ho condiviso con Barbara ogni momento della ricerca, ci siamo quotidianamente confrontate su come procedere, abbiamo vissuto momenti di riflessione e anche delle pause dovute alle scelte editoriali. Si poneva infatti il problema di come proporre ai lettori un’opera di dimensioni enormi (tale è il diario di Gian Carlo). Era corretto pubblicarlo integralmente, oppure effettuare dei tagli? Innanzitutto si è dovuto confrontare il diario trascritto dall’autore stesso con i suoi appunti di prigionia, per verificare che non ci fossero state correzioni, omissioni o errori di scrittura. Successivamente il lavoro si è occupato essenzialmente della limatura linguistica: per essere letto fluidamente il testo ha bisogno di avere una sintassi lineare e chiara, senza ridondanza di aggettivi o connettivi. I consigli dell’editor, Renato Costa, e la presenza dell’editore, Carlo Santi, hanno dato una svolta al lavoro.

    Esistono vari scritti che riportano le testimonianze delle deportazioni nei Lager, ma un diario è decisamente diverso da uno scritto postumo e retrospettivo, perché mantiene tutta la spontaneità di un rapporto clandestino, vissuto intensamente giorno per giorno nei momenti rubati alla prigionia. 

    Questo volume è il diario di prigionia del Sottotenente Gian Carlo Turchetto, attraverso quelli che vengono definiti Oflag, ossia campi di concentramento per ufficiali: Beniaminowo, Sandbostel e Wietzendorf. È a sua moglie Mariuccia che egli dedica i suoi scritti, è a lei che quotidianamente (anche più volte al giorno) si rivolge per raccontare cosa succede e dove si trova, ma soprattutto per lenire la sofferenza della lontananza, per non pensare alla fame e al freddo, per avere meno paura traendo dal legame con la donna amata forza e sostegno.

    Gian Carlo è il terzo di sette fratelli e nasce a Spresiano (Treviso) il 29 marzo del 1915; studia all’Istituto Riccati di Treviso (la cosiddetta vecchia Ragioneria) e poi trova lavoro come impiegato alla Banca d’Italia. Svolge il servizio militare e frequenta il Corso Allievi Ufficiali della Scuola di Avellino, arma di Fanteria, nel 1940. L’anno successivo viene nominato Sottotenente. Si sposa con Mariuccia Calipon nella chiesa di Santa Maria Maggiore a Treviso e gli farà da testimone Nicola Del Giudice, che ritroverà anche durante la prigionia in Germania.

    Il 31 maggio 1943 parte per la Grecia, destinazione Presidio di Volos, dove giungerà il 1 giugno e dove l’8 settembre 1943 lo coglierà l’armistizio. Come si evince da una lettera del 31 agosto 1943 inviata in copia alla moglie Mariuccia, alla sorella Maria Luisa e ai fratelli Piero e Neni, non risulta più in servizio effettivo al Deposito del 55 Reggimento Fanteria, ma è stato trasferito dal 1 giugno 1943 al IX Battaglione Presidiario, il cui centro di mobilitazione era il 151 Reggimento Fanteria.

    In pochi giorni diventerà uno dei tantissimi Internati Militari Italiani fatti prigionieri dall’esercito tedesco e inviati nei campi di concentramento. La cattura, riportata sul foglio matricolare, risale al 14 settembre. Durante tutto quel periodo di prigionia Gian Carlo ha tenuto un diario, o meglio, tanti piccoli blocchetti di appunti, dodici per la precisione. Una volta rientrato in Italia tornerà alla sua vita, a sua moglie e ai suoi figli, e quando andrà in pensione trasformerà in un dattiloscritto tutto quello che aveva appuntato sui blocchetti trascrivendolo fedelmente.

    Gian Carlo iniziò a scrivere il giorno dell’armistizio, l’8 settembre del 1943, nei ritagli di tempo, soprattutto la domenica, esorcizzando la sua prigionia. Durante il trasferimento in Germania si era portato alcuni blocchetti di carta dal Presidio in Grecia, dove era distaccato durante la guerra. Quei piccoli notes diventano preziosi per Gian Carlo, che inizia a riempirli con una calligrafia ristretta, per sfruttare ogni spazio bianco, nella speranza di farli durare il più possibile. Il diario è stato uno strumento indispensabile per dare senso alle giornate, nella speranza di tornare e con la paura che questo non si avverasse. Era un ponte virtuale con la moglie. Proprio questo scritto così meticoloso (la trascrizione originale è di circa 600 pagine) costituisce una fonte importante per gli avvenimenti di quegli anni e per la vita nei tre Lager dove furono rinchiusi migliaia di ufficiali italiani. Per questo motivo ho deciso con Barbara di mantenere la struttura originaria del diario (rimaneggiando la sintassi), riportando le informazioni trascritte dall’autore relativamente ai fatti di guerra, alle persone e alle vicende registrate in quei momenti.

    Gli Internati che scrivono - come Gian Carlo Turchetto - testimoniano ciò che è avvenuto e quello che hanno vissuto, e dimostrano ancora una volta come la deportazione degli IMI sia un fenomeno di resistenza all’interno del biennio 1943-45.

    Il diario si compone di tre macro aree distinte nei tre Lager di internamento e sono accompagnate da note e da una significativa documentazione fotografica dei luoghi della deportazione, per rendere più immediata la lettura del testo.

    La trascrizione del diario presenta dei raccordi redatti dalla sottoscritta per rendere più fluente il testo, specie dove le giornate si ripetono sempre uguali a se stesse. Ho inoltre voluto reperire informazioni sui tre Lager dove Gian Carlo è stato tenuto prigioniero per un motivo semplice: quando ho iniziato a occuparmi di Internati, ho rivolto la mia attenzione soprattutto ai testi di documentazione storiografica, che però sono pochi e soprattutto non sono esaustivi di tutti i Lager. Si ritrovano infatti spiegazioni frammentarie, descrizioni tratte da diari o da viaggi effettuati recentemente sui luoghi della memoria, materiali che per loro natura non possono rappresentare una documentazione storiografica. Molti sono stati i diari e le memorie pubblicate nel corso degli anni, ma spesso sono autoedizioni, con tirature limitate e pochissima diffusione, a volte nemmeno acquistabili. Questo è stato a mio avviso uno dei grossi limiti della disseminazione della storia degli IMI, insieme alla mancanza di ricerca documentale negli Archivi: se si vuole ricostruire un panorama dell’Internamento italiano bisogna acquisire qualsiasi testimonianza possa ampliare la conoscenza su questo periodo storico. Molti tralasciano l’analisi di archivi stranieri per la difficoltà della lingua o di accesso: questo può essere tranquillamente risolto, ma soprattutto è doveroso farsene carico. Molti dei fondi archivistici di maggiore interesse per lo studio degli IMI sono stati fortemente danneggiati. In parte essi sono andati distrutti per motivi legati alle vicende belliche (bombardamenti, trasferimenti), in parte molti documenti sono stati intenzionalmente eliminati alla fine del conflitto per non lasciare traccia di responsabilità in crimini di guerra. L’Archivio di riferimento più importante in Germania è l’International Tracing Service (ITS) di Arolsen, un centro di documentazione sulla persecuzione nazionalsocialista. Qui sono conservati oltre 30 milioni di documenti. Un altro archivio tedesco importante è a Berlino, il Deutschen Dienststelle (WASt), che si occupa di prigionieri di guerra anche in collaborazione con altri enti. In Italia un archivio di riferimento è l’Archivio Segreto Vaticano, che conserva documenti sulla prigionia dei militari italiani. Più difficile è la consultazione dell’Archivio della Croce Rossa Internazionale di Ginevra: le richieste provenienti da quasi tutto il mondo vengono evase dopo molto tempo o non lo sono affatto. Per questo motivo il testo del Sottotenente Turchetto è stato, dopo la trascrizione minuziosa, rivisto alla luce degli avvenimenti documentali ritrovati negli archivi, affinché possa dare una risposta agli interrogativi di chi si avvicina all’argomento o lo voglia approfondire.

    Un altro aspetto che ho ritenuto utile evidenziare è l’importanza della fede cristiana e la funzione svolta dai vari cappellani militari incontrati dal protagonista nei Lager: partecipare alla Messa, accostarsi all’Eucarestia, recitare il rosario e le preghiere, hanno rappresentato per lui - ma anche per molti altri prigionieri - un lenimento delle sofferenze e una speranza di sopravvivenza.

    Un ringraziamento particolare va all’amica e collega Gabriella Di Stefano, docente e artista, autrice della copertina del libro, diventata col tempo un’ottima collaboratrice oltre che una cara amica.

    Capitolo 1

    8 SETTEMBRE 1943 - VOLOS (GRECIA)

    Si deve cominciare a perdere la memoria, anche solo brandelli dei ricordi, per capire che in essa consiste la nostra vita. Senza memoria la vita non è vita. La nostra memoria è la nostra coerenza, la nostra ragione, il nostro sentimento, persino il nostro agire.

    Oliver Sacks

    Questo è il mio secondo libro{3} che ha come protagonista un IMI e dove il cardine della ricerca sono il diario di un Internato e la sua documentazione epistolare familiare. Ciò rappresenta il punto di partenza per poi ampliare lo studio e la ricerca sui Lager dove il militare è stato imprigionato. Il mio interesse, infatti, è quello di integrare il quadro della prigionia con gli scritti personali che sono il punto di riferimento per la ricostruzione storica e, accanto a essa, avere il supporto di altre fonti diaristiche, di documenti d’archivio e di ricostruzioni storiche.

    Per quanto riguarda i documenti, la scelta che ho effettuato è ovviamente soggettiva e potrebbe essere ritenuta arbitraria, se non se ne spiegano le ragioni. I fatti riportati si basano su documenti ufficiali{4}: per quelli italiani mi riferisco all’Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito, mentre, per quelli tedeschi, all’Archivio Federale, sezione Militare Friburgo, dell’Archivio Federale di Coblenza. Per Beniaminowo il riferimento sono gli archivi in Polonia, in particolare l’Archivio Polacco di Varsavia. Per quanto riguarda i testi di riferimento a mio avviso più approfonditi e completi, indico quelli utilizzati in questo capitolo: Schreiber G., "I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich. 1943-1945, Roma Ufficio Storico Sme, 1992; G. Giraudi, La resistenza dei militari italiani all’estero. Grecia continentale e isole dello Jonio" Ministero della Difesa 1995; E. Aga Rossi, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani. 1940-1945 il Mulino 2011.

    Perché parlare ancora di Internati Militari Italiani{5}?

    Non tanto per insistere sull’importanza storica eccezionale dell’aspetto per il quale gli IMI sono più ricordati, ma per continuare a diffondere questo argomento ancora poco studiato specialmente nelle realtà scolastiche. È noto infatti che la stragrande maggioranza dei militari italiani decise di non aderire alla Repubblica di Salò e scelse di rimanere nei campi{6}. Così facendo restò senza protezione della Croce Rossa Internazionale, fu costretta al lavoro forzato, lavorò spesso in condizioni insostenibili e si espose al rischio frequente della morte. Dagli anni ‘80 e ‘90 del secolo scorso si è tornato a parlare di IMI e la loro esperienza è stata definita "Resistenza senz’armi". Nel 1997 la nuova attenzione agli IMI si è condensata nella medaglia d’oro al valore militare all’Internato Ignoto a Padova.

    Interessante è visionare il Rapporto degli storici della Commissione paritetica italo-tedesca{7}, istituita nel 2009. Erano nodi aperti le richieste italiane, avanzate alla Germania, di comparire in giudizio e di contribuire in solido a compensare le molte istanze di indennizzi, rivolte a quel Paese dagli IMI negli anni precedenti. Sullo sfondo aleggiava la possibilità che altri indennizzi si sarebbero dovuti liquidare ai parenti delle comunità che avevano subito delle stragi.

    Da qui nacque l’istituzione di una Commissione paritetica di storici italiani e tedeschi che avrebbe dovuto lavorare per tre anni sul tema. La Commissione lavorava perché in spirito di collaborazione Italia e Germania stanno affrontando insieme anche le dolorose vicende della Seconda Guerra Mondiale; assieme all’Italia, la Germania riconosce pienamente le gravissime sofferenze inferte agli italiani, in particolare nelle stragi, e agli ex Internati Militari Italiani e ne conserva la memoria.{8} Da quanto si legge sui documenti pubblici, quindi, la Commissione doveva concentrarsi sugli IMI. Purtroppo questo non è stato possibile, anche per via della composizione della commissione. I presidenti delle due parti erano Wolfang Schieder e Mariano Gabriele. Per quanto riguarda i commissari, inoltre, la scelta da parte di Berlino fu inappuntabile: furono scelti studiosi da tempo impegnati nell’esame del nazismo tedesco e del fascismo italiano, quali Gabriele Hammermann. La scelta italiana non fu invece senza sorprese: nessuno degli studiosi degli IMI venne chiamato. Il Rapporto, composto di quattro parti, solo nell’ultima parla degli IMI. (Internati militari italiani del 1943-1945: primi appunti di storiografia. Nicola Labanca in Testimonianze 495-496, 2014).

    Veniamo dunque a delineare la situazione in cui si trovava Gian Carlo Turchetto in Grecia a ridosso dell’8 settembre 1943.

    Dopo l’occupazione dell’Egeo, ultimate le operazioni militari, il territorio conquistato venne diviso e posto sotto il controllo di tre distinte amministrazioni{9}:

    Alla Bulgaria vennero assegnate Tracia, Macedonia occidentale e alcune isole del mare di Tracia;

    Alla Germania furono date le più importanti posizioni strategiche (territori di confine in Tracia e in Macedonia, le città e le isole come Lesbo, Chio e Creta); inoltre aveva il controllo esclusivo della ferrovia che da Atene e Salonicco risaliva tutta la penisola balcanica.

    All’Italia venne lasciato il resto del territorio, comprese le isole della Jonia.

    Alla fine del luglio 1943, in seguito agli accordi tra l’Oberkommando della Wehrmacht e il Comando Supremo Italiano, l’XI Armata del Generale Carlo Vecchiarelli era passata alle dipendenze operative del Comando Tedesco Gruppo di Armate E del Generale Alexander Lohr, con sede a Salonicco. Per facilitare la collaborazione con Vecchiarelli, che godeva di molta stima e considerazione presso i tedeschi, oltre a parlare fluentemente la loro lingua, al comando dell’XI Armata fu aggiunto come Capo di Stato Maggiore il Generale Heinz von Gyldenfeldt{10}. Nel territorio ellenico occupato i soldati italiani erano in netta superiorità numerica, sminuita però dalla loro dispersione e frammentazione, dall’ormai cronica mancanza di unità corazzate e motorizzate per il trasporto delle truppe e dall’armamento decisamente superato.

    Molto diversa era la situazione delle truppe tedesche, raccolte in grossi blocchi e schierate in posizioni centrali, sempre pronte a intervenire in qualsiasi momento e in qualsiasi direzione con unità corazzate e blindate{11}. Era ovvio che tale situazione sarebbe diventata delicatissima e svantaggiosa per le truppe italiane in caso di disaccordo con gli alleati, e la totale dipendenza tattica delle truppe italiane da quelle tedesche è stata così descritta in una relazione dal Generale Cesare Gandini, Capo di Stato Maggiore dell’XI Armata: "L’unica ferrovia di alimentazione è in mano tedesca. Pochi mezzi di marina agli ordini di un ammiraglio tedesco; taluni porti praticamente sbarrati dai tedeschi. Aviazione pressoché inesistente e aeroporti tutti in mano tedesca così come i collegamenti. Scorte logistiche esigue e rifornimenti basilari (come la benzina) dipendenti dai tedeschi… Nelle truppe vige uno stato di disagio creato dall’arenamento delle licenze, difficoltà alimentari, disservizio postale, malaria e dalle ripercussioni per i bombardamenti in Italia{12}."{13}

    Il luogo in cui si trovava il Sottotenente Turchetto, il Presidio di Volos in Tessaglia, era una zona calda della resistenza greca e lo vediamo anche dalle prime pagine del diario, dove inizialmente i comandanti (e anche lo stesso protagonista) cercano accordi con gli Andartes, i partigiani greci{14}. Nella notte dell’armistizio i dirigenti della resistenza greca chiedevano al Generale Del Giudice{15} (Comandante del Presidio di Volos e della fanteria divisionale) di liberare i prigionieri politici e che i soldati italiani si unissero agli Andartes.

    Comunque, soltanto la sera del 7 settembre 1943 il Comandante delle forze italiane in territorio ellenico, Vecchiarelli, venne a sapere dell’imminente annuncio dell’armistizio. Lo venne a sapere dal Generale Gandini, il quale, rientrato precipitosamente dall’Italia, dovette anche attendere la fine della cordiale cena tra il suo diretto superiore e il Generale Gyldenfeldt, per consegnare il "Promemoria n. 2. Vecchiarelli allora convocò subito il Generale Gyldenfeldt, chiedendogli di comunicare al comando tedesco a Salonicco la sua proposta: per evitare scontri armati si impegnava a difendere la costa fino alla sostituzione delle forze italiane con quelle tedesche, con il rimpatrio delle truppe a operazioni concluse. In serata, poi, inviò per telegramma a tutti i comandi a lui sottoposti il seguente ordine, che ricalcava quasi alla lettera una disposizione del Promemoria n. 2{16}: Le truppe italiane non faranno atti di ostilità contro truppe tedesche a meno che non siano da queste attaccate, nel qual caso alla forza si risponderà con la forza. Esse non faranno causa comune né con i ribelli greci né con anglosassoni se sbarcassero. Continueranno a difendere le coste fino ad avvenuta sostituzione con truppe tedesche. Conseguentemente ognuno resti al suo posto con gli attuali compiti fino a nuove disposizioni. Sia mantenuta comunque esemplare disciplina ed efficienza bellica dei reparti.

    Dal comando tedesco{17} partì, contemporaneamente alla proposta di Vecchiarelli, l’ordine perentorio che imponeva agli italiani la scelta se continuare a combattere al loro fianco rinnegando l’armistizio, oppure consegnare tutte le armi. L’ordine fu consegnato a Vecchiarelli dal suo amico/collega Generale Gyldenfeldt, che ricevette risposta negativa. Non si poteva accettare la prima soluzione perché contraria al giuramento fatto al re, ma neppure la seconda, perché contraria all’onore militare. A questo punto Gyldenfeldt abbandonò il tavolo delle trattative dichiarando di non avere i poteri necessari per continuare la negoziazione{18}.

    Intanto, le velocissime azioni tedesche dopo la firma dell’armistizio mostravano senza ombra di dubbio l’esistenza di un piano preciso per il disarmo degli italiani. Vennero attaccati e presi da reparti della Wehrmacht gli aeroporti di Kalamaki e Tatoi, vicino ad Atene, a cui si aggiunse l’occupazione di caserme, magazzini e sedi di comando periferiche. Vennero interrotti anche i collegamenti telefonici, isolando così il Comando d’Armata Italiano dalle divisioni alle sue dipendenze. Tutta la potente ed efficiente macchina da guerra tedesca, favorita dalla posizione strategica che le aveva permesso di incapsulare le unità italiane, si mosse per stroncare subito ogni forma di resistenza. Alle trattative col Generale Vecchiarelli si aggiunse il Comandante del XXII Corpo d’Armata da montagna, Hubert Lanz, incaricato del disarmo dell’XI Armata italiana{19}. I due comandanti stesero una bozza d’accordo che prevedeva il rimpatrio delle truppe italiane che, in cambio, avrebbero lasciato ai tedeschi l’armamento pesante e gli autocarri. Recatosi al comando tedesco, Lanz tornò alle quattro del mattino del 9 settembre e comunicò che l’ipotesi d’accordo non era stata accettata dal Generale Alexander Lohr. Questi chiedeva che fosse impartito immediatamente l’ordine di disarmo senza condizioni. A questo punto il Generale Vecchiarelli cedette, ed emise nella stessa notte un secondo ordine, in contrasto con il primo, che invitava i comandanti a rinunciare a ogni resistenza e a cedere immediatamente ai tedeschi tutte le armi, salvo quelle personali.{20}

    La decisione di Vecchiarelli{21} di accettare il disarmo di divisioni pienamente efficienti e nettamente superiori a quelle tedesche ha come parziale attenuante il fatto che egli seguì le indicazioni impartite dal governo italiano. Non vi è dubbio, inoltre, che vi fosse anche un problema di lealtà per chi, come lui, era stato fino a quel momento in stretti rapporti con i tedeschi. Soprattutto egli volle credere alla parola data che le truppe italiane sarebbero state riportate in Italia. In realtà Vecchiarelli non volle accorgersi della malafede dei tedeschi, che da subito si impossessarono in tutta la Grecia di depositi di munizioni e magazzini viveri; assunsero il controllo dei porti e degli aeroporti{22}; disarmarono unità e singoli militari. L’azione fu così tempestiva e coordinata che non poteva essere stata decisa in seguito all’armistizio, ma evidenziava un piano prestabilito e un atteggiamento vendicativo nei confronti degli italiani{23}.

    Probabilmente le ripetute concessioni fatte dal Generale Vecchiarelli sono da attribuire alla convinzione che le truppe della XI Armata, una volta cedute le armi, sarebbero state rimpatriate{24} (anche se a mio avviso è difficile credere tanta ingenuità, ipotesi seguita invece dallo studioso Gerhard Schreiber).

    Tra il 9 e l’11 settembre, comunque, la maggioranza delle divisioni si sciolse e i militari italiani passarono dallo stato di occupanti a quello di prigionieri dei loro ex alleati. Turchetto nel diario racconta che il giorno 9 settembre tutte le comunicazioni telefoniche a Volos sono state interrotte perché prese dai tedeschi e che in piazza c’era stata una grande dimostrazione di festa alla quale l’esercito italiano partecipa. Addirittura la popolazione greca porta in trionfo, offre dolci ai soldati italiani inneggiando all’Italia. In realtà, passato questo primo giorno di giubilo generale, già al pomeriggio del 9 giunge un cifrato dalla Divisione col quale viene comunicato che il Presidio deve consegnare ai tedeschi le armi collettive e partire per una località di concentramento alle ore 10 del giorno 10. Il Colonnello Capelli (che aveva sostituito il Generale Del Giudice) tiene subito rapporto a tutti i comandanti di reparto dipendenti dal Presidio di Volos e agli Ufficiali del Presidio e dice che, in ottemperanza agli ordini impartiti dalla divisione, si deve partire per Larissa, suggerendo anche di prendere accordi con gli Andartes, che avrebbero potuto altrimenti rappresentare un ulteriore ostacolo perché presenti in numero di 20.000. Gli accordi vengono presi in questo senso: gli italiani avrebbero portato via tutte le armi, comprese le artiglierie, cedendo in cambio ai ribelli, dopo la partenza, tutti i magazzini del Corpo d’Armata (viveri, foraggi, carburanti, magazzino di artiglieria, ecc.). Il giorno 11, a Volos, Turchetto e Toniolo si recano a casa del capo degli Andartes per discutere la situazione e decidere gli ulteriori sviluppi, prendendo anche in considerazione l’ipotesi di passare con i partigiani Andartes, se i tedeschi non promettono di portare i soldati in Italia.

    Lohr aveva assicurato al suo parigrado italiano Vecchiarelli che il disarmo non sarebbe stato totale. Appare abbastanza evidente che l’accordo tra Lohr e Vecchiarelli, che prevedeva il rimpatrio degli italiani previa consegna delle armi, mantenendo quelle personali, era assolutamente ingannevole. Nella realtà delle cose i tedeschi stavano procedendo in quei giorni al disarmo totale delle unità combattenti italiane e organizzavano il trasporto dei nuovi prigionieri che sarebbero poi stati internati in campi di concentramento allestiti in Grecia o trasportati direttamente in quelli tedeschi. L’inganno del rimpatrio durò alcuni giorni.

    Già dall’8 settembre nel Diario di guerra dell’Ufficio Operazioni del Gruppo di Armate E si trova scritto quanto segue: "Si doveva dire agli italiani che sarebbero stati rimpatriati, anche se in realtà ciò non era vero. "{25}

    Nonostante i tedeschi nascondessero la verità sulla loro destinazione, già dall’11 settembre cominciarono a diffondersi delle voci fra le truppe italiane di un probabile avvio ai campi di concentramento.{26} Gian Carlo, infatti, inizialmente parla il giorno 14 settembre di un assalto dei ribelli greci respinto da italiani e tedeschi insieme (quando evidentemente c’era ancora fiducia in un rimpatrio) e poi dell’ordine del disarmo.

    L’incredibile fiducia riposta nella Wehrmacht dal comando dell’XI Armata è dimostrata dalla richiesta di Gandini del 14 settembre di inviare un ufficiale in Italia per organizzare "l’accoglienza degli italiani provenienti dalla Grecia"{27}. Arrivati al 18 settembre la situazione precipita perché Vecchiarelli e Gandini vengono arrestati e condotti a Belgrado e da lì in prigionia{28}. Il Console Prato, diplomatico in Atene, descrisse con queste parole la resa dell’armata: "per giorni e settimane noi vedemmo passare per Atene colonne di soldati italiani provenienti dalle varie zone della Grecia, laceri, in disordine, senza disciplina neppure esteriore, trattati con brutalità e disprezzo dai soldati tedeschi che li accompagnavano. Molti di essi furono derubati di indumenti, scarpe e oggetti personali"{29}.

    Secondo i dati ricavabili dai documenti tedeschi, nell’ambito del Gruppo Armate Sud-Est, in pochi giorni furono disarmati in totale ben 128.790 militari italiani, quasi l’ottanta per cento dell’intero contingente che era stanziato in territorio ellenico. Non tutti consegnarono le armi: circa 12/15.000 unità riuscirono a sfuggire alla cattura e si unirono ai partigiani greci, che dal momento della capitolazione, nel 1941, avevano cominciato a combattere il nemico italo-tedesco con azioni di guerriglia e sabotaggio, aiutate con armi e mezzi dall’alleato inglese.

    Nella Grecia continentale la maggior parte dei soldati italiani che si unì agli Andartes proveniva dalla divisione Pinerolo del Comandante Adolfo Infante{30}. La divisione, di stanza in Tessaglia, durante l’occupazione controllava le province di Volos, Larissa, Trikala e Kastoria, con una forza complessiva di 23.000 uomini. I reparti della Pinerolo fecero scelte molto diverse: alcune unità decisero subito di collaborare con i tedeschi; altre cedettero le armi ai partigiani; altre rimasero indecise in attesa di ordini che tardavano ad arrivare. La maggior parte degli uomini, comunque, scelse l’alleanza con i partigiani. Il 20 settembre il Generale Infante insieme al Comandante del Reggimento Lancieri di Aosta, Berti, si recarono alle pendici del monte Pindo con l’intento di riunire, in quell’area controllata dagli uomini dell’ELAS, il maggior numero di unità italiane{31}.

    Il 17 settembre Gian Carlo annota sul diario che è giunto l’ordine di partire: i soldati vengono tutti ammassati in una caserma a Volos per essere trasportati il giorno dopo a Larissa{32}. Dai documenti d’archivio sappiamo che lo sgombero dei prigionieri da questa zona avveniva non solo via ferrovia, ma anche con mezzi fluviali e marittimi{33}. Schreiber spiega che per il trasporto vennero stabiliti immediatamente itinerari di marcia e stazioni ferroviarie da usare per il caricamento. Nell’area greca il Generale Löhr ordinò di mescolare il più possibile e separare possibilmente dai loro ufficiali i soldati che venivano avviati alla prigionia per evitare tentativi di rivolta; inoltre, per ogni gruppo di duecento prigionieri venivano impiegati non più di due ufficiali.{34} In questa zona fu diramato un ordine particolare, verosimilmente emanato dal Generale Rendulic, in merito al trasporto dei prigionieri, che trova riscontro anche nelle prime pagine del diario del Sottotenente Turchetto. Viene precisato che durante la permanenza nel territorio di occupazione tedesca sarebbe stata applicata nei confronti dei militari italiani la legge marziale in vigore. In caso di sottrazione di armi, munizioni, carburanti e viveri, si dovevano fucilare oltre ai responsabili del furto anche un ufficiale del Comando di Divisione e cinquanta uomini della stessa unità. Sarebbe stato fucilato anche chi avesse venduto o regalato armi ai civili o le avesse distrutte senza aver ricevuto ordini al riguardo{35}. Si doveva inoltre fucilare assieme al suo comandante chi fosse arrivato alla stazione di partenza senza l’arma personale{36}. Gli ufficiali avrebbero viaggiato su mezzi a loro uso esclusivo e per non renderli diffidenti viene loro detto che era "un trattamento di favore nei confronti degli ufficiali, ai quali si voleva ridurre lunghi tempi di attesa"{37}.

    IL VIAGGIO

    La prigionia per Turchetto inizia il 14 settembre 1943, giorno in cui, come descrive bene Gian Carlo, si chiudono i cancelli del Presidio di Volos e i militari italiani vengono piantonati dalle SS{38}. Da lì il 17 vengono portati in una caserma della città in attesa della partenza, che avviene il giorno dopo, e la prima meta è la città di Larissa, dove vengono riuniti anche i soldati che si trovavano negli Ospedali, quindi persone malate o ferite che comunque vengono caricate sulle tradotte ferroviarie per essere avviate ai campi di concentramento.

    Il 19 settembre Gian Carlo, dopo una breve sosta a Salonicco, lascia definitivamente la Grecia in un carro bestiame stipato con altri 39 compagni ed entra in territorio bulgaro fermandosi vicino a Skopie.

    Qui incontra altre tradotte di italiani provenienti dall’Albania, ma nessuna dalla Croazia: sta cercando infatti il fratello Neni (Eugenio) che ritroverà invece in uno dei Lager. La sosta è breve, il viaggio continua molto lentamente e con tante fermate: Gian Carlo scrive che non percorrono più di 60 km al giorno e a ogni piccola stazione viene effettuata una sosta. Il 22 settembre il treno resta fermo tutta la notte e non vengono effettuati controlli: i tedeschi sono pochi e non si fanno vedere. Il territorio è presidiato da truppe bulgare che così vengono descritte: "soldati vecchi, malvestiti e senza camicia, sono i primi questi soldati che fanno il mercato nero". Approfittando di queste occasioni, Gian Carlo e i compagni cercano di vendere qualcosa per procurarsi del cibo, dal momento che fame e sete cominciano a farsi sentire. Il viaggio prosegue per Nis (in Serbia), dove il treno si ferma per una sosta, e qui i tedeschi danno una specie di minestra e una fettina di pane. Gian Carlo scrive che i suoi compagni hanno varie teorie: alcuni sono convinti che verranno portati in campi a Zagabria, altri a Sofia, altri ancora in Germania. D’ora in poi il viaggio sarà molto pericoloso perché ci sono binari divelti e stazioni bruciate. Interessante osservare che, a quanto risulta dai documenti tedeschi, dopo la conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942, quando la Soluzione Finale (die Endlösung der Judenfrage) venne elaborata, i treni furono utilizzati per il trasporto delle persone nei campi di concentramento. La Deutsche Reichsbahn, la compagnia delle ferrovie dello Stato, era un elemento indispensabile nella macchina dello sterminio di massa, permettendo spostamenti di moltissime persone in tempi molto brevi e a costi inferiori. Inoltre, la natura completamente chiusa dei carri bestiame utilizzati dalle SS, sigillati e senza finestre, riduceva notevolmente il numero dei soldati da impiegare nelle operazioni per trasportare le persone alle loro destinazioni. Le deportazioni su questa scala richiesero il coordinamento di numerosi ministeri del governo tedesco e organizzazioni statali, tra cui l’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich (Reichssicherheitshauptamt o RSHA, un dipartimento gestito dalle SS), il Ministero dei Trasporti e il Ministero degli Esteri. RSHA coordinava e dirigeva le deportazioni; il Ministero dei Trasporti organizzava gli orari dei treni; il Ministero degli Esteri ordinava agli stati alleati le modalità di utilizzo delle loro ferrovie. È stato stimato che ogni giorno erano in movimento 20.000 treni circa. Ovviamente anche gli IMI vennero utilizzati come manodopera a costo zero per i lavori di riparazione all'interno dell’apparato della Reichsbahn.

    Dopo la partenza da Nis i militari possono scendere alle fermate, ma non allontanarsi più di dieci metri dai binari. Il 23 settembre, a mezzanotte, arrivano a Belgrado e qui i tedeschi domandano ai soldati e ai Sergenti la diponibilità a entrare nell’organizzazione Todt.

    La Todt era già comparsa in Italia prima dell’armistizio dell’8 settembre 1943 e la sua funzione era quella di manutenzione delle linee e infrastrutture ferroviarie, duramente colpite dall’aviazione Alleata.

    A partire dall’autunno del 1943 la sua funzione si ampliò alla costruzione delle fortificazioni e, in generale, a tutto ciò che era necessario per la Wehrmacht (ponti, strade, aeroporti, ecc.){39}.

    Solo pochissimi{40} passano con loro a lavorare indossando la divisa tedesca, anche se con la promessa della stessa paga dei lavoratori germanici. Gian Carlo prosegue il racconto del viaggio indicando un’altra località, Novi Sado, in territorio ungherese, dove il treno si ferma: sono quattro le tradotte che stanno viaggiando contemporaneamente, la loro e quella proveniente da Tebe. Successivamente il treno corre a Nord di Budapest e si dirige verso Vienna fermandosi prima a Györ e poi a Hegyeshalom (entrambe in Ungheria), dove Turchetto apprende che la loro è la terza tradotta in transito attraverso la città. La sera del 26 entrano nel territorio del Terzo Reich, a Bruck, e il giorno seguente sono a Vienna. Qui Gian Carlo racconta che i tedeschi perquisiscono i bagagli e asportano solamente macchine fotografiche, carte geografiche e topografiche, bussole, macchine da scrivere, materiale fotografico, ecc. A lui prendono la macchina fotografica, la carta geografica e un rotolo di pellicole vergini, mentre riesce a nascondere i rotoli di quelle già impressionate.{41} Il viaggio prosegue più veloce in territorio tedesco, sfilano varie cittadine, come Polten, Amstetten e Linz, dove viene effettuata una sosta, per poi raggiungere Passavia alla sera. Il 28 settembre continua il viaggio per la Germania con sosta a Hohenstein-Ernstthal, a Chemnitz, a Döbeln, Riesa e infine alle 20 ecco apparire Mühlberg (a 60 km da Dresda), dove si trova il campo di concentramento{42}. Alla stazione, prima di incamminarsi verso lo Stalag, avviene la prima richiesta di adesione alla RSI. Gian Carlo dice che "arriva un ufficiale superiore tedesco e un capitano di artiglieria alpina italiano che sono appositamente venuti per fare propaganda". Di 1850 che erano nella tradotta, circa 150 passano con i tedeschi: 12 ufficiali su 58 e 130 soldati su 1800 circa. Quelli che non hanno aderito entrano nel Lager e qui trovano tantissimi soldati italiani, prelevati a Bologna, Piacenza, Torino, Milano e Pavia: come Gian Carlo sono stati portati lì per mandarli ai lavori forzati. Oltre ai soldati italiani ci sono colonne di soldati prigionieri di tutte le nazionalità: russi, francesi, olandesi, inglesi, polacchi, americani… Dopo le perquisizioni e la disinfestazione Gian Carlo e i suoi compagni vengono accompagnati in un campo secondario: qui incontrano australiani, "che si riconoscono dalla statura (sono molto alti e robusti) e dai caschi, neo-zelandesi, indiani (con i loro variopinti e caratteristici turbanti) e nuovi italiani scesi da tradotte che giungono continuamente". Fino al 4 ottobre Turchetto resterà in questo campo, che per lui sarà di transito, per poi giungere in terra polacca a Beniaminowo.

    Capitolo 2

    TRILOGIA DEI LAGER

    BENIAMINOW STALAG 333 (poi OFLAG 73)

    Dopo il lungo viaggio, Beniaminowo è il primo campo effettivo dove Gian Carlo resterà dal 10 ottobre 1943 al 25 marzo 1944, a parte una brevissima sosta (dal 29 settembre al 4 ottobre 1943) al campo di smistamento di Mühlberg (Stalag IV B), sulla riva orientale del fiume Elba a circa 45 km da Lepzig. Del vecchio campo di concentramento oggi resta poco, alcuni cimeli sono conservati presso il museo storico del paese. Il campo era pensato come un grande rettangolo di 1.100 metri per 500, con un viale centrale che correndo da Est a Ovest lo divideva in due (vedi mappe e foto in Appendice).

    Ora il campo è in parte ricoperto dalla vegetazione e delle vecchie strutture sono rimaste solo alcune fondazioni e il blocco della latrina. Nel villaggio di Neuburxdorf, vicino al luogo dove sorgeva lo Stalag, a circa 6 km da Mühlberg, tra le poche case moderne c’è il cimitero, che ospita un monumento dedicato ai prigionieri di guerra che morirono nel campo, con una stele commemorativa in inglese, francese, italiano ed ebraico.

    Il campo entrò in funzione alla fine del 1939 ed era destinato a prigionieri polacchi che inizialmente vivevano in tendoni, successivamente arrivarono i francesi, i serbi e i russi, poi dal 1943 si sviluppò come campo di transito o di registrazione anche per i soldati italiani che venivano poi smistati agli Arbeitskommando o in altri Lager. Il 23 aprile 1945 il campo fu liberato dalle unità dell’Armata Rossa e in quel momento ospitava ancora circa 30.000 prigionieri di varie nazionalità. Dal mese di agosto del 1945 vi vengono imprigionati militari tedeschi accusati di crimini nazisti e solo nel 1948 viene dismesso.

    Gian Carlo Turchetto arriva in Polonia il 10 ottobre del 1943 e ci resterà fino al 25 marzo del 1944, come annota scrupolosamente in un piccolo quaderno che riassume le tappe significative della sua prigionia{43}.

    Su Beniaminowo non ci sono studi o ricerche specifici e le descrizioni che sono riuscita a ricostruire si basano esclusivamente su testimonianze polacche e sulla poca documentazione russa e tedesca, oltre che sulle descrizioni del diario. Le foto inserite del Lager sono tratte dal Fondo Vialli{44} conservato all’Istituto Storico Parri di Bologna.

    Gian Carlo arriva al campo all’alba del 10 ottobre 1943 dopo aver percorso 5 chilometri a piedi dalla stazione ferroviaria e annota che il posto è a circa 20 km a Nord-Est di Varsavia.

    Quando arriva la tradotta degli italiani con Gian Carlo, il campo non è attrezzato per gli ufficiali perché questo arrivo non era previsto, infatti passeranno la prima notte all’interno di un recinto adibito allo scopo, in attesa che si liberino delle baracche. In precedenza il campo aveva ospitato circa 20.000 prigionieri russi, quasi tutti morti prima dell’arrivo degli italiani. Qui gli viene assegnata la targhetta di metallo con il numero di Internamento: per il nostro IMI il numero è 5485.

    Il campo sembra un’interminabile spiaggia perché ha un fondo sabbioso e camminare su un terreno simile è molto faticoso. Turchetto racconta che esiste un salone in muratura adibito a sala mensa, sulla cui parete di fondo grandeggia la fotografia di Hitler. A ciascun prigioniero vengono distribuiti un cucchiaio e una scodella di alluminio. La baracca a cui viene assegnato il giorno successivo è il numero 9. All’inizio sono presenti circa 1800 ufficiali, tra i quali molti ufficiali superiori e parecchie decine di colonnelli, di tutte le armi e di tutte le specialità: esercito, aviazione e marina.

    Il campo è diviso in due zone chiamate dai prigionieri campo nuovo e campo vecchio. Nella baracca 9 del campo vecchio vengono messe in scena rappresentazioni teatrali, oppure si suona. Famoso è l’amico di Gian Carlo, Coppola, grande suonatore di fisarmonica. Il campo era situato tra i villaggi di Bialobrzegi e Benjamin (Legionowo e Nieporęt), a circa 25 km da Varsavia, come ha correttamente indicato nel diario. Il campo, istituito nell’agosto del 1941, nell’agosto del 1942 conteneva 11.300 prigionieri, nell’ottobre del 1943 il numero di prigionieri di guerra sovietici era di 3.800. La zona circostante era molto bella, c’erano alberi, molto verde e gli italiani, quando arrivano, trovano dei prigionieri russi che chiamano Turkestani. Turchetto nel diario dice che prima del loro arrivo in questo campo erano presenti circa 20.000 prigionieri russi, ma non riesce a capire dove siano: la risposta è che sono deceduti quasi tutti per fame e malattie, sepolti in fosse comuni{45}.

    Nel gennaio-febbraio 1944, il campo conteneva anche 2.500 italiani Internati. In totale, 30-32.000 prigionieri di guerra sono passati attraverso il campo e il bilancio delle vittime è stimato in circa 10.000 persone di varie nazionalità.

    Lidio Lalli, ufficiale prigioniero a Benjaminovo, ricorda che avevano battezzato lo spazio ampio e vuoto nel campo Piazza Polmonite: "Quando ci mettevano fuori e

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