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Cattivi propositi
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Cattivi propositi

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About this ebook

Seduto su una panchina, Andrea è in un mare di guai. In virtù dei suoi “facili” guadagni, potrebbe godersi beatamente la vita. Ma è bloccato! C'è qualcosa di misterioso che lo opprime. 
Gli serve una strategia: una qualunque. Dovrà fare scelte radicali e il percorso si preannuncia pieno di pericoli. Sarà l'incontro con Marta a salvargli la vita? Oppure una delle sue assurde intuizioni? L'esito finale è sempre incerto ma indietro non si può tornare.
Solo una cosa è certa: i suoi sono solo cattivi propositi.
LanguageItaliano
Release dateAug 21, 2018
ISBN9788833281544
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    Cattivi propositi - Paolo Iraci

    Marchesi)

    Prefazione

    Mi fa troppo piacere che tu sia qui. Vorrei quasi gustarmelo in solitudine.

    (Carlo Gragnani)

    Italiani popolo di santi, poeti, navigatori, cantautori, e persone sole.

    Uno studio statistico dice che il 17,2% della popolazione italiana non ha nessuno con cui parlare, a cui confidare i propri segreti. Cioè uno su otto si sente solo.

    Un altro dato statistico riguarda le persone che soffrono di piedi freddi. Siamo al 22,4, soprattutto donne. Da qui un numero maggiore di persone che si lamentano delle proprie compagne, delle loro estremità ghiacciate nel letto, 55,6%.

    Un numero alto si raggiunge per la percentuale delle persone che almeno una volta nella vita hanno rubato. Dal resto al panettiere al rossetto dei grandi magazzini, ai furti pianificati: 83,1%. Due su tre, insomma.

    Invece arriviamo al 2% delle persone che si risvegliano dal coma. Percentuale bassissima, che grida quasi al miracolo.

    Apparentemente questi dati statistici non hanno nulla in comune l’uno con l’altro, e invece no.

    Laura De Cosmis

    Introduzione

    Di sicuro c’è che io ho rubato. E ho rischiato eh, e anche parecchio.

    Oddio, non la galera, sia chiaro, ma solo perché nessuno mi ha mai considerato pericoloso fino a quel punto. Ora però devo riesaminare ogni cosa, mettermi là e osservare attentamente.

    Per esempio, devo dire a voce alta: Oh! Sei stato anche un ladro! e poi sbattermi ogni cosa in faccia. Devo osservare la mia immagine riflessa in uno specchio e recitare il mea culpa. Questo me lo devo! E poi non c’è da annotare alcun pentimento alla Delitto e Castigo riguardo a una mia potenziale colpevolezza, male non mi farà la cosa! Al limite mi sentirò responsabile di aver iniziato a buttare giù fiumi di parole, questo sì, è possibile. Insomma basta, ora andrò fino in fondo. È giunto il momento di passare a un atteggiamento interventista, del fare, lasciandomi alle spalle quello stato di abulia che invece mi bloccava.

    Il mio motto è diventato un versetto letto anni fa di uno dei più famosi romanzi di Rudyard Kipling, del quale mi sono appropriato indebitamente facendolo rivoltare più volte nella tomba, poveraccio: La legge della Giungla dice: prima agisci e dopo parla!.

    E io ho agito, questo è poco ma sicuro!

    Tutte azioni compiute accidentalmente però, un grande ammasso di errori, una fila fanda¹ di cantonate che adesso hanno quasi assunto le sembianze minacciose di uno spettro, di un’ombra sempre più vicina, che non mi viene certo incontro per redimermi e per distribuire carezze; è una presenza latente che non promette pacche consolatorie sulle spalle, come fa un padre verso il figlio.

    All’apparenza mi sono sempre affidato al caso, ma in effetti non è così. Tuttavia, non so perché, ho la certezza che nella realtà non avvenga quasi mai nulla per caso. Sarà pure banale ma è così. E questo è il momento in cui mettere insieme tutti gli elementi, e, finché sono in tempo, trovare una soluzione.

    Arriva un momento in cui il desiderio di capire è troppo forte e a quel punto uno strumento vale l’altro, ogni procedimento è ammissibile purché serva a darmi una spiegazione su come ho fatto a ridurmi in questo stato.

    Una serie inimmaginabile di eventi formano una vita, la mia, quella di adesso.


    1 Fila di fanti, fila lunga e lenta (espressione ciociara).

    Parte I

    Dicembre 2013

    Ho molto freddo e, mio malgrado, anche parecchio tempo a disposizione per riesaminare i fatti.

    Come ho fatto a ritrovarmi a scrivere nel giardino di un ospedale, seduto su questa panchina?

    Dovevo fare a ogni costo tutto ciò che era nelle mie facoltà per eliminare il problema.

    Il fatto è che nella mia esistenza era comparso, da un po’, un malessere indecifrabile, oscuro, talmente ingombrante da rendere necessario uno straordinario impiego di forze che ne favorisse al più presto l’eliminazione.

    Lamentarmi per i piccoli fastidi non sarebbe assolutamente da me, ma oggi, con la punta dei piedi congelata nonostante il prezioso ausilio dei miei scarponi della Timberland, l’insofferenza raggiunge il suo culmine più alto (che poi come si chiamano? Polacchine? Scarponcini? Scarpe alte? Boh? Io le chiamo semplicemente le Timberland, perché per me, sono solo quelle, punto).

    Non ho una sudorazione particolarmente eccessiva, io, fatta eccezione, purtroppo, per la punta dei miei piedi. D’inverno ho sempre le dita congelate e, nonostante tutte le contromisure da me adottate nel corso della mia vita, me ne sarei dovuto già fare una ragione. Temi impegnativi e affini a quello della rassegnazione, quali l’adattamento o l’accettazione, sono quelli che mi hanno praticamente costretto a documentare tutti gli avvenimenti che, da settembre in poi, sono andati a concatenarsi all’apparenza in modo così inspiegabile.

    Diciamo che quasi tutti i fatti sono stati già scritti, o in parte registrati a voce e poi trascritti, grossomodo tra il 13 e il 26 del mese scorso, periodo in cui ho documentato, o meglio raccontato tutto l’accaduto, nell’incredibile spazio di sole due settimane. Ci vuole proprio coraggio da vendere a voler definire questa specifica attività, ma io spero di ricostruire il tutto almeno in parte. Ho bisogno di urlare ed esprimere le mie angosce. Ho un bisogno impellente di ricostruire nei minimi particolare tutto quello che è uscito dalla mia penna e dalla mia testa per capire adesso cosa mi accadrà. Non mi entusiasma l’idea di rivisitare le cronache dei mesi precedenti alla cosiddetta era della panchina. Anzi, mi fa venire proprio la pelle d’oca. Eppure, mi rendo conto che a questo punto è tassativo.

    Sarà meglio fare anche un’altra annotazione: mentre cercavo di risolvere quello che fino a un determinato momento era il mio problema principe, anche se in modo del tutto fortuito, in sostanza me ne creavo degli altri in sequenza.

    Non posso sapere se potrò mai porre rimedio a questa condotta scriteriata, che mi sta lacerando giorno dopo giorno, ma mi auguro che alla fine sarò per lo meno in grado di prendere una decisione di qualunque tipo.

    Di continuo, rimbombano dentro di me tre interrogativi: il problema era tuo? Hai deciso di risolvertelo da solo? E adesso con chi te la vorresti prendere?

    Il primo errore, in assoluto, è stato quello di seguire il consiglio della mia ex collega di lavoro Francesca Angeletti. Verso la fine dell’anno scorso mi era diventato quasi impossibile anche muovermi, e questo a causa di quella che poi un medico definì spietatamente, dicendomi tutto e niente, senza convincermi affatto, fobia sociale.

    Sarà, ma secondo me non è sempre necessario dare un nome convenzionale alle cose, accadono cose di continuo e non c’è alcun bisogno di imporre loro un’anagrafe per catalogarle o definirle. Cioè, decidere di non identificare ogni singolo evento problematico della nostra esistenza non vuol dire necessariamente mettere in atto una manovra elusiva. Oppure sì?

    Sarà che io ho sempre considerato la classificazione come qualcosa di negativo, anche se ammetto che farlo possa essere stato necessario per risolvere parecchie questioni relative ai fatti dell’uomo. Ma troppo spesso, ahimè, così non è.

    Per esempio, io sono persuaso del fatto che se una persona porti all’eccesso le sue stravaganze non si debba considerare per forza un eccentrico. Per me questo è un termine ambiguo, che sfocia nella sfera del ridicolo, spacciando per elegante ciò che non lo è affatto. Se ti vesti in modo bizzarro, o peggio, con cattivo gusto sono affari tuoi. Ti vuoi definire o vuoi che gli altri ti definiscano un eccentrico? Per me sei solo un cazzone.

    Infatti, pur essendo in seguito venuto a conoscenza della decodificazione clinica del mio malessere, le cose non sono cambiate affatto. Anzi, ho continuato ingenuamente a pensare di aver iniziato a un tratto a odiare la gente, anche se dentro di me ho quasi la certezza (magari mi sbaglierò, sia chiaro) di non essere il solo a farlo.

    Voglio dire che, se dovessi sottoporre all’attenzione di chi mi sta vicino il mio personale concetto di odio verso qualcosa o qualcuno, sono certo che troverei una moltitudine di consensi. Ciò nonostante, la solidarietà altrui non mi aiuterebbe capire da dove nasce il mio contingente rancore verso il genere umano.

    Magari finirei semplicemente per scoprire che sono circondato da persone che sanno solo odiare in modo molto più sano e sereno del mio, e che riescono a gestire il loro impulso senza che si ritorca loro contro. Non è che forse dovrei imparare a gestire meglio l’odio e, piuttosto, provare a capire da dove viene per trovare il modo di odiare più adatto a me?

    Questo, come tanti altri mostruosi stati emozionali, è troppo spesso difficile da gestire e finisce solo per estenuare chi lo coltiva. Quanto sarebbe bello poter dire: ti odio ma sto bene!

    Come avrei fatto a condividere tutti questi interrogativi con Francesca?

    È vero, lei fu la prima con la quale mi fossi aperto, ma solo perché, prima o poi, avrei dovuto sbottare con qualcuno!

    Si dà il caso che, dopo averle fatto questa confidenza, la Angeletti mi portò, in buona fede per carità, sulla cattiva strada. Io la chiamavo, e la chiamo tutt’ora, affettuosamente, Angeletshh (le due acca non sono affatto un caso) per via del fatto che, a causa di una sorta di strana dermatite, si spalmava continuamente il viso con unguenti di dubbia provenienza. Per questo fatto aveva sempre le mani unte e io ero costretto a salutarla con un’amichevole pacca sulla spalla, sfuggendo così alla stretta di mano che puntualmente mi proponeva. Malgrado gli strofinamenti a base di creme di vario genere non fossero affatto diminuiti, lei sosteneva che questa pratica avesse alquanto giovato alla sua dermatite.

    Si tratterà pure di un effetto placebo, ma, dato che lei è arciconvinta della terapia, il primo passo verso la guarigione è fatto.

    È superfluo aggiungere che lei era totalmente all’oscuro della radice del suo soprannome, e anche del fatto che dovevo portare le mie giacche a smacchiare più spesso del dovuto; ero diventato uno dei migliori clienti del Lavasecco Morelli. Sì, perché lei ricambiava! Mi rifilava, per fortuna non sempre, una pacca affettuosa di rimando, spalmandomi così addosso i suoi unguenti. In seguito, resomi conto di quanto spendevo in tintoria, preferii fare un salto in bagno per lavarmi le mani dopo averla salutata.

    «Tu devi buttare fuori quello che hai dentro», mi ha detto una mattina di fine agosto durante una sua visita a casa mia. «Devi prendere un foglio e scrivere senza pensare. Scrivere tutto quello che ti viene in mente. Scrivere, scrivere, e ancora scrivere! Poi prendere tutti quei fogli, strapparli senza rileggerli e buttarli via. Vedrai che ti sentirai meglio!»

    È strabiliante, quasi prodigioso, immaginare che tutto fosse proprio così come lei lo descriveva, perlomeno stando a ciò che mi ha raccontato. Quando si sentiva minacciata dal peso di qualche dinamica interiore recondita, anche lei, su consiglio della sua guida spirituale - così l’ha sempre definita lei, e io non ho mai indagato oltre -, scarabocchiava frasi su un foglio per poi appallottolarlo e disfarsene secondo il rituale stabilito.

    In questo modo era convinta, per così dire, di estirpare piano piano tutte le erbacce che infestavano il suo giardino interiore, anche se questa sorta di psicogiardinaggio risultava evidentemente poco efficace.

    Dubitavo che pure nel mio caso si sarebbe rivelato risolutivo ma, quando ci troviamo di fronte all’ignoto e al bisogno, tutte le strade diventano percorribili.

    Questa è una di quelle considerazioni alla quale avrei dovuto dare maggior peso, ma, si sa, i pensieri viaggiano a grande velocità e troppo spesso, soprattutto quelli che riguardano la nostra incolumità, ci sfuggono inesorabilmente.

    Ricordo un racconto, molto attinente, che faceva mia madre a proposito del fatto che in caso di necessità i soccorsi sono bene accetti, anche se la provenienza è ambigua e la possibilità di trarre benefici illusoria.

    Da piccola, prima che scoppiasse la seconda guerra mondiale, viveva vicino al ghetto prima e andava spesso a giocare a casa di una sua amichetta ebrea. Tutto accadde quando una vicina della sua amichetta fu in procinto di partorire. Sentì abbastanza distintamente, almeno stando al suo racconto, alcune donne che assistevano la partoriente, le quali invocavano a gran voce la Madonna degli cristiani. La frase per intero sarebbe stata: Vieni Madonna degli cristiani, vieni! e fin qui non ci sarebbe nulla di inverosimile. Come dire! Pure la Madonna dei cristiani avrebbe fatto numero, in caso fosse servito un aiutino dall’alto. La parte effettivamente sconcertante del racconto veniva dopo. A parto avvenuto, infatti, tra il fragore dei festeggiamenti, oltre a cogliere le voci delle stesse donne che, per così dire, cacciavano via la Madonna dei cristiani, mia madre notò che per dare maggiore efficacia alla pratica di bonifica si servivano dell’ausilio di grandi asciugamani per areare il locale dopo che l’entità religiosa estranea vi aveva (secondo loro) soggiornato.

    A prescindere da analisi sulla religione e sulle credenze popolari, che francamente non mi interessano, mi limiterò ad ammettere che la mia prima debolezza è stata quella di cedere al consiglio di Francesca, anche se questo mi porta a evidenziare il primo fallimento.

    Ero entrato ufficialmente in quella che poi ho liberamente definito cura autodidatta, definizione che si è poi evoluta in cura di applicazioni autocondotte. Per il nome mi sono spudoratamente ispirato all’opera del 1959 Oggetto a composizione autocondotta² di Enzo Mari, un architetto e designer milanese d’arte contemporanea, confidando in alcune reminiscenze di studi liceali sull’arte concettuale.

    A mio avviso, questa creazione calzava a pennello col metodo che avevo deciso di adottare per debellare il male oscuro che mi attanagliava con la sua ineludibile morsa.

    Mi è così venuto da immaginare che i pezzetti di legno fluttuanti fra le due superfici di vetro avrebbero potuto rappresentare in modo assai eloquente il mio stato d’animo: mischiato! Ebbene sì, mi sentivo mischiato, mischiato dentro.

    La cosa più affascinante è che quest’opera così geniale permette di muovere o, per l’appunto, rimescolare a proprio piacimento gli oggetti al suo interno, facendo perdere traccia dei movimenti precedenti. Dunque queste combinazioni infinite, che si generano riproducono gli attimi (il movimento) e i ricordi (i legnetti). Dunque gli attimi si perdono, ma i ricordi, sotto altre forme, restano indelebili.

    Ma chi mi aveva mischiato? E perché? O mi ero più semplicemente mescolato da solo senza accorgermene? Così avrei però manifestato in modo sorprendente una capacità autolesionistica della quale dubito fortemente di essere provvisto e, al momento, mi sento di escludere senza dubbio alcuno questa ipotesi così inesplicabile e recondita.

    Avevo bisogno, per l’appunto, di essere rimescolato a dovere (ma stavolta nel modo giusto) per ricreare quell’equilibrio che avrebbe ridato alla mia vita una qualità accettabile. Un po’ come fanno i bari con le carte quando amministrano la fortuna a loro piacimento, mentre simulano di fronte all’ignaro pollo di turno uno scontro imponderabile tra le due metà del mazzo truccato.

    Sta di fatto che io non sono un abile croupier, così ogni mio tentativo falliva miseramente. Mi misi a scrivere quella sera stessa, ma, non avendo avuto altre indicazioni da parte di Francesca, venne fuori una composizione

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