Genna di Taquisara
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Con questa opera, Roberto Brughitta, è tornato alle sue origini letterarie con un romanzo di fantasia ambientato durante il medioevo in Sardegna, un medioevo carico di lirismo, a tratti mitizzato, direi quasi fiabesco. La trama si snoda tra realtà e leggenda, tra amore e conflitti. Si passa dal riso sardonico ai nomi storici di villaggi ancora esistenti. Proprio dalla leggenda, a cui è legato il riso sardonico, parte il romanzo. Rònkina, un uomo saggio ma anziano di settant’anni (l’età non è casuale), incrocia la sua esistenza con Genna, una fanciulla dal carattere ribelle. Malgrado la reciproca diffidenza iniziale, cominciano un viaggio, il cui scopo non è tanto un andare verso, ma un allontanarsi da. La strada che i due improbabili amici intraprendono non è solo fisica, è anche un percorso che illuminerà i loro dubbi e certezze, sconvolgendo entrambi. in copertina: dipinto di Roberto Muscas
L'AUTORE
Roberto Brughitta nasce nel 1965 a Cagliari. Amante del mare, che adora navigare a bordo del suo kayak. Le sue pubblicazioni sono: “I racconti del giocattolaio”, “Baci di laguna”, “La donna farfalla”, “Oro, corallo e arcobaleno”, “La trilogia di Pinocchio”. è autore inoltre di "Su Lèpuri isposu" e “Una gara per Bascaleggia”, entrambi patrocinati dalla regione Sardegna. A quattro mani con Emanuela Imprescia, presidentessa dell'ADMO Alto Adige, scrive invece "Trucioli di cuore", dove un Pinocchio maggiorenne ci avvicina al mondo della donazione del midollo osseo.
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Genna di Taquisara - Roberto Brughitta
ROBERTO BRUGHITTA
GENNA DI TAQUISARA
AmicoLibro
Roberto Brughitta
Genna di Taquisara
Proprietà letteraria riservata
l’opera è frutto dell’ingegno dell’autore
© 2018 AmicoLibro
Vico II S. Barbara, 4
09012 Capoterra (CA)
www.amicolibro.eu
info@amicolibro.eu
Prima Edizione
settembre 2018
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Epilogo
NOTA STORICA
Piccolo glossario
Il romanzo è frutto della fantasia dell’autore.
Località, eventi e personaggi storici possono non corrispondere alla realtà per esigenze narrative.
A mia madre
Prefazione
Con questa opera, Roberto Brughitta, è tornato alle sue origini letterarie con un romanzo di fantasia ambientato durante il medioevo in Sardegna, un medioevo carico di lirismo, a tratti mitizzato, direi quasi fiabesco.
Pur essendo un’opera letteraria, c’è un lavoro di ricerca documentale e di approfondimento del lontano passato dell’isola che denota il grande amore di Roberto per la terra che gli ha dato i natali.
La trama si snoda tra realtà e leggenda, tra amore e conflitti. Si passa dal riso sardonico ai nomi storici di villaggi ancora esistenti.
Proprio dalla leggenda, a cui è legato il riso sardonico, parte il romanzo. Rònkina, un uomo saggio ma anziano di settant’anni (l’età non è casuale), incrocia la sua esistenza con Genna, una fanciulla dal carattere ribelle. Malgrado la reciproca diffidenza iniziale, cominciano un viaggio, il cui scopo non è tanto un andare verso, ma un allontanarsi da. La strada che i due improbabili amici intraprendono non è solo fisica, è anche un percorso che illuminerà i loro dubbi e certezze, sconvolgendo entrambi.
Personalmente posso dire, che il romanzo ha risvegliato in me la curiosità per i tanti miti di cui è pregna la Sardegna. Inoltre, le forti suggestioni che trasmettono Rònkina e Genna mi hanno fatto chiudere il libro con gli occhi umidi per l’emozione del loro temperamento e per la forza del loro amore, come quello di un nonno con la nipotina.
Consiglio la lettura perché Roberto è capace di trascinarci nel mondo di mezzo della magia dei sentimenti puri, veri e tumultuosi.
Andrea Fulgheri
1
Non era ancora arrivata che già si percepiva la sua presenza. Un lontano bagliore, che sembrava appartenere al passato, iniziava a rendere definiti i pochi oggetti assopiti sulla mensola di stanco ginepro che arredava la spoglia parete della stanza. Ma lei non apparteneva al passato, non più.
Da pochi minuti, da quando l’alone ramato era salito verso il cielo, l’aurora era divenuta presente, ed ecco finalmente comparire una nuova alba. Era la settima da quando Rònkina aveva compiuto settant’anni. Un’infinità di cicli lunari. Quella luna che adorava osservare, quando si affacciava completamente piena sulla collina del suo paese. Un villaggio fatto di polvere e granito. Il materiale dei blocchi che, abbracciandosi e sostenendosi tra loro, componevano le piccole abitazioni di uomini logorati dal duro lavoro nei campi, e donne che non erano da meno.
Le più giovani erano spesso gravide e, nonostante la fatica di ogni giorno, amavano cantare e danzare al ritmo della sua musica. Il melodioso suono delle canne vibranti: le launeddas. Quelle musiche lo accompagnavano spesso anche nei sogni, e non era rara la volta che si svegliava con l’affanno e stanco, come se avesse realmente suonato per ore: ma era solo una normale stanchezza dovuta all’età. Età che sperava tanto di non raggiungere, ma che purtroppo era arrivata trovandolo in buona salute; la legge del villaggio però parlava chiaro e, all’imbrunire dalla porta d’ingresso, sarebbe arrivato suo figlio che lo avrebbe condotto alla Babaiecca: la porta dei padri.
Si alzò e si diresse verso la stalla passando attraverso un vano comunicante separato da una robusta porta di legno: questa serviva per non far entrare in casa l’odore acido degli escrementi e dell’urina degli animali.
Dopo aver accarezzato i due cavalli presenti, si avvicinò alla capra e cominciò a mungerla dirigendo il fiotto caldo verso un recipiente in terracotta che si era portato dietro. Completata l’operazione rientrò in casa e si sedette a tavola. Un bicchiere di latte fresco con un pezzo di pane spianato, raramente accompagnato da una fetta di salsiccia di maiale, erano da anni diventati la sua colazione.
Avrebbe voluto stare con i suoi cavalli ancora un po’, magari parlargli come faceva ogni giorno da anni, da quando era diventato uno degli addestratori più bravi di tutta la zona, ma poi sarebbe stato ancor più doloroso doversi separare da loro. Marghine aveva il manto nero ormai scolorito e, pur essendo in ottima forma, la sua avanzata età lo avrebbe condotto presto al macello; Thuras invece era giovane e forte e la sua cappa color miele brillava alla luce del sole.
Rònkina sperava in cuor suo che non lo avrebbero trattato male o peggio ancora, usato per i lavori nei campi. Lui era nato per correre e fin da quando era solo un puledro, lo aveva allenato per quello. Passò la giornata passando dalla cucina alla stanza dove dormiva. Non riusciva a stare fermo più di qualche minuto. Quando arrivò il tardo pomeriggio, bevette una piccola dose di un misto di erbe che lo avrebbe reso più allegro e spensierato, quindi iniziò lentamente a vestirsi con l’unico abito decente che aveva. Sapeva che il figlio più o meno alla stessa ora stava compiendo gli stessi gesti.
Lo aveva fatto anche lui tantissimi anni prima, quando dopo il settantesimo anno si apprestava ad accompagnare suo padre Kadossene alla rupe della Babaiecca. Fu mentre camminavano fianco a fianco che il suo genitore gli spiegò perché lo avesse chiamato così. Gli disse che fu a causa della piccola voglia che aveva alla base del collo. Una piccola macchia nera a forma di falce. Il nome Rònkina, infatti derivava proprio dalla disposizione a falce perfetta che le ali delle rondini assumono durante il volo. Run infatti significava perfetto e Kin, falce.
Parlarono quel giorno, parlarono e risero tanto. La bevanda a base di erbe tossiche li rendeva appena consapevoli di quello che stava per accadere. Kadossene si fermò sul ciglio del precipizio. Sotto di lui, una scarpata piena di storti ginepri appesi alla parete come chiodi su una trave, e poco più avanti il vuoto, che aveva alla sua base una pietraia.
Suo padre continuava a ridere ma il suo volto iniziava a bagnarsi di lacrime. Sapeva che il figlio stava per spingerlo giù. Infatti dopo un attimo gli si avvicinò e dopo averlo baciato sulla nuca lo sollevò per poi scaraventarlo il più lontano possibile. Il vecchio Kadossene era sempre stato buono con lui e non voleva rischiare di farlo finire sopra i cespugli, e destinarlo così a morire di dolore a causa delle fratture multiple e successivamente di stenti. Doveva lanciarlo distante in modo che sarebbe precipitato sulla pietraia e morto sul colpo. Suo padre ormai pesava davvero poco mentre lui era grosso e forte. Per questo motivo ci riuscì tranquillamente. Fiero di avergli donato una fine dignitosa si allontanò con il sorriso sulle labbra ma con il cuore che palpitava di dolore. La legge del villaggio, quella che obbligava tutti i figli a buttare dalla rupe i genitori che avessero raggiunto i settant’anni di età e quindi inutili per la comunità, era stata rispettata.
I ricordi di quel giorno erano frammentari. Ciò che ricordava bene era il suono della propria risata isterica dovuto all’intruglio bevuto qualche ora prima. La stessa bevanda che gli creava sul volto quella strana smorfia definita dai forestieri riso sardonico.
Il tempo era passato inesorabile e spietato e le parti ora si erano invertite. Suo figlio Gianos sarebbe arrivato al calar del sole per condurlo alla rupe. Lo aveva allevato come meglio aveva potuto. Rimasto orfano di madre a soli dodici anni, Gianos fin da giovane aveva dimostrato la sua indole di fannullone. Da adulto poi aveva scoperto come il buon vino rosso che si produceva nella zona lo tenesse particolarmente allegro. Di aiutarlo con i cavalli neanche a parlarne. Aveva preferito fare il pastore di un piccolo gregge che gli permetteva a stento di sopravvivere. Restare sdraiato sull’erba era il suo passatempo preferito e al contrario di altre famiglie, era lui che ogni tanto riusciva a scucire al suo vecchio genitore qualche moneta che gli permetteva di recarsi in città per andare a donnacce.
Essendo anche poco abituato a lavarsi, l’anziano sentì prima il suo olezzo del suono degli stivali consunti che calpestavano l’uscio di casa.
Salve padre!
Gianos era ubriaco e il suo volto allegro sembrava più derivare dal vino che dal miscuglio di erbe.
Ciao ragazzo, mi metto gli stivali e sono pronto
.
Suo figlio aprì la bocca quasi a voler dire qualcosa ma ci ripensò. Sicuramente avrebbe voluto che suo padre si dirigesse alla rupe con le scarpe logore che usava tutti i giorni per lavorare, in modo che gli stivali di cuoio sarebbero restati a lui. Una delle abitudini di chi si avviava verso la rupe era quella di andarci vestito con gli abiti migliori. L’ultimo viaggio doveva essere fatto dignitosamente. Si vociferava che spesso qualcuno si recasse a derubare i defunti, ma non c’erano prove certe. L’unica persona che era stata trovata con addosso una cintura di un defunto capo villaggio, era stata gettata anch’essa dalla rupe.
Iniziarono a muoversi quando ormai il sole si era nascosto dietro le montagne, mentre la luna aveva deciso di non mostrarsi. Rònkina, che camminava lento dietro suo figlio, ogni tanto si voltava per osservare la sua dimora. Lo faceva anche quando, appena sposato, usciva di casa per recarsi a lavoro e sua moglie lo seguiva con lo sguardo dalla finestra. Lui faceva lo stesso. Gli era capitato di fare la stessa cosa ogni tanto anche dopo che la malattia dei polmoni se l’era portata via lasciandolo con un figlio e un dolore nel petto.
Vuoi un sorso d’acqua?
Gianos lo riportò alla realtà mostrandogli la borraccia che aveva appesa alla cintura.
Sì, grazie. Un sorso lo bevo volentieri
.
Erano ormai arrivati nella parte iniziale della rupe, tra poco tutto sarebbe terminato. Rònkina si portò alla bocca il contenitore ricavato da una zucca essiccata e buttò giù una lunga sorsata. Fu in quel momento che suo figlio lo afferrò per i fianchi e provò a sollevarlo. Sarà stato a causa delle sue poche forze o più probabilmente per il vino che aveva bevuto durante la giornata, che riuscì solamente a sollevarlo all’altezza del proprio petto. Rònkina capì subito l’intenzione del figlio e per questo non si aggrappò a Gianos, ma anzi, sollevò le mani al cielo. Fu in quell’istante che venne scaraventato dalla rupe. Iniziò a precipitare non troppo distante dalla parete, il primo pensiero dell’anziano genitore fu che non sarebbe finito dritto nella pietraia, ma che avrebbe sbattuto tra la roccia e i nodosi ginepri prima di arrivare cadavere in fondo alla rupe con le ossa frantumate. Un dolore fitto alla gamba destra lo avvisò che il primo osso si era rotto, poi mentre a causa dell’intruglio bevuto poco prima piangeva lacrime asciutte, arrivò un altro dolore secco e fortissimo alla schiena. Poi, in una silenziosa e scura notte senza luna, tutto terminò.
2
Un grillo. Il fastidioso canto del grillo ora gli pareva la più soave delle melodie, possibile che nel regno dei morti ci fossero quei seccanti insetti?
Le tempie martellavano come i tamburi della festa grande del paese. Provò ad aprire gli occhi, ci riuscì. Per un interminabile momento vide solo buio ma poi, come immersa nella nebbia, vide quella che sembrava essere la sagoma di un cespuglio. La nebbia iniziò a diradarsi e comprese che era presente solo nei suoi occhi. Capì anche che purtroppo era ancora vivo. Ma in quali condizioni?
Il corpo gli doleva tutto e non aveva la forza e forse neanche il coraggio di provare a mettersi in piedi. Poi quel rumore. Lui col tempo aveva imparato a riconoscerli i rumori. Quello della pioggia che cadeva in lontananza, quello dei suoi cavalli al galoppo, di un cane che si avvicinava alla sua casa, di un uomo che passava nel sentiero poco distante. Era perfino in grado di distinguere il passaggio di un carro con le ruote piene da uno con le ruote a raggi. Il rumore che sentiva ora invece era di passi. Passi leggeri, furtivi, di un individuo che non doveva pesare troppo, sicuramente un ragazzino.
Lui si trovava disteso a pancia in terra e con le fratture che aveva non sarebbe riuscito certo a scappare. Scappare dove, poi? Era scritto che doveva morire e così sarebbe stato. Non voleva però essere derubato dei suoi abiti e per giunta da un fanciullo senza rispetto. Sentì di colpo due piccole mani che armeggiavano sul suo stivale destro. Si piegò di lato all’improvviso e serrò con la sua mano il polso del ladruncolo.
Non ci provare maledetto!
si era dimenticato di avere l’arto spezzato e un dolore fitto alla gamba lo fece quasi svenire.
Lasciami stare! Tu tanto stai morendo, che te ne fai degli stivali?
Rònkina riusciva solo a percepire una folta capigliatura ma era chiaro che a parlare era stata una donna.
Tranquilla, non voglio farti del male. Perché derubi i morti? Lo sai che rischi di essere a tua volta buttata dalla rupe?
le disse senza lasciarle il polso ma allentando un po’ la tenuta.
"Volevo vendere gli stivali per