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Il commissario Richard. Tre inchieste vol. 5
Il commissario Richard. Tre inchieste vol. 5
Il commissario Richard. Tre inchieste vol. 5
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Il commissario Richard. Tre inchieste vol. 5

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Per Andrea Camilleri, suo estimatore, Ezio D’Errico è un artista “dotato di una genialità rinascimentale”. E certamente unico, più volte imitato, è il suo indimenticabile commissario Richard, che con De Vincenzi è tra i personaggi più originali della storia del giallo italiano (e anche dei “mitici” gialli Mondadori). In questo libro sono raccolte tre indagini del Commissario nato dalla penna di D'Errico: Il naso di cartone, Segni particolari: nessuno e La casa inabitabile. Introduzioni di Loris Rambelli.
LanguageItaliano
Release dateSep 15, 2018
ISBN9788893041379
Il commissario Richard. Tre inchieste vol. 5

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    Il commissario Richard. Tre inchieste vol. 5 - Ezio D'Errico

    2018

    IL NASO DI CARTONE

    «Scrivevo gialli per non iscrivermi al Fascio»

    di Loris Rambelli

    «Era la prima notte di guerra»: inizio del racconto Notte in treno (La nuit en wagon) di Irène Némirovsky, pubblicato sul settimanale parigino Gringoire, il 5 ottobre 1939. In quella stessa notte, fra il 3 e il 4 settembre, prende avvio la vicenda narrata nel Naso di cartone, esattamente poco dopo le diciotto, mentre le rotative stanno stampando la notizia che sarebbe apparsa di lì a poco nelle edizioni serali dei giornali: «Lo stato di guerra fra l’impero Britannico e la Germania è stato promulgato questa mattina alle ore 11. Alle ore 17 di oggi il Governo francese ha fatto analoghe dichiarazioni confermando la sua piena solidarietà con quello britannico». Una Parigi dal volto nuovo (quel volto nuovo della Francia che già comincia a mostrarsi nelle stazioni ferroviarie attraverso i finestrini del treno e all’interno dello scompartimento in cui si svolge il racconto della Némirovsky) fa da scenario all’inchiesta di Richard e registra le varie fasi del dramma storico che si sta consumando.

    Ai primi scomposti movimenti di folla, alle prime manifestazioni di piazza, tafferugli, bandiere esposte alle finestre, vetri infranti, succede uno stato di «cupa stupefazione», poi, nel susseguirsi dei giorni, l’esodo dei bambini che vengono trasferiti in zone ritenute più sicure («il nome dei paesi dove i figlioli sarebbero andati a finire, venivano affannosamente cercati dai parenti sulle carte turistiche esumate per l’occasione da quel tale cassetto della libreria, dove giacevano dal tempo in cui era stata ventilata l’idea di acquistare una piccola Citröen a rate mensili»), la partenza di uomini in uniforme, i soldati di leva con i loro «volti da adolescenti fra elmetto e sottogola» che transitano per i viali a fianco dei cannoni da artiglieria, gli allarmi notturni, la metropolitana paralizzata perché i tunnel sono adibiti a rifugio antiareo, «le poche lampade azzurre concesse dall’autorità militare» che di notte, con il «debole bagliore che lasciavano in sospensione nella nebbia» contribuiscono «a disorientare i passanti», l’incredibile apparizione dei fiacre «riesumati per sopperire alla requisizione dei tassì». «Su questo paesaggio squallido la caligine della sera stendeva una specie di velo funereo, come se anche la natura si fosse velata a lutto per non vedere la tragedia verso la quale l’umanità andava incontro». Niente di celebrativo per l’evento storico che per noi oggi è la Seconda guerra mondiale, ma che in questo romanzo è ancora chiamato «la seconda grande guerra europea».

    C’è stato in Italia un giallo fascista, un giallo nazista, un giallo antisemita, cioè romanzi gialli che che si sono fatti strumento di propaganda fascista, nazista, antisemita. Maurizio Pistelli, nel suo libro Un secolo in giallo, dedica diverse pagine al fenomeno, ma precisa anche che «l’errore più grande [...] sarebbe comunque pensare che durante il ventennio nero si sia stretto un solido patto tra autori polizieschi e regime mussoliniano. Nulla di più sbagliato. Il giallo italiano riesce infatti il più delle volte a non sottomettersi affatto alle rigide direttive del governo centrale, giungendo a ritagliarsi uno spazio sufficientemente autonomo, dove muovere personaggi e descrivere situazioni, libero dall’oppressiva e onnipresente propaganda fascista. Le stesse inderogabili (solo in apparenza) misure censorie imposte [...] nel settore della narrativa gialla, vengono in realtà [...] ampiamente disattese o comunque aggirate da diversi autori nazionali [...]. Si aprono piccole crepe nel muro di ottimismo innalzato dal regime, segnali di un disagio sociale che del resto percorre già, come un fiume carsico, la narrativa di uno dei nostri giallisti più rappresentativi del periodo, vale a dire Augusto De Angelis»¹.

    Si potrebbe aggiungere che persino autori invisi al regime trovarono nella narrativa di genere (poliziesca, avventurosa, sentimentale) una specie di riparo, addirittura un mezzo per guadagnarsi da vivere, come ha scritto Tito Antonio Spagnol nelle sue Memoriette marziali e veneree: «lavori di penna meno impegnativi, che però tra il 1934 e il ’42 mi avevano procurato tanti lettori da procacciarmi un pane: il che può far meraviglia oggi, pensando che allora il mestiere di penna fruttava solo a chi era impegnato col fascismo, mentre io n’ero stato fuori, anzi tenuto a vista»². «Scrivo gialli per vivere», confidava D’Errico in una lettera del 1940 all’amico Guido Modiano. E a Leonida Repaci, nel 1955: «Scrivevo gialli per non iscrivermi al Fascio». Lo stesso De Angelis, caduto probabilmente in disgrazia («dal 1930 fino alla morte, il suo nome è assente in ogni Annuario della Stampa Italiana)³, poteva tuttavia pubblicare i suoi romanzi gialli, a puntate, su giornali fascistissimi.

    Quando uscì Il naso di cartone, settembre 1940, anche l’Italia era entrata in guerra contro la Francia, tre mesi prima, il 10 giugno. Il 14 giugno Parigi era stata occupata dalle truppe tedesche.

    La capitolazione della Francia, con resa incondizionata, era avvenuta il 25 giugno...

    La Storia per lo più si subisce. Anche il commissario Richard l’ha subita come i «fantaccini» della sua generazione che «brontolando contro la guerra si sono fatti massacrare sulla Marna» (Il fatto di via delle Argonne). Eppure a certi grandi appuntamenti della Storia, D’Errico non può negare ai suoi personaggi un’occasione di riscatto. Nelle ultime pagine del Naso di cartone, il giovane nipote del marchese di Villeroy, dando una svolta alla sua vita dissipata, parte volontario per il fronte, lo comunica lui stesso a Richard, «per raggiungere l’unico luogo dove un giovane francese poteva e doveva trovarsi in quell’ora». Una piccola incrinatura evidentemente sfuggita al controllo del Ministero della Cultura Popolare.

    Parte prima

    Capitolo I

    Strano modo di trovare un portafogli

    Allorché il dottor Georges Milton, perito-medico addetto al comando della 2a Brigata Mobile della Sûreté, lasciò la casa del suo vecchio compagno d'università Louis Cherat, erano da poco suonate le diciotto, ma la sera calava rapidamente, mentre la nebbia che saliva dalla Senna aumentava la tristezza del tramonto autunnale.

    Il dottor Milton era preoccupato non tanto per le condizioni di salute dell'amico, che d'altronde aveva una banale influenza, quanto per i discorsi che erano stati tenuti nella camera dell'infermo da parte di Milton stesso, e dei famigliari dello Cherat.

    Discorsi del genere, a quella stessa ora, si tenevano probabilmente in tutte le case di Parigi, anzi della Francia, per non dire del mondo intero, mentre una folla muta attendeva pazientemente davanti alla redazione dei giornali, nei dintorni di Palazzo Borbone e in prossimità dell'Eliseo, le notizie che purtroppo già le rotative imprimevano sui fogli dei quotidiani serali.

    3 settembre 1939 - Lo stato di guerra fra l'impero Britannico e la Germania è stato promulgato questa mattina alle ore 11. Alle ore 17 di oggi il Governo francese ha fatto analoghe dichiarazioni confermando la sua piena solidarietà con quello britannico.

    Il dottor Milton trovandosi in un quartiere piuttosto eccentrico come quello del Trocadero, non poteva ancora udire le voci degli strilloni che già avevano invaso il centro della città, ma un po' per i discorsi fatti con l'amico, un po' per certa sua morbosa sensibilità che gli faceva percepire a distanza e qualche volta con anticipo, gli avvenimenti, appena giunto in strada tese l'orecchio, come se da un momento all'altro gli dovesse arrivare la eco paurosa dell'imminente tragedia.

    Ma rue Montessuy era deserta e silenziosa, come soltanto sanno esserlo in certe ore del giorno talune vie di Parigi, e il dottor Milton data un'occhiata al cielo e alzatosi il bavero dell'impermeabile, allungò il passo verso l'avenue de Labourdonnais, intenzionato com'era di raggiungere la metrò de l'École Militaire.

    Anche l'avenue era pochissimo frequentata, e fra un rombo e l'altro delle automobili che passavano coi fari accesi, si udiva persino il frusciare delle foglie secche che uno scopino ammassava lungo i bordi del marciapiede.

    Il fantasma della torre Eiffel s'andava stemperando nella caligine come lo scheletro di un enorme candelabro dimenticato da un ciclope tra le aiuole del giardino del Campo di Marte.

    Giunto all'angolo con l'avenue Rapp, il dottor Milton si fermò per orientarsi e per accendere una sigaretta.

    Egli non sapeva neanche che l'incrocio di strade nel quale si trovava, prende il nome alquanto pomposo di piazza Campo di Marte, mentre riconobbe la rue St. Dominique, a causa del fanale rosso di una farmacia che si trova proprio all'angolo di detta strada, e ciò perché di tale farmacia avevano parlato in casa Cherat a proposito di certa specialità consigliata da Milton.

    In quel momento, all'angolo opposto della via scoppiò una specie di diverbio fra due ombre che subito dopo si dettero a fuggire in direzioni diverse. Milton ebbe appena il tempo di percepire un trillo di fischietto, e subito una delle due ombre passandogli davanti, lanciò qualche cosa che colpì il dottore su di una guancia col rumore di uno schiaffo.

    Dietro l'ombra fuggente, balzarono altre due persone che urlavano: — Ferma! Ferma!

    Poi un altro trillo di fischietto, la sagoma di un agente in mantellina di cerata, e subito dopo nella nebbia rimbombò un colpo di pistola che ebbe il potere di immobilizzare qualche passante spaurito contro il tronco dei platani.

    Milton, dopo essersi portato istintivamente una mano al viso, s'era curvato a raccogliere l'oggetto, che era un portafogli di pelle nera.

    Il vocio dell'inseguimento s'era perduto nel dedalo di strade che si diramano fra l'avenue Labourdonnais e l'avenue Bousquet. I passanti che s'erano fermati spauriti, avevano scantonato il più rapidamente possibile per le vie traverse, e Milton si trovò solo, mentre le lampade giallastre del viale, accesesi d'improvviso, facevano risaltare la sua ombra sul marciapiedi umido di guazza.

    Il dottore non tardò a ricostruire mentalmente l'accaduto. Le due ombre che aveva visto fuggire in opposte direzioni, dovevano essere quelle del borseggiato e del borseggiatore. Quest'ultimo stretto da presso dai «flics», aveva voluto evidentemente liberarsi della refurtiva e aveva scaraventato lontano il portafogli, ricevuto da Milton in pieno viso.

    Il colpo di pistola forse era stato esploso da uno dei due agenti o da qualche cittadino allo scopo di dare l'allarme.

    Resosi conto di quanto era successo, il dottore si dette a percorrere tutte le vie adiacenti nella speranza di imbattersi nelle guardie o eventualmente nel derubato, ma dopo un quarto d'ora di ricerche dovette convenire che forse avrebbe fatto meglio a restare sul luogo dove i fatti si erano svolti. Ritornò allora al crocevia di rue St. Dominique, interpellò qualche passante, chiese notizie anche a un tale che stava calando le saracinesche di una specie di «garage», ma evidentemente, per la rapidità con la quale si era svolta la scena e per lo squagliamento dei pochi che vi avevano assistito, tutte le sue domande caddero nel vuoto.

    Un po' seccato del contrattempo e in certo qual modo imbarazzato da quel portafogli che seguitava a stringere nervosamente in mano, finì per ficcarselo in tasca, riprendendo a passi rapidi la strada verso la metrò.

    Nel treno che lo trasportava in direzione de la Madeleine, le sue facoltà furono presto assorbite dai titoli in grassetto dei giornali che il pubblico teneva spiegati, per quanto lo consentiva l'affollamento.

    Per la prima volta si sorprese a leggere dietro le spalle altrui le «recentissime», e subito dopo il dottor Milton, di solito così riservato, si lasciò coinvolgere in un'accanita discussione con una specie di commesso di negozio occhialuto, che voleva dimostrare che la guerra non è necessaria, mentre una donna con un cesto di erbaggi sulle ginocchia lo rimbeccava aspramente.

    A la Madeleine, una folla enorme, un bisbigliare sommesso, un pallore grave su tutti i visi... Il più popoloso e caratteristico centro della Parigi elegante aveva cambiato volto.

    Milton, uscito dalla ferrovia sotterranea, si guardò in giro stupefatto, con la sensazione di vivere un sogno pauroso.

    Dal boulevard des Capucines giungeva il vocio degli strilloni; tentò dirigersi da quella parte, ma una specie di marea proveniente da rue Tronchet lo sballottò contro l'angolo di rue Vignon. Uno scoppio inopinato di applausi gli fece alzare il capo verso un balcone dove un vecchio signore aveva esposto una bandiera, poi si udì il frastuono di una vetrata del caffè Madeleine che andava in frantumi fra un urlio concitato di voci rauche.

    Due agenti si precipitarono mulinando il bastone bianco. Dal tumulto uscì un nucleo di persone, in mezzo alle quali emerse l'uniforme di un sergente degli Chasseurs che era stato sollevato a braccia da quattro giovani in berretto goliardico... vociferazioni... trilli di fischietto... il canto della Marsigliese...

    Le automobili bloccate ai passaggi chiodati, strombettavano per ottenere il via.

    Non fu che molto più tardi, quando giunse sudato e stravolto negli uffici del quai des Orfèvres, che il dottor Milton si ricordò di avere in tasca qualche cosa che non gli apparteneva, e precisamente un portafogli del quale fra l'altro ignorava ancora il contenuto.

    Pressappoco alla stessa ora, il campanello di casa Druck squillava in quel certo modo per cui il rilegatore, senza neanche alzare gli occhi dalle dispense che stava ricucendo, brontolò: — Questo è Ernest — e in tono più alto — Marguerite... vai ad aprire!

    Ernest Doucet era il tipo del pensionato di medio ceto. Di corporatura massiccia, un po' curvo, con un viso grassoccio e bonario e due baffetti bianchi, uno volto in su, l'altro in giù, per l'abitudine che aveva di arricciarsene uno con la mano destra nei momenti di distrazione.

    Tutto sommato un buon uomo con un bagaglio modesto di idee, idee alle quali tuttavia egli era attaccato in modo quasi caparbio.

    Entrò portando con sé l'odore della nebbia e in certo senso l'eco dell'animazione esterna.

    — Ci siamo! Druck... questa volta ci siamo! In così dire si tolse di tasca un giornale spiegazzato e lo posò con forza sul banco del rilegatore.

    — Piano... che Yeyette dorme... — mormorò con dolcezza la signora Marguerite avvicinandosi al Doucet per aiutarlo a togliersi il soprabito, e l'altro, che non poteva parlar sottovoce senza che il timbro diventasse rauco, chiese con una involontaria intonazione da cospiratore: — Come sta la piccola?

    — Bene, oggi non ha neanche tossito... anzi ha giocato fino a un momento fa... ora però l'ho messa a dormire.

    Un'ombra di rammarico si disegnò sul viso del pensionato, poi la politica fu più forte, e voltandosi al rilegatore che per leggere il giornale aveva inforcato un vecchio paio di occhiali, esclamò: — Siete convinto adesso?

    L'altro alzò le spalle senza rispondere, continuando la lettura con le sopracciglia aggrottate.

    Il suo viso illuminato crudamente dalla lampadina bassa da lavoro, il cui paralume lasciava tutto il resto dello stanzone in ombra, sembrava scolpito in una materia saponacea.

    Un giorno la portinaia, che a causa di certo calcio ricevuto dal suo gatto aveva avuto a che dire col rilegatore, si era espressa in questi termini: — Basta guardarlo in faccia per capire che non è dei nostri...

    La battuta aveva fatto il giro del cortile riscuotendo la generale approvazione.

    — Certo... non si può dire che sia cattivo, ma non è dei nostri... ecco! — aveva ripetuto madame Louchet che al mezzanino fabbricava bomboniere di cartone con una piccola macchina a pedale e due bambine che l'aiutavano, e perciò quando parlava del suo lavoro usava dire: — Noi industriali...

    — Io sono un libero pensatore e me ne infischio delle razze e delle frontiere, ma quello là non è francese... — aveva ribadito in un'altra occasione il tappezziere Émile Frossard che ricuciva materassi nello stesso cortile.

    In realtà Casimir Druck era semplicemente alsaziano, ma un po' per la malattia di fegato che lo tormentava, un po' per certo suo naturale spirito di contraddizione, unito a un congenito pessimismo, era portato a veder tutte le cose sempre dal lato peggiore, e quando dava un giudizio il suo viso angoloso e scialbo acquistava una durezza che per la maggior parte dei vicini testimoniava, insieme col suo cognome, di un'origine troppo specificatamente teutonica, perché bastasse una linea di frontiera, d'altronde molto recente, a renderlo francese. La moglie invece era una parigina del sobborgo, che il rilegatore aveva sposato per il fatto che essendo una sua ex operaia lo poteva aiutare. Poi era venuto al mondo Henriette, che per il momento si chiamava Yeyette perché lei stessa pronunziava a quel modo il suo nome.

    Come ebbe finito di leggere, Casimir Druck si tolse gli occhiali e respingendo il giornale con una leggera smorfia di disgusto brontolò: — Se credono di aver salvato il mondo in questo modo...

    — Allora si doveva lasciar occupare Danzica senza far mostra d'accorgersene?

    La moglie del rilegatore, che in fatto di discussioni politiche aveva parecchie esperienze precedenti, si intromise.

    — Vedrete che sarà come l'anno scorso... un po' di chiasso e poi si metteranno d'accordo...

    — Ah, no, signora! Un'altra Monaco mai! —gridò il Doucet come se dipendesse da lui far la guerra o meno, poi ricordandosi che Yeyette dormiva, aggiunse con voce cavernosa: — I tedeschi vogliono la guerra, e guerra sia!

    Discussioni di questo genere si susseguivano da più di un mese nello stanzone maleodorante di colla, e la signora Marguerite ci aveva fatto l'abitudine, ma quella sera sembrava che i due amici (perché in definitiva si trattava di vecchi amici abituati da anni a passar le serate insieme) mettessero nelle loro parole una specie di acrimonia, talché quando il rilegatore, che aveva finito di cucire le dispense, andò ad accendere il fornelletto a gas dove si scaldavano i ferri per l'applicazione della sfoglia d'oro, le sue dita tremavano leggermente. La signora Marguerite, che aveva tolto di sotto il torchio i volumi già rilegati, e li stava affiancando col dorso sotto la luce, tentò un ultimo diversivo.

    — Del resto la Polonia è lontana, e prima che la guerra di laggiù venga fin qui...

    — La Polonia, Hitler se la mangerà in un boccone!

    — È quello che staremo a vedere... l'epoca dei bluff è passata, adesso chi ha più legna farà più fuoco...

    Dallo stanzino del retrobottega, che assieme alla cucinetta formava tutto l'alloggio dei Druck, giunse una specie di miagolio. Allora la signora Marguerite scappò di là esclamando: — Ecco, ora me l'ha svegliata...

    Restò vicino al letto della bambina finché non la vide acquietata, e durante tutto questo tempo le giunse la eco delle battute irose che i due uomini seguitavano a scambiarsi in tono sempre più veemente.

    Ritornata nel laboratorio, vide che Ernest Doucet si stava infilando il soprabito tutto rosso in viso come un gallinaccio.

    — Ve ne andate già, signor Doucet?

    — Me ne vado... sì, me ne vado in Francia!

    La frase era così evidentemente polemica da riuscire persino un po' buffa.

    La signora Marguerite aiutando il vecchio a mettere il soprabito a sesto, mormorò sorridendo: — Non sapevo che fosse così facile venire all'estero senza passaporto...

    — Lascialo andare... — replicò rabbiosamente il marito, — se no arriva tardi alle dimostrazioni patriottiche... lui è di quelli che fanno numero nei cortei con bandiere...

    — Per vostra regola e norma io ho fatto numero anche in trincea venti anni fa... e come volontario... e sono pronto a ritornarci anche come soldato semplice!

    Questa ultima precisazione fece sogghignare Druck:

    — Come generale sarà un po' difficile...

    — Non ho mai detto di essere generale... sono sergente e me ne vanto, ma voi sapete che cosa siete?!

    La parola non fu pronunziata, perché la signora Marguerite gli aveva messo una mano sulla bocca implorando cogli occhi, ma l'altro l'aveva capito lo stesso e si era alzato pallidissimo urlando:

    — Ditelo, dunque, ditelo!

    Ernest Doucet sospinto dalla moglie del rilegatore uscì brontolando una filza di parole incomprensibili, e la porta dette un tonfo sordo dietro le sue larghe spalle.

    Nel corridoio che faceva capo al cortile, la portinaia, che evidentemente aveva origliato all'uscio, fingeva di scopare. Nel cortile la nebbia metteva un alone giallastro attorno all'unica lampada che illuminava malamente il portone, e dal mezzanino si udiva il rumore ritmico della macchina a pedale della signora Louchet che faceva marciare «la sua industria». Appena uscito in strada il pensionato sentì sbollirgli la rabbia. Una voce gli diceva che egli aveva forse esagerato, ma come sempre succede in questi casi c'era anche un'altra voce, quella dell'amor proprio, che gli sottolineava le colpe dell'altro.

    Il vecchio oscillava fra il puntiglio di non volersi lasciar sopraffare e la tema di perdere il suo cantuccio vicino al tavolo del rilegatore, la tazza di caffè che gli offriva quasi sempre la signora Marguerite e gli strilli di Yeyette, un complesso che per un vecchio scapolo come lui aveva il suo valore.

    Perciò andava brontolando lungo la rue Amélie, ma già fra gli attacchi e le difese, il suo cervello cercava inconsciamente il modo di rappacificarsi coi Druck.

    Nel cinereo crepuscolo autunnale, i palazzi grigi erano fondali di uno scenario mal dipinto, col rettangolo di qualche finestra illuminata qua e là.

    Il commissario Émile Richard della 2a Brigata Mobile, ascoltò distrattamente quello che il dottor Milton gli raccontava a proposito del borseggio di rue Dominique, e il portafogli giaceva abbandonato sugli scartafacci che ingombravano la scrivania.

    Ogni tanto il telefono trillava, e il cranio calvo del commissario curvandosi verso il microfono luccicava sotto la lampada a paralume.

    — Pronto... sì, commissario Richard... va bene, ma non ho più uomini... Chiedete ai motorizzati!

    Poi posando rabbiosamente il telefono sulla staffa: — Caro Milton la nostra guerra è già cominciata... cortei di qua, dimostrazioni di là... e questo è niente... quando incominceremo lo sgombro della popolazione civile, vi voglio... bisognerebbe che io riuscissi a moltiplicare gli agenti come i pani e i pesci di biblica memoria... dunque, dicevate?

    — Dicevo che non sapendo a chi restituire il portafogli l'ho portato qui...

    — Ah, già... il portafogli... e che cosa contiene?

    — E chi lo sa!

    — Non lo avete neanche aperto?... Pronto?! Sì... commissario Richard... ma non ho più personale, l'ho già detto, sono tutti fuori, compreso i piantoni e i telefonisti... ce n'è uno al centralino che presta servizio da dodici ore consecutive!... — poi ritornando a Milton dunque... dicevamo che il portafogli... ah, eccolo qui...

    Le sue grosse mani palparono un istante la busta di cuoio, poi l'aprirono ispezionando rapidamente il contenuto.

    Un biglietto da venticinque franchi, due biglietti da dieci, un campione di stoffa grigia e un cartoncino sul quale era scritta a penna una filza incomprensibile di numeri e di lettere alfabetiche ternate senza alcun ordine apparente.

    Il commissario girò e rigirò il cartoncino, guardandolo anche controluce, poi mostrandolo a Milton disse: — Il vostro borseggiato usa scritture cifrate...

    Il dottore esaminò a sua volta il piccolo rettangolo bianco sul quale spiccava la seguente scritta

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    — Un crittogramma?

    — Ne ha tutta l'aria... — poi allungando una mano verso il telefono, aggiunse: — Dove avete detto che è avvenuto il borseggio?

    — All'angolo di rue Dominique.

    — Pronto... 2a Brigata... dammi il Centro-Servizi... Pronto, sì commissario Richard... addio Bastingue... guarda, un po' sulla tabella chi era di servizio questa sera all'angolo di rue Dominique... sì... presso a poco alle diciotto...

    Passò un certo tempo prima che dall'altra parte del filo si rispondesse, e intanto Milton continuava a fissare curiosamente il preteso crittogramma.

    Molto più giovane di Richard, il dottore, che con questi era legato da lunga amicizia, costituiva in un certo senso l'antitesi e in un certo altro il complemento del vecchio commissario. Venivano tutti e due dal popolo ed erano saliti con le loro forze, ma mentre il commissario aveva conservato della sua origine tutti i tratti fisici e alcune caratteristiche morali fra le quali non ultimo un certo buon senso pratico, il dottor Milton, valendosi di speciali attitudini, si era raffinato, occupandosi oltre che di medicina anche di altre attività che con la medicina nulla avevano a che fare, come la ricerca di anticaglie nelle botteghe antiquarie e di tele ultramoderne presso le Gallerie della «rive gauche», la lettura di libri che trattano dell'occultismo e la soluzione dei problemi polizieschi.

    Da questo miscuglio era venuto fuori un curioso tipo di scienziato dall'aria snob, che passava indifferentemente le ore libere coltivando i cactus più rari in una strana soffitta da lui abitata in rue de Dragon, oppure occupandosi di ricerche nel campo della metapsichica.

    Il commissario Richard che faceva vita un po' solitaria, con una sorella zitellona, non solo non disdegnava la compagnia del suo giovane amico, ma spesso la sollecitava, specialmente nei casi più difficili, quasi sentisse che dove non poteva arrivare la sua esperienza e il suo pur miracoloso fiuto di vecchio segugio, poteva talvolta giungere l'intuito balzano del suo giovane collaboratore.

    Milton senti barbugliare nel microfono la voce del commissario Bastingue e vide Richard scrivere su di un pezzo di carta due nomi: Martaud e Gilbert.

    — Dove li posso pescare? Ah... ho capito, grazie... Il commissario posò il cornetto sulla staffa e suonò il campanello. Nell'inquadratura della porta apparve un impiegato d'ordine piuttosto macilento, con gli occhiali a stanghetta di traverso su di un naso aquilino.

    — Fai un salto alla mensa... devono essere rientrati dal servizio gli agenti Martaud e Gilbert... portameli su.

    L'uomo scomparve silenziosamente, e per qualche minuto nell'ufficio polveroso non si udì che il tic-tac della pendola stile Impero, il cui bronzo dorato si rifletteva nello specchio verdastro del falso caminetto.

    Fu ancora il commissario che ruppe il silenzio mormorando a mezza voce come se parlasse, a se stesso: ... il signore se ne andava in giro coi crittogrammi nel portafogli... perciò se l'è squagliata dopo il borseggio... a meno che...

    — Può darsi che gli agenti lo conoscano e lo abbiano ritrovato.

    — Può darsi...

    In quel momento si udì uno scalpiccio nell'anticamera e qualcuno bussò all'uscio.

    Poi fecero il loro ingresso due agenti che dovevano essersi riagganciato il bavero della giubba con una certa precipitazione, tanto che le cravatte erano fuori posto.

    Il più anziano si dava ancora dei buffetti sul davanti della giubba dove si vedevano delle briciole di pane.

    — Chi è Martaud?

    — Sono io, signor commissario.

    — E voi siete Gilbert?

    — Sissignore.

    — Che cosa è successo in rue Dominique?

    — Ah, il signor commissario è già al corrente? — disse il più anziano — io mi riserbavo di fare il rapporto domattina...

    — Un borseggio?

    — Probabilmente, per quanto noi non abbiamo visto il borseggiato... venivano dall'avenue Reclus diretti alla metrò dell'École Militaire... avevamo ricevuto il cambio in ritardo per via che la pattuglia del Trocadero...

    — Abbreviate, che cosa avete visto?

    — Ecco, signor commissario, più che vedere, abbiamo sentito gridare due individui che si colluttavano all'angolo di rue Dominique... ci siamo slanciati e mi pare che Gilbert abbia fischiato senza pensare che nei dintorni non ci potevano essere pattuglie... ma sapete come succede... l'abitudine...

    — Andate avanti...

    — Fatto sta che appena i due ci hanno visto, uno è scappato, e noi naturalmente ci siamo attaccati a quello... correva come una lepre, ma l'avrei agguantato lo stesso se all'angolo di boulevard Bousquet non fossi scivolato di quarto... guardate ho ancora il pantalone strappato qui...

    — E voi? — chiese il commissario volgendosi all'altro.

    — Io seguivo a distanza a causa che ieri mi sono tagliato un callo e ho un piede fuori uso... ma siccome marcar visita non serve...

    — Insomma il vostro tipo vi ha piantato in asso...

    — Proprio così — balbettarono confusi i due agenti — ma se non era per la nebbia e per il lastricato umido...

    — E chi ha sparato?

    — Sono stato io — borbottò chinando la testa quello del callo — speravo che qualche collega accorresse...

    — Sapete che è proibito sparare se non in caso di assoluta necessità?

    — Ho sparato in aria...

    — Peggio... sparare in aria non serve che a far del chiasso inutile e a giustificare la reazione dell'inseguito, quante volte lo devo ripetere? Basta, e il borseggiato?

    — Il borseggiato, abbiamo avuto un bel cercare, non lo abbiamo più visto.

    — Potreste riconoscerlo se lo vedeste?

    I due agenti allargarono le braccia in un gesto sconsolato più eloquente di qualunque risposta.

    — Bene... potete andare...

    Usciti gli agenti, il commissario rigirò ancora fra le mani il cartoncino col presunto crittogramma, poi borbottò:

    — Il mio dovere sarebbe quello di metterlo in una busta e rifilarlo all'Ufficio degli oggetti smarriti, ma mi voglio levare una curiosità...

    Si riattaccò al telefono e quando ebbe il centralino chiese l'Ufficio Tecnico degli specializzati.

    — Pronto... c'è Lavis? Ah, sei proprio tu... che cosa c'è... cambi anche voce? Ah, il raffreddore? Be'... fai un salto qui che ho un divertimento per te.

    — È quel tale delle impronte? — chiese Milton.

    — Quello delle impronte, quello delle fotografie, quello delle reazioni chimiche... è Lavis, insomma, quando si è detto Lavis si è detto tutto... all'Ufficio Tecnico ci sono più di una decina di specializzati, ma in fondo chi fa tutto è Lavis... guai se non ci fosse lui... ed è sempre così, caro Milton, gira e rigira, la società si regge su due o tre perni... tutti gli altri sono comparse.

    Colui che era stato preceduto da una così lusinghiera presentazione, tanto più lusinghiera in quanto il commissario Richard non era largo in riconoscimenti, si presentò masticando una pallottola di chewing-gum.

    Era un giovanottino esile, con un gran ciuffo di capelli biondi che gli ricadeva sulla fronte a baule picchiettata dalle efelidi. Gli occhi azzurri arrossati ai bordi battevano dietro le lenti «a pince-nez» come se fossero stanchi di aver vegliato troppo sotto la luce intensa delle lampade da laboratorio. Il suo corpo di adolescente fluttuava in un camice troppo ampio costellato di macchie d'acido, e quando allungò le mani per prendere il cartoncino che il commissario gli tendeva, Milton vide che le unghie quasi non esistevano più.

    Questo strano personaggio, sempre masticando la sua gomma aromatica dette un'occhiata al biglietto, poi barbugliò: — Ne avete bisogno subito?

    — Subito relativamente...

    — Perché ho due perizie piuttosto lunghe da consegnare prima della fine della settimana... poi c'è l'affare della bottiglia che è arrivata da Nantes... e siccome questo è un giochetto che bisogna prendere e lasciare...

    — Come sarebbe a dire? — chiese Milton incuriosito.

    — Vedete, dottore... i crittogrammi, come i rebus, non si può pretendere di risolverli tutti in un colpo... bisogna incominciare a guardarli, poi bisogna metterli in un cassetto e non pensarci più... il giorno dopo si riguardano, si incominciano a studiare i numeri e le lettere raggruppandoli in vario modo... si tenta l'applicazione di qualche «griglia»... poi, un'altra volta nel cassetto... intanto il cervello lavora per suo conto...

    — Il subcosciente forse...

    — Forse... io non m'incarico di dargli un nome, ma so per esperienza che dopo due o tre giorni, oppure due o tre settimane, il cervello, o il subcosciente, come dite voi, trova la spiegazione... magari mentre uno dorme... ma guai a insistere o a pretendere di trovar la soluzione in poche ore.

    — Be', insomma fai tu — concluse il commissario che sbadigliava un po' per il sonno e un po' per l'appetito, poi quando Lavis se ne fu andato facendo frusciare il suo camice sbrindellato, borbottò: — Bravo ragazzo, ma bisogna lasciarlo fare... come tutti quelli che lavorano sul serio del resto...

    Poi si alzò, andò a infilar il pastrano, ma si era appena messo in testa il cappelluccio a fungo che faceva di lui una delle figure caratteristiche della Sûreté parigina, allorché il telefono trillò nuovamente.

    — Al diavolo anche la guerra! E pensare che siamo appena in principio... Pronto... sì, commissario Richard... non posso essere che io, quale altro imbecille volete che sia in ufficio a quest'ora? Ah, sei tu Harpe? Che diavolo è successo? Dove? Rue Amélie... e dov'è questa rue Amélie? Trocadero? Ho capito... va bene, vengo subito!

    Poi, posato il telefono brontolò: — Addio cena... vi consiglio di andarci voi, Milton, voi che lo potete...

    — Di che si tratta?

    — Non so, pare che ci sia un morto in una certa rue Amélie... l'ispettore Harpe mi ha parlato di circostanze.

    — E perciò volete liberarvi di me?

    Il commissario Richard sorrise e disse: — Andiamo!

    All'effervescenza popolare di poco prima, era subentrata una specie di cupa stupefazione che non prometteva niente di buono. Le strade erano sempre affollate, ma sembrava che gli uomini si fossero stancati di discutere e camminassero assorti nella sola compagnia dei loro pensieri.

    I negozi avevano calato le saracinesche, la gente si affrettava verso casa affollando gli autobus, e forse, solo a sera inoltrata, le edizioni notturne dei giornali avrebbero potuto iniettare un altro soffio di ardore ai parigini, per lo meno a quelli disposti ad uscir di casa.

    Il commissario Richard e il dottor Milton presero un tassì e si fecero portare in rue Amélie.

    — Numero? — chiese l'autista.

    — Mi pare che sia il sette, ma non ne sono sicuro... te ne accorgerai tu stesso...

    L'uomo del volante si strinse nelle spalle senza capire bene il senso della frase, ma dopo una ventina di minuti, allorché la macchina ebbe girato l'angolo di rue de Grenelle, vide un assembramento davanti al portone numero sette e borbottò:

    — Adesso capisco...

    Il portone era chiuso per metà e un agente di piantone salutò il commissario, sbracciandosi subito dopo a respingere i curiosi, fra i quali c'era la solita donnetta con la bottiglia dell'olio in mano, che nella confusione non riusciva a far capire che «lei abitava al quinto piano e doveva necessariamente entrare di lì».

    Nel cortile l'ispettore Harpe stava interrogando la portinaia e prendeva degli appunti su di un notes. Contro il muro, cinque o sei persone in gruppo attendevano il loro turno per essere interrogate.

    Sui ballatoi si curvavano ombre silenziose che scrutavano con occhi avidi una macchia più chiara visibile sul fondo buio della corte.

    Il commissario andò verso il cadavere, e accendendo una lampadina tascabile tolse lo straccio col quale Harpe lo aveva ricoperto. Apparve la sagoma di un uomo piuttosto corpulento, coi capelli bianchi, un baffetto su e l'altro giù... Ma quello che rendeva particolarmente impressionante lo spettacolo, non era tanto il pallore spettrale di quel faccione che in vita doveva essere stato roseo e che ora appariva così bianco da sembrare infarinato, ma il fatto che su quel viso di luna piena si ergeva un naso di cartone... un naso vermiglio di cartapesta incastrato sul naso del morto, e questo attributo carnevalesco era quanto di più macabro il commissario avesse mai visto in quarant'anni di duro mestiere.

    Capitolo II

    Il cortile di rue Amélie

    — Chi è l'ucciso? — domandò brevemente il commissario Richard all'ispettore Harpe.

    — Certo Ernest Doucet, abitante nella casa, tutti gli inquilini lo hanno riconosciuto...

    — È stato colpito nel luogo dove si trova?

    — No, all'ingresso del portone... poi l'uomo comprimendosi il ventre è entrato nel cortile ed è caduto quasi al centro... esattamente qui... la striscia di sangue che vedete indica il percorso che ha seguito...

    In quel momento il dottor Milton che con un'altra lampadina tascabile aveva esaminato attentamente il cadavere, si avvicinò al commissario.

    — Ha ricevuto una pugnalata o altro colpo di arma affilatissima all'addome... direzione dal basso in alto... c'è una vasta lacerazione al peritoneo, ma l'uomo è morto dissanguato per recisione di vasi arteriosi importanti.

    — Secondo voi quanto tempo è intercorso fra il momento in cui è stato ferito e il momento in cui è morto?

    — Una mezz'ora al massimo.

    — E nessuno ha sentito nulla? — chiese il commissario rivolto al gruppo di persone che si trovavano nel cortile.

    Nell'ombra si vide qualche gesto desolato, poi Harpe spiegò:

    — La portinaia dice di aver udito qualche gemito, ma ha creduto che fosse Madame Louchet che qualche volta soffre d'asma e siccome abita al mezzanino... si sente...

    — Dove alloggia il Doucet?

    — Al quinto piano di questa stessa casa... di giorno lavorava come impiegato al primo piano, dove c'è la rappresentanza delle bilance Skempton.

    — Tu che hai visto com'era situato il cadavere, pensi che si dirigesse verso le scale?

    — No, signor commissario, tutti quelli che hanno visto il morto hanno detto che egli è caduto mentre tentava di raggiungere il laboratorio del rilegatore che è quello lì di fronte... sembra che siano molto amici...

    A queste parole fece eco uno scoppio di pianto femminile e delle ombre si agitarono fra un sussurrio di compatimento; il pianto si tramutò poi in una specie di singulto isterico e si vide la donna abbattersi fra le braccia dei soccorritori che la portarono via di peso.

    Anche dai ballatoi giunse un mormorio confuso, mentre un nome si concretava passando di bocca in bocca: — È la signora Marguerite...

    L' ispettore Harpe spiegò: — La moglie di Druck... il rilegatore...

    Come sempre succede in simili casi, il pianto della donna provocò per contagio gli strilli di una bambina, poi si udirono i rimbrotti di una voce maschile e un'imposta sbatté con violenza.

    Dall'interno della rilegatoria, giungevano affievoliti i singhiozzi della donna.

    Una casigliana passò ciabattando con la boccetta dei sali. Poi si fece un gran silenzio. Il cortile e i suoi insoliti frequentatori costituivano un unico blocco con la nebbia. In alto le ringhiere dei ballatoi, illuminate dalla luce giallastra che proveniva dall'interno delle camere, davano alla scena un sinistro aspetto carcerario.

    Il commissario Richard ruppe quell'incubo con pochi ordini brevi.

    — Tu, Harpe, metti un piantone al morto, poi va a telefonare agli esperti e al fotografo... voi, Milton, venite con me?

    In così dire si diresse verso la rilegatoria, seguito dal dottore, ma prima di entrare, rivolto a tutti e a nessuno, ordinò ancora: — Avvertite l'agente di servizio al portone che per uscire o entrare, fino a domani ci vuole il mio permesso... nessuna eccezione e per nessun motivo.

    Nel silenzio profondo che seguì queste parole, si udì, proveniente dai piani superiori, il trillo di uno svegliarino. Il Commissario alzò il capo e qualcuno commentò nel buio:

    — È Fournier che si alza...

    La frase cadde nel vuoto. Evidentemente la vita continuava, e in questa vita c'era ancora un Fournier che andava al lavoro alle nove di sera.

    — Siete voi il proprietario, qui?

    — Sissignore.

    — E vi chiamate?

    — Casimir Druck.

    — Tedesco?

    — No, alsaziano...

    Il commissario aveva formulato le sue domande nel modo più naturale, ma l'uomo aveva risposto seccamente tenendo le mani in tasca e guardando con occhi torvi il pavimento.

    — Fate il rilegatore?

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