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Belsorriso
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Belsorriso

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About this ebook

Belsorriso è un'isola immaginaria, dalla forma inequivocabile e dalle leggi ferree. Una di queste è che i ragazzini che frequentano la scuola di "Sopra il colle" non possono addentrarsi nella zona archeologica. Marcel ha 11 anni e troppa voglia di scoprire cosa c'è dietro quel muro. Dopo la fuga nella zona proibita, rientra con una corsa all'ultimo respiro ad Acquamarina, il Villaggio dove risiede. Ha con sè un libro che condivide con i suoi amici Jack e - soprattutto - Elvis, un ragazzino Dotato Ottimamente ma Vagante Verso Nettuno (Down): solo lui può interpretare quel libro incomprensibile. Quale segreto nasconde l'area archeologica di Belsorriso? Insieme a Luna, inseparabile compagna di classe, Marcel, Jack ed Elvis si troveranno a dover difendere l'isola dal piano del professor Metrik: usare la Sfera delle Meraviglie, una struttura iper-tecnologica, per conquistare e raccogliere in un enorme database tutti i sogni e i desideri. Il libro avrà un ruolo determinante nella resistenza di Belsorriso. E anche il teatro l'avrà. Perché il teatro difende la libertà di immaginazione e regala la più potente delle emozioni. La storia sfiora delicatamente il tema della disabilità.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateSep 20, 2018
ISBN9788827846414
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    Belsorriso - Giampiero Remondini

    )

    COLPA DEL VENTO

    1.

    Quello che spuntava dal terreno, in mezzo alle rovine, sembrava l’angolo della copertina di un libro. Marcel non l’avrebbe mai visto se non fosse stato debolmente illuminato da una lucina fioca che gli baluginava intorno. Stava vagando ormai da mezz’ora nella proibitissima zona archeologica di Belsorriso e tutto quello che era riuscito a vedere erano i resti di monumenti, strade e chiese, illuminati dalla luna e da una coperta di stelle senza precedenti. L’undicenne Marcel aveva due strade di fronte: poteva accontentarsi di aver violato le regole numero 4 e 7 del Gran Consiglio degli Anziani, e quindi tornare velocemente ad Acquamarina, il suo villaggio, sperando di non essere visto da nessuno. Oppure poteva pensare che cinque minuti in più non avrebbero cambiato nulla. Che il rischio di espulsione non sarebbe aumentato poi di molto. Che quel bagliore così tenue, quasi invisibile, doveva celare qualcosa di misterioso.

     Quel libro poteva essere antichissimo. Proprio come il muro un po’ sforacchiato, alto un paio di metri, che aveva davanti.

    «C’era qualcosa, qui, secoli fa», pensò spostandosi di alcuni metri per cercare il punto giusto dove scavalcarlo. Ecco: Marcel aveva appena deciso quale sarebbe stata la sua strada. Il cuore gli batteva forte nel petto ed era una splendida sensazione di feliciura, quella felicità mista a paura di cui mille volte aveva parlato con la sua amica Luna. Chissà che faccia avrebbe fatto, undicenne anche lei, quando le avrebbe mostrato quel libro, il frutto del suo coraggio. Regola numero 4: varcare di nascosto il cancello dell’isola comporta una punizione di dieci punti. Regola numero 7: tentare di attraversare il muro della zona archeologica? Quindici punti. Dieci + quindici = venticinque. Vide come in un flash il sorrisino malefico del vecchio professor Metrik, nel comunicargli che ne sarebbero bastati appena undici per essere espulsi senza possibilità di appello dall’isola. E chissà le risate che avrebbero fatto quelli del Villaggio dell’Efficienza nel dare l’ordine di scolpire il suo nome sullo Scoglio della Vergogna. In trecento anni era capitato solo a tre ragazzini: Marc Boller, Philippe Cardigan e Lucy Donovan. Poveretti, erano diventati gli zimbelli dell’isola e nemmeno la morte, avvenuta per vecchiaia, li aveva fatti dimenticare, visto che i loro ritratti stavano persino sui libri di storia. Nonostante il buio, però, Marcel era così impegnato da non avere tempo di avere paura. 

    «Lo sapevo che c’era qualcosa!»

    Questo era l’unico pensiero che si affacciava nella sua mente, guardando quella lucina dalla fessura del muretto.

    «Ce la faccio, ce la faccio!» e quando la senti nel cuore, quella certezza, non c’è niente che ti possa fermare. Puoi attraversare il mare a nuoto, puoi scalare una montagna e parlare con le nuvole, puoi contare le stelle e ripartire dalla parte opposta senza che te ne scappi una. Non pensava a niente Marcel sollevandosi con le braccia per scavalcare il muro. Pensava a tutto quel vento di tramontana dentro di lui, che lo spingeva verso l’alto, dove lui stesso voleva andare e cioè alla scoperta della zona archeologica e dei suoi segreti. Però che meraviglia questo vento. Marcel continuava a non pensarci minimamente, ma non poteva fare a meno di sentirne gli effetti.

    «Mi sembra quasi di avere le ali!», non pensava. Non era come quando stava lì dietro il banco a sentire le noiosissime lezioni di storia del professor Archivio. Si accorse della presenza di una nuvola colorata di rosso chiaro. Il vento le aveva scolpito una stranissima forma di veliero e lui... si trovava di fronte! 

    «Bu... buongiorno nuvola...»

    «Buongiorno ragazzo, non ti ho mai visto da queste parti. Che ci fai qui?»

    «Non lo so nemmeno io. Stavo, ehm, scavalcando il muro della zona archeologica. Io posso farlo, sai?»

    «Certo che puoi, perchè ti stupisci?»

     Il vento fresco gli accarezzava i capelli, che sembravano persino più neri e lucidi del solito. Marcel stava vivendo una sensazione meravigliosa e la nuvola invece che rimproverarlo lo ascoltava! 

    «Io... un po’ lo sapevo, un po’ non ci credevo e quando provavo a crederci smettevo di saperlo.»

     Ma come fa una nuvola a parlare? verrebbe da pensare. E infatti Marcel non ci pensava affatto. Si accontentava di parlarle. Lei lo ascoltava ed era bellissimo. 

    «E adesso ci credi, ragazzo?» chiese la nuvola.

    «Io ci credo eccome. Mi chiamo Marcel e sto volando oltre il muro dove nessuno è mai riuscito ad andare. Ho visto una lucina, ho visto un libro, lo porterò con me perchè sento di doverlo fare.»

    «Allora vai, Marcel. E non dimenticare che tu puoi. Qualunque cosa succeda.»

    «Come ti chiami, nuvola? Posso tornare a trovarti?» chiese Marcel che già cominciava a scendere.

    «Puoi chiamarmi Nuvola Magica, se vuoi. E non so quando ci rivedremo.»

    Proprio in quel momento Marcel vide che la brezza stava sospingendo da quelle parti un banco di chiassosi cirrocumuli, che anticipavano enormi cumulonembi più lontani. Va bene, sarà un sogno, ma sembra tutto così vero... In effetti il gruppo continuava il suo percorso con il passo irrequieto di chi è già altrove. Ogni tanto qualcuno tamponava Nuvola Magica. Un distratto «Ah, mi scusi».

    Poi un altro. E un altro. E un altro ancora.

    Lo spettacolo sembrerebbe strano a chi è troppo abituato a stare con i piedi per terra. In realtà, tamponamenti tra nuvole sono all’ordine del giorno.

    L’ennesimo curiosissimo scontro, cui Marcel assistette senza avere il tempo di dire una parola, provocò un terrificante tuono che lo fece sobbalzare. L’urlo di rabbia di Nuvola Magica disperse qua e là le pecorelle e fu accompagnato da un bagliore a forma di freccia molto simile a un lampo. Lo stratagemma ebbe il suo effetto, ma intanto il cielo iniziava a cambiare colore...

    «I soliti distratti», sbadigliò Nuvola Magica. «Sono quasi peggio dei prepotenti. Quelli che fanno la faccia cattiva e poi se ne vanno con la panna tra le gambe».

     Passato l’attimo di sbigottimento Marcel riprese il filo del discorso.

    «Ma non hai avuto paura? Io lo so che sto sognando, cara Nuvola Magica, ma voglio ugualmente dirti che i prepotenti qualche volta se ne vanno solo dopo aver fatto qualche danno!»

     Lei fece un grosso sospiro. Sembrò guardarlo con un misto di comprensione e di complimenti per aver scoperto l’acqua calda. 

    «Bah. Diciamo che ogni tanto ci scambiamo le opinioni. E allora arriva il temporale».

     Marcel rimase a bocca aperta per lo stupore. Queste rivelazioni spiegavano molte cose.

    «Beh, adesso non posso stare a spiegarti, Marcel. Mi sento così gonfia di gioia.... penso proprio che domani ci sarà una pioggerellina di felicità su Belsorriso. Comunque al tuo posto non sarei così sicuro di trovarmi in un sogno. A proposito, come sta il grande vecchio?»

    «Metrik è veramente insopportabile», rispose Marcel.  «Prima o poi gliela facciamo vedere io Elvis, Jack e Luna».

    «Ma lascia perdere Metrik, sto parlando di Chiarosegno!».

     Marcel si sentì avvolgere da un brivido e sorrise. «Chiarosegno è amico degli studenti dell’isola. Lui dice sempre che un bambino creativo è un bambino felice ¹*».

    «Ecco la risposta alle tue paure, ragazzo», disse la Nuvola Magica. «Un bambino creativo è un bambino felice. Porta i miei saluti a Chiarosegno e ricordati che per fare qualcosa bisogna crederci. E avere molta, ma molta pazienza».

     C’è da non credere a cosa la vita riesce a metterti di fronte. Intanto il vento diminuiva d’intensità, permettendo a Marcel di planare dolcemente verso terra. Era un’esperienza che gli riempiva il cuore, si sentiva invincibile. 

     Il vento diminuiva. 

     Aveva parlato con una nuvola. Forse stava sognando, ma lei diceva di no... Però, guarda che splendido panorama. Ma quella non è Sopra-il-colle? Ma certo che è lei. E’ la scuola!

     Il vento diminuiva. 

     Ci fosse un po’ di tempo si potrebbe fare un giretto oltreoceano. «Guarda lì!» esclamò parlando da solo. 

     Marcel stentava a crederci, ma scendendo piano piano riusciva ancor a vedere la forma caratteristica che dava il nome all’isola: quella di un sorriso, appunto. Riconobbe perfettamente la zona abitata. Dopo Acquamarina, il villaggio verde smeraldo dove risedeva lui, riuscì a scorgere il profilo degli altri: anch’essi erano stati battezzati con il nome di gemme e pietre preziose, per ricordare la ricchezza interiore di ogni persona che vi risiedeva. Vide Topazio, l’organizzatissimo villaggio dell’efficienza, dove dominava il colore giallo. Poi vide Rubinia, quello degli sportivi, tutto dipinto di rosso. Più in là indovinò la sagoma azzurra di Zaffiria, dove dormivano i piccoli reporter, mentre Opalia, il bianco villaggio degli inventori, era praticamente invisibile. Erano solo due mesi che stava a Belsorriso, ma se li ricordava già tutti.

     E il vento diminuiva ancora. 

     Pensò che Luna, Elvis e Jack non ci avrebbero mai creduto.

     Forse il vento stava diminuendo un po’ troppo. 

    «Riesco a scavalcare il muretto e a non avere paura di quello che c’è dietro», pensò Marcel.

    «Aveva ragione la Nuvola. E adesso atterro in piedi! Ma è proprio un portento questo Vento. Quasi quasi risalgo e riscendo!»

     L’entusiasmo non gli consentiva di rendersi conto che le condizioni atmosferiche stavano decisamente mutando. 

    «Io ce la faccio!» canticchiava allegramente. 

    «Io ce la faccio, io.... AAHHIAAAAAA!»

     Il suo urlaccio ruppe il silenzio nell’aria.

    «Certo... che ce... la faccio. Io...»

     Puoi fare tutto quando c’è quel vento che ti trascina. Anche inciampare. Improvvisamente. E cadere quando lui, Vento traditore, altrettanto all’improvviso, smette di soffiare e se va per una altra direzione. Successe a Marcel alle 22 e18 in punto di quella splendida notte stellata, oltre il muro sforacchiato della zona archeologica di Belsorriso. Tutto si era compiuto: la scelta era stata fatta e non si poteva più cambiare niente.

    «No. No non è possibile, non è successo!»

     Dolore, spavento e incredulità presero il sopravvento. Si sedette appoggiando la schiena a un grosso tiglio per raccogliere le idee, mentre i suoi occhi neri cercavano una via di uscita nel buio.

    «Ahia la caviglia. No, non l’ho messa male!»

     Negare sempre. Anche l’evidenza.

    «Non me la sono stortata! Forza adesso mi alz....ahiaaaa!!!»

     Ma negare l’evidenza è molto spesso impossibile. Diceva maliziosa la Signora Evidenza con la sua evve moscia molto salottiera:

     Cavo Mavcel, hai pveso una bvutta botta alla caviglia destva. Sei seduto con la schiena appoggiata al muvo, all’intevno della zona avcheologica di Belsorriso, dove non dovvesti assolutamente esseve. Diciotto minuti fa si sono spente le luci nelle cameve di tutti i villaggi degli studenti e tva 45 minuti Cvawl (Crawl) passevà nelle stanze per dave la solita occhiata.

     Marcel aveva imparato a non dare troppo retta agli scherzi della sua immaginazione. Non era proprio il momento per le fantasie. Si alzò di scatto, restando appoggiato di schiena al muro e caricando il peso sul piede sinistro. Era un ragazzino sveglio, ma la situazione si era fatta maledettamente complicata. Bastò un’occhiata fugace per rendersi conto che da quella parte del muro non si vedeva un solo appiglio per scavalcare e tornare indietro. Rimase impietrito per qualche secondo. Poi reagì d’istinto. Ricacciò indietro il pensiero del suo volto impresso sui libri di storia e decise che l’unica cosa da fare era andare avanti, nell’oscurità fortunatamente rischiarata dalla luna e dalle stelle. Si staccò dal muro e fece un timido passo in avanti.

    Rumore di un rametto spezzato.

    Fu come se qualcuno si tuffasse nel suo cuore e ci nuotasse un po’. Altro passo, altro rametto. Era lui, per fortuna. Per terra c’era un tappeto di foglie ingiallite, davanti a lui si delineavano i contorni di una struttura completamente diroccata, a forma di ferro di cavallo. Avanzò molto lentamente. Sì, adesso si vedeva meglio. Sulla destra della struttura c’era una torre di mattoni. Sembrava antichissima. La caviglia era bollente e la sentiva pulsare, ma il dolore era diminuito.

    «Avrò percorso una decina di passi prima di scavalcare il muro», pensò. «La luce arrivava più o meno dalla base della Torre». 

     Un alito di vento freddo sollevò le foglie che presero a mulinare e ad alzarsi da terra in un vortice spaventoso. Ma Marcel riuscì a mantenere la calma. Fece ancora qualche passo in direzione ovest e raggiunse finalmente la torre. Era a base quadrangolare, alta circa venti metri, larga cinque e fatta tutta di mattoni rossi a vista. Appena decise di girargli intorno vide di nuovo quella lucina che illuminava l’angolo del libro. Si avvicinò e si abbassò per raccoglierlo. Sarebbe stata la prova che aveva superato la zona proibita dell’isola. Levò velocemente la terra con le mani e lo raccolse. La lucina non si spense. Il libro aveva la copertina color oro: sfogliò distrattamente le prime pagine, ma c’era un gran buio ed era difficile interpretare il significato dei segni stampati su quelle pagine. Marcel capì immediatamente che non era quello il momento migliore per leggerlo. 

     Aveva ancora poco più di mezz’ora per tornare indietro e farsi trovare in camera sotto le coperte. Altrimenti Metrik l’avrebbe cacciato per sempre dall’isola. Ora il problema principale era trovare il punto adatto per superare il muro. Mise il libro sotto il giubbotto e percorse la strada a ritroso. Si era abituato al rumore delle foglie e dei rami spezzati e non ci faceva più caso. Ma di fronte continuava ad avere solo il muro. Ne tastò il perimetro per alcuni metri, senza scovare la benchè minima traccia di appigli per scavalcarlo. 

     Era buio e il cuore aveva ricominciato a battergli forte. Ma come aveva fatto a saltarlo dall’altra parte? Non se lo ricordava più. Il vento e Nuvola Magica erano solo vaghe sensazioni, sepolte nel suo cuore. Dieci e 36. Mancavano 24 minuti al giro di ricognizione di Crawl. Venti ne servivano per arrivare al villaggio, salvo eventuali proteste della caviglia. Aveva non più di quattro minuti per superare quell’ostacolo durissimo. Provò a saltare a braccia alzate in un inutile tentativo di appigliarsi a qualcosa che non c’era. Il muro sembrava persino più alto. Tre minuti, non di più. Poi la speranza tornò a invadere il suo cuore, quando l’occhio gli cadde su una larga fessura. Sarà stata alta non più di quaranta centimetri da terra e larga cinquanta. Si sdraiò e l’umidità della terra gli fece salire un brivido lungo la schiena. Cercò di non farci caso, quindi strisciò fino dalla parte opposta. Ventidue e 38. Si alzò in piedi e si guardò intorno. Calcolò, o almeno credette di farlo, la direzione e la distanza dalla torre. Poi emise la sentenza: 

    «Di là, ne sono certo». E cominciò a correre più veloce del vento. 

     Solo cinque minuti dopo, alle 22,43, riconobbe un boschetto di cedri che spuntava da una collinetta ed ebbe la certezza matematica che la direzione era quella giusta. Ma capì che la strada era ancora lunga e riprese a correre. Non sentiva più il dolore alla caviglia, ma in compenso il cuore gli sembrava scoppiasse. 22 e 54: il vialone alberato che porta al gruppo di villaggi. Due filari di milioni di platani lugubri e tutti ripiegati su di lui in un abbraccio mortale. Un tappeto di foglie nere nel buio e un traguardo che è solo un inarrivabile punto all’orizzonte. La sua mente esausta e terrorizzata vide così i trecento metri di viale alberato che separava i villaggi dal mondo esterno. Sei minuti, probabilmente qualcosa di meno. Bisognava riprendere fiato. E poi ripartire per l’ultimo sprint. Da una parte la gloria, così almeno credeva, dall’altra la vergogna. Marcel ripartì e arrivò alla cancellata alle 22,56. Seppe immediatamente riconoscere la sbarra che poteva essere rimossa per passare e questo gli fu di grande aiuto. Finalmente era tornato dentro. Ma non c’era tempo per festeggiare. Se l’avessero beccato adesso gli avrebbero fatto mille domande. Troppo rischioso, bisognava stringere i denti. Acquamarina, il villaggio dell’Epressione dove risiedeva, era a non più di cinquanta metri. Mentre gli correva incontro la sua testa cominciò a cercare una scusa nel caso qualcuno gli si fosse parato davanti proprio in quel momento.

    «Dove stai andando?»

     Tumpf. Da almeno due ore il cuore di Marcel ospitava, a intervalli regolari, le Olimpiadi di tuffi carpiati, ma quella voce ebbe la forza di travolgerlo. Era Metrik, settantanovenne capo del Gran Consiglio di Belsorriso. Unico Giovane Sindaco capace di farsi eleggere cinque volte consecutive, dagli 11 ai 15 anni, prima di lasciare l’isola come da regolamento. Ambiguo e sorridente, sorridente e ambiguo. Potente. Privo di scrupoli per costituzione e quindi vincente. Era lì, a non più di sette, otto metri. Camminava lentamente, con un’andatura quasi ipnotica e con quei folti baffi piegati all’insù, che sembravano meduse sul punto di allungarsi per afferrarlo. E intanto allungava le braccia verso di lui, sorridendo nel buio rotto dalla luce calda delle lanterne. Marcel non vide avvicinarsi la sconfitta. Vide proprio il marchio della vergogna eterna che stava per imprimersi sulla sua carne. Cercò immediatamente di costruirsi una scusa plausibile.

    «Ho sentito un rumore e sono sceso a controllare. No, è ridicolo. In queste condizioni non mi crederebbero mai...» pensò. Metrik sorrideva cinque passi più avanti.

     Guardando le due fessure che aveva al posto degli occhi, Marcel sentì di non avere più scampo e si preparò al peggio. Il Capo Supremo del Gran Consiglio degli Anziani gli arrivò a meno di tre metri. Sembrava non vederlo nemmeno tanto gli era superiore. Fece un passo in avanti. Poi un altro. A Marcel parve strana la posizione delle braccia. Erano tese in avanti come per acchiapparlo, ma quella posizione era incompatibile con la lentezza di movimento del resto del corpo.

    «Dove stai andando?» ripetè il vecchio con fare minaccioso, avvicinandosi. Marcel si sentì perduto. Pensò a quello che avrebbero detto i suoi genitori sapendo che il loro unico figlio sarebbe stato espulso da Belsorriso. Pensò a suo padre, alle mille raccomandazioni sull’importanza di studiare a Sopra-il-colle, la scuola più all’avanguardia. 

    «Spalle al muro scacco matto», pensò.

     Furono gli occhi di ghiaccio di Metrik, invece, a fargli capire che era salvo. Erano... chiusi. Metrik stava camminando ad occhi chiusi! Il più grande bugiardo mai vissuto sull’isola, la leggenda vivente che spaventava sorridendo... era un sonnambulo! Appena Marcel ne ebbe la consapevolezza cominciò a spostarsi piano piano. Si teneva le mani sulla pancia per paura di perdere il libro nascosto. Muovendosi di soppiatto, a bocca aperta, non staccava gli occhi di dosso a Metrik, che intanto proseguiva la sua passeggiata nottambula ripetendo Dove vai? al suo immaginario interlocutore. Vide la Signora Evidenza inciampare nel suo lunghissimo vestito rosso di organzino e cadere per terra con uno strillo agghiacciante. Vista la situazione decise di non infierire su di lei e ripetè lo scatto di pochi minuti prima. Corse a perdifiato fino al portone e lo spinse. Elvis aveva rispettato i patti ed era sceso a socchiuderlo prima di andare a letto. Salì all’impazzata un piano di scale e svoltò sinistra. Percorse un’altra decina di metri ed entrò nella terza camera, quella che divideva con Elvis e Jack. Una frazione di secondo dopo sentì Crawl urlare.

    «Chi è là?!»

     Si tolse il giubbotto, buttò il libro sotto il letto e si mise vestito sotto le coperte. Crawl stava controllando le camere. Quando entrò nella sua, vide tre ragazzini che dormivano profondamente. O almeno così gli sembrò. Non seppe mai, Crawl, quanto si era sbagliato quella sera. Pochi minuti dopo due di loro erano seduti sul letto che ascoltavano, increduli, i concitati sussurri del terzo. Marcel raccontò del vento che l’aveva aiutato a scavalcare il muro, raccontò dello stranissimo incontro con Nuvola magica, dell’arrivo del banco di cirrocumuli, dei cumulonembi e del tuono. Spiegò loro del senso di accoglienza che aveva provato nel parlare con una Nuvola e di fronte all’espressione scettica di Jack insistette con forza fino a convincerlo del tutto che non si trattava di un sogno. Quando disse del suo atterraggio dalla parte opposta del muro notò che l’attenzione di Elvis stava visibilmente crescendo d’intensità. Poi arrivò il momento del libro. Scese con un balzo e ficcò il braccio sotto il letto cercandolo a tentoni. Lo prese in mano e si avvicinò alla finestra per cercare di vederlo meglio. Jack ed Elvis fecero altrettanto.

    «Era coperto dalla terra», disse sottovoce, «ed era illuminato da una luce. Ora che mi ricordo la luce ha continuato ad esserci anche quando l’ho portato via. Deve essere un libro davvero misterioso». Mentre sfogliava le prime pagine finì il racconto della sua avventura, ma si rese conto che Elvis era molto attratto da quel libro.

    «Hai rischiato davvero l’espulsione», bisbigliò Jack.

    «Metrik sonnambulo... ma perchè non gli hai fatto uno sgambetto?»

    «Bravo! Così si sarebbe svegliato!» rispose Elvis ad alta voce.

    «Ssshhh!!!» lo rimproverarono i due. «Vuoi svegliare tutti?!».

     Ma Elvis non seguiva esattamente le stesse logiche di Marcel e Jack perchè lui era un Down. La sigla identificava i bambini nati con un cromosoma in più. Per questa sua caratteristica Elvis aveva tempi di comprensione leggermente più lenti e qualche difficoltà in più nell’esprimersi, ma in compenso aveva una fantasia superiore alla media e una capacità di distrarsi fuori dal comune: l’abbreviazione Down (Dotati Ottimamente ma Vaganti Verso Nettuno), gli si addiceva perfettamente. Siccome tra ragazzi non ci si chiede il numero di cromosomi prima di diventare amici, la questione non aveva impedito la nascita di un legame molto forte con i suoi compagni di Acquamarina.

     Elvis aveva i capelli di color marrone e li pettinava ogni mattina con una cura quasi maniacale. Gli occhi furbi erano di un verde bellissimo e quasi a mandorla. Quando combinava qualche scherzo a qualcuno, li piantava su quelli del suo interlocutore esterrefatto (o arrabbiato, o divertito) per poi girarli da una parte abbassando gli angoli della bocca. Elvis aveva già quindici anni ma frequentava solo il primo anno. Per lui la permanenza a Belsorriso sarebbe durata di più. Fino a quel momento non aveva detto molto, ma quando vide Marcel sfogliare le prime pagine del libro cambiò espressione e si concentrò su di esso. Lo prese delicatamente tra le sue mani, ma prima disse «Posso?»

    Poi sfogliò la prima pagina girandola con la stessa cura che si avrebbe nell’accarezzare un neonato. Elvis rispettava quel libro esattamente come rispettava cose e persone che lo circondavano. Marcel lo lasciò fare e cercò di capire qualcosa. Sia lui che Jack erano troppo furbi per fidarsi delle apparenze: sapevano entrambi molto bene che dai Dotati Ottimamente c’era molto da imparare.

    «Ci sono strani segni», sussurrò Jack. «Cosa sono? E quello mi sembra un disegno, Elvis, ma cos’è?»

     Elvis girò la seconda pagina con una lentezza esasperante, ma aveva ragione perchè quando Jack avvicinò istintivamente la mano per voltarla più in fretta, la pagina si strappò orizzontalmente.

    «Ti vuoi calmare?!» gli intimò lanciandogli un’occhiataccia.

    «Ehm, si, ehm, scusa Elvis...» fu la risposta di Jack.

     Elvis sfogliò la terza pagina. La guardò intensamente poi chiuse il libro con cura e lo porse a Marcel dicendogli una frase alla sua maniera. Un pezzo alla volta.

    «E’ un tesoro. Di un valore. Immenso. Nascondilo. Curalo. Sarà la nostra. Fortuna», disse esprimendosi a scatti.

     Poi sbadigliò e disse allegramente. «Teresaaa! Vado a letto. Ciao». Fece uno scatto goffo e due minuti dopo stava russando.

    «Perchè chiama sempre questa Teresa?» domandò sottovoce Jack che proprio non capiva l’abitudine di Elvis.

    «Non lo so», rispose sussurrando Marcel che aveva imparato a voler bene ad Elvis anche quando non lo capiva. «Io non riesco a decifrare niente di questo libro, lui sì. Domani gli chiederemo qualche altra spiegazione e ne parleremo con Luna. Adesso è meglio che ce ne andiamo a dormire, Jack».

     Nascosero il libro sotto una piastrella della camera e andarono entrambi a letto. Si addormentarono subito. Dolcemente cullati dall’emozione di una splendida avventura che stava per incominciare.

    GIORNO DI INTERROGAZIONI E DI STRANE SORPRESE

    2.

     La mattina di lunedi 14 ottobre, alle 7,30 in punto, le camere di tutti i villaggi di Belsorriso furono dolcemente invase dalla note

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